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lunedì 20 maggio 2019

#Almanacco quotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 20 maggio.
Il 20 maggio 1795 viene eseguita la condanna a morte dell'avvocato Francesco Paolo Di Blasi.
Dopo che nell'ottobre 1794 avevano trovavano la morte a Napoli i primi martiri degli ideali della libertà, dell'uguaglianza e della democrazia repubblicana, i giovani studenti Vincenzo Vitaliani, Emanuele De Deo e Vincenzo Galiani, toccò in Sicilia ad altri patrioti repubblicani subire la condanna a morte nel 1795 per amore della Repubblica e dell'uguaglianza.
Tali patrioti siciliani erano guidati dall'avvocato Francesco Paolo Di Blasi. Del suo sogno di instaurare in Sicilia una Repubblica ce ne parla lo scrittore Leonardo Sciascia in uno dei più riusciti romanzi storici, Il Consiglio d'Egitto, da cui è stato tratto un lavoro cinematografico, riconosciuto come d'interesse culturale nazionale dalla Direzione generale per il cinema del Ministero per i Beni e le Attività Culturali italiano, in base alla delibera ministeriale del 24 marzo 2000.
Avvocato palermitano, già dal 1779, il ventenne Di Blasi aveva elaborato una riforma tributaria che colpisse i latifondisti, prima di scrivere la sua opera più importante: Dissertazioni sopra l'egualità e la disuguaglianza degli uomini in riguardo alla loro felicità.
Un altro testo importante del Di Blasi è Saggio sopra la legislazione della Sicilia, in cui si mostrava seguace delle nuove dottrine di Beccaria, di Filangieri e Mario Pagano, elaborando un’interessante descrizione degli abusi e pericoli dei giudizi penali.
Pietro Colletta, forse il maggiore storico italiano dell’epoca, scrisse di come nei primi mesi del 1795 “ […] le genti affamate per iscarso raccolto[…], impoverite per nuovo tributi, scontente dell’arcivescovo Lopez, tumultuarono. Un avvocato Blasi, ed altri pochi si unirono in segreto per consultare se quella popolare disperazione bastasse ad aperto sconvolgimento”.
Ricordiamo che l’arcivescovo Filippo Lopez y Royo (Monteroni di Lecce, 26 maggio 1728 – Napoli, 1º maggio 1811) era in quegli anni di antico regime viceré di Sicilia.
Francesco Paolo De Blasi, quindi, progettava da tempo una rivolta nell’isola per liberarla, secondo un’espressione di Atto Vannucci, “dal giogo barbarico dei vescovi, dei baroni e del re”, ed era riuscito ad organizzare nel suo movimento popolani e soldati, basando realisticamente il disegno rivoluzionario sulla promozione degli ideali di libertà, uguaglianza, su necessarie riforme contro lo strapotere dei baroni e contando sul malcontento profondo e diffuso.
L’isola, in quel tempo, era una delle terre più dimenticate dallo Stato che l’amministrava e la sfruttava.
Come scrive Giuseppe Ferrari, in quel tempo di tirannia da antico regime “non distinguevasi da Napoli se non per una barbarie più profonda dei governanti”.
Il moto insurrezionale avrebbe dovuto scoppiare a Palermo il 3 aprile 1795 in occasione della processione del Venerdì Santo al grido di “Viva la Repubblica! Abbasso i privilegi!”.
I congiurati furono traditi e Di Blasi fu arrestato con tre suoi compagni del movimento insurrezionale: Giudo Tinagli, Benedetto La Villa e il sergente Bernardo Palumbo. A tradirli erano stati un tal Giuseppe Teriaca, argentiere, e un soldato svizzero del reggimento comandato da Carlo Jauch.
Leonardo Sciascia, ne Il Consiglio d’Egitto, scrive che “se l’occhio del mondo e l’età l’avessero consentito, monsignor Lopez y Royo, a sentire quelle rivelazioni, per la gioia si sarebbe arrampicato alle tende, ai panneggi, ai lampadari”.
In effetti Sciascia, a proposito del ruolo che Mons. Filippo Lopez y Royo ebbe nella condanna dell’avvocato Francesco Paolo Di Blasi, fa di lui lo stereotipo dell’inquisitore spagnolo, le cui uniche preoccupazioni “erano quelle, interdipendenti, di tener d’occhio i giacobini e di restare a fare il viceré”.
Le pagine più toccanti di Sciascia sono quelle che descrivono la tortura subita dal Di Blasi, in cui, nello scontro dialettico tra la vittima ed i suoi carnefici, tratteggia un ritratto dell’umanità in cui i colori prevalenti sono costantemente quelli dell’avidità unita all’ignoranza e alla prepotenza, mentre verità e ragione sono sempre destinate a soccombere.
Uno dei dotti carnefici si rivolge all’avvocato Di Blasi con parole sarcastiche: “Hai scritto che la tortura è contro il diritto, contro la ragione, contro l’uomo: ma su quello che hai scritto resterebbe l’ombra della vergogna se tu ora non resistessi… Alla domanda quid est quaestio? Hai risposto in nome della ragione e della dignità: ora devi rispondere col tuo corpo, soffrirla nella carne, nelle ossa, nei nervi; e tacere… Quel che avevi da dire sulla questione lo hai detto…”
Con dignità Francesco Paolo Di Blasi subì la decapitazione il 20 maggio 1795, privilegio concesso in virtù del suo rango nobile, mentre i compagni Giulio Tinagli, Benedetto La Villa e Bernardo Palumbo furono impiccati.

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