Buongiorno, oggi è l'11 maggio.
L'11 maggio 1994 la Guardia di Finanza compie i primi sequestri di quella che fu battezzata "Italian Crackdown".
L’11 Maggio del 1994 prendeva drammaticamente corpo l’operazione Hardware1, più tristemente nota come Italian Crackdown o Fidobust. All’alba di quel mercoledì, uno spiegamento di forze senza precedenti perquisiva contemporaneamente le sedi di 173 BBS pubblici, sequestrando indiscriminatamente tutto ciò che, nella perquisizione, avesse anche lontana attinenza con l’informatica.
Nonostante all’epoca internet fosse una entità ancora da venire, la telematica personale era nel nostro paese una realtà consolidata, in larga parte grazie alla presenza diffusa di Fidonet, una rete internazionale di sistemi telematici aperti, gratuiti e connessi in rete fra di loro, che offrivano servizi di messaggistica e distribuzione di quello che oggi definiremo software aperto. Dal 1985 la rete Fidonet – composta esclusivamente da entusiasti innovatori che investivano tempo e risorse nell’interesse della collettività – si era profondamente evoluta ed era arrivata ad interconnettere alcune centinaia di sistemi locali, che assommavano svariate migliaia di utenti.
Erano gli anni pionieristici della prima diffusione dei personal computer, ma in Fidonet vi era già grande attenzione alle problematiche legate alle licenze ed al copyright: il regolamento (la policy) imponeva infatti che “(il gestore del nodo) non promuove o partecipa alla distribuzione di software piratato e non ha altri tipi di comportamento illegale via FidoNet”, norma sempre rispettata senza grandi problemi.
Fidonet anticipava di gran lunga una direttiva CEE, che nel 1992 invitava gli stati membri ad emanare regolamentazioni nazionali atte a tutelare il diritto di autore in materia di software, che, in mancanza di legislazione specifica, era interpretato in maniera del tutto disomogenea.
L’Italia scelse di andare ben oltre le richieste CEE, ed associò alla detenzione di software non originale non solo conseguenze civilistiche, ma anche pesantissime sanzioni penali. Nonostante la legge le limitasse ai soli casi in cui vi fosse finalità di lucro, l’interpretazione che ne veniva data in quei tempi era che il lucro fosse costituito dal mancato esborso di denaro, senza sostanziale differenza se a duplicare abusivamente software fosse un ragazzino collezionista o un negoziante che lo vendesse illecitamente.
Sta di fatto che l’indagine prese il via proprio da due ragazzini del pesarese che scambiavano software. Nei loro computer fu trovato un elenco di BBS ai quali, come altre migliaia di appassionati, si collegavano frequentemente. Furono proprio quei numeri memorizzati ad essere considerate le prove principe dell’esistenza di una estesa organizzazione dedita allo spaccio di software. Cosa che aggiunta all’assioma che il possesso di una apparecchiatura atta alla duplicazione (leggi, un computer) giustificasse le perquisizioni, diede il la all’operazione, sostenuta da accuse pesantissime (associazione a delinquere, duplicazione fraudolenta di software, violazione di sistemi informatici terzi, persino contrabbando), e senza alcuna indagine preliminare.
E’ inutile sottolineare che la vicenda sconvolse la vita di tantissime persone, animate solo da interesse verso la tecnologia e volontà di offrire un servizio alla collettività. La loro unica colpa fu di avere il numero del proprio BBS registrato nella rubrica telefonica delle persone sbagliate, pagando così lo scotto dell’incompetenza altrui nei confronti di una materia nuova e ostica.
Con il tempo fu evidente come la realtà fosse totalmente diversa da quella ipotizzata dagli inquirenti, e che i sysop della rete Fidonet erano completamente estranei al mondo della pirateria del software. Ma la vicenda fu estremamente dolorosa ed ebbe come conseguenza la decimazione della rete. Oltre ai tanti nodi chiusi perché sottoposti a sequestro, e che non riaprirono più, furono in molti a ritenere che il rischio derivante dal gestire un BBS fosse assolutamente ingiustificato ed a chiudere le attività.
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