Cerca nel web

lunedì 16 marzo 2020

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 16 marzo.
Giovedì 16 marzo 1978, alle 9.02 del mattino, in via Fani all'incrocio con Via Stresa, nel quartiere Trionfale a Roma, un commando composto da circa 19 brigatisti rossi rapisce il Presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, e uccide i cinque componenti della scorta: il Maresciallo dei Carabinieri Oreste Leonardi, l’appuntato Domenico Ricci, il Brigadiere Francesco Zizzi, l’agente Raffaele Jozzino e l’agente Giuliano Rivera.
Secondo la deposizione di Valerio Morucci al processo Moro Quater la disposizione del commando era la seguente: alla guida della 128 bianca che ha il compito di frenare bruscamente e causare il tamponamento con la 130 Fiat su cui viaggiava Moro c'è Mario Moretti. A controllare l'incrocio c'è Barbara Balzerani armata di un mitra e di una paletta per far defluire il traffico. A sparare sono Valerio Morucci e Raffele Fiora , collocati sul lato sinistro della vettura di Moro, mentre a sparare sull'Alfetta di scorta sono invece Prospero Gallinari e Franco Bonisoli anch'essi collocati sul lato sinistro della vettura . Su Via Stresa c'è la 132 guidata da Bruno Seghetti che ha il compito di fare marcia indietro su Via Fani e caricare l'Onorevole Moro. Ma a chiudere la scena dell'agguato, quello che nella terminologia brigatista viene chiamato il” cancelletto superiore” c'è un'altra 128 messa di traverso da cui scendono altri due brigatisti. Non tutto quadra dunque con il racconto di Morucci.
ll primo ottobre del 1993 su incarico della Corte i periti balistici depositano una nuova perizia dove si afferma che, contrariamente a quanto dichiarato da Morucci, a sparare sulla 130 c'è stato almeno un altro brigatista collocato sul lato destro dell'auto dalla parte del passeggero.
Si scoprirà in seguito che del gruppo di fuoco fecero parte anche Alessio Casimirri e Alvaro Lo Jacono. Un'altra componente del commando invece è Rita Algranati, moglie di Casimirri. Del ruolo della "compagna Marzia" nella strage di via Fani hanno parlato successivamente Valerio Morucci e Adriana Faranda. "Le unità del commando - ha raccontato Faranda - erano dieci. Rita Algranati stava all'incrocio con via Trionfale per segnalare l'arrivo di Moro e della sua scorta a Moretti che era sulla 128.
Altre zone d'ombra permangono sulla dinamica dei fatti quel giorno a Via Fani. Quello stesso giorno si trovò a passare in motorino l'ingegnere Alessandro Marini che ha dichiarato che due persone a bordo di una motocicletta Honda esplosero dei colpi contro di lui. Ma le Brigate Rosse hanno sempre negato che quella moto e i suoi due occupanti facessero parte del commando.
Il 15 ottobre del 1993 un pentito della 'Ndrangheta Saverio Morabito ha dichiarato che a Via Fani quel giorno c'era anche Antonio Mirta, altro appartenente alla mafia calabrese, e infiltrato nel commando brigatista. Sergio Flamigni, membro della Commissione Moro e autore di molti libri sull'argomento, riferisce che quando seppe della deposizione di Morabito gli vennero alla mente diversi elementi agli atti della Commissione che avvaloravano l'ipotesi della presenza di un calabrese a Via Fani. Vi era la testimonianza dell'Onorevole Benito Cazora, allora deputato della Democrazia Cristiana che riferì alla commissione: " che venne avvicinato da un calabrese che in una certa fase ebbe a chiedergli di un rullino di foto scattate a Via Fani.
Quelle foto furono scattate immediatamente dopo la fuga del commando brigatista da un abitante in Via Fani: il carrozziere Gerardo Nucci e furono visionate dal giudice Infelisi che le ritenne molto importanti, fatto sta che questo rullino fotografico è scomparso. Forse su quel rullino potrebbe essere impressa l'immagine di questo infiltrato. Queste fotografie sono diventate uno dei tanti misteri del caso Moro.
Le ricerche per trovare Aldo Moro partono subito dopo l’eccidio, ma partono subito con il piede sbagliato . Lo stesso sedici marzo il dottor Fardello dell’Ucigos emana a mezzo telegramma l’ordine di attuare il piano Zero, elaborato per la provincia di Sassari, ma del tutto sconosciuto alle altre questure italiane. L’ordine viene revocato in meno di ventiquattro ore ma del resto la Commissione Parlamentare d’Inchiesta ha accertato che nel ’78 era ancora in vigore un sistema per la tutela dell’ordine pubblico risalente agli anni Cinquanta. Questo nonostante che il Settantasette avesse rappresentato l’apice dell’escalation terroristica con 2000 attentati, 42 omicidi 47 ferimenti, 51 sommosse nelle carceri e 559 evasioni.
Estese a tutta Italia le ricerche si concentrano soprattutto su Roma. Dal 16 marzo al 10 maggio sempre nel territorio urbano di Roma vengono impiegati 172.000 unità tra carabinieri e poliziotti che effettuano 6000 posti di blocco e 7000 perquisizioni domiciliari controllando in totale 167.000 persone e 96.000 autovetture. Qualcuno dirà che si è trattato soprattutto di operazioni di parata. La Commissione Parlamentare d’Inchiesta conclude che la punta più alta di attacco terroristico ha coinciso con la punta più bassa del funzionamento dei servizi informativi e di sicurezza.
Sergio Flamigni, membro della Commissione Moro, afferma: “Le indagini di quei 55 giorni furono contrassegnate da una serie di errori, omissioni e negligenze. Basti citarne una: la segnalazione giunta all’Ucigos al Viminale, una telefonata che comunicava i nomi dei quattro brigatisti, le auto che usavano. Bene questa segnalazione fu trasmessa dall’Ucigos alla Digos che era il corpo operativo per agire in quel momento con oltre un mese di ritardo. Quando la Digos ebbe modo di avere questa segnalazione immediatamente individuò uno dei brigatisti che tra l’altro era tenuto a presentarsi al Commissariato di Pubblica Sicurezza perché era in libertà vigilata. Immediatamente seguendo questo brigatista si giunge a individuare la tipografia di Via Pio Foà dove le Brigate Rosse stampavano i comunicati dei 55 giorni. Se questa comunicazione fosse stata trasmessa un mese prima, forse si poteva con ogni probabilità individuare la traccia che portava alla prigione di Moro”.
Robert Katz, scrittore e giornalista: “Quasi tutti quelli che hanno avuto a che fare con le indagini erano iscritti alla P2, mi meraviglio che tutte le indagini di oggi sono puntate sulle Brigate Rosse, quando la parte più interessante è come si sono svolte le indagini”.
Ma il ruolo della P2 nel sequestro Moro non è mai stato chiarito né dalla Commissione Moro né dalla stessa Commissione sulla Loggia P2.
Secondo Sergio Flamigni gli interessi stranieri intorno alla sorte di Moro convergevano verso la sua eliminazione. Del resto il conto fra Moro e, ad esempio, il Dipartimento di Stato americano si apre gia nel 1964 quando Moro apre ai socialisti e Moro sostiene un superamento del centrismo. Gli americani contestano, ma poi si adeguano. Ma quando Moro vuole passare a un’altra fase di alleanza con i comunisti si apre un altro problema. E da quel momento lo vogliono ucciso, prima politicamente, tentando di attribuirgli lo scandalo Lockheed. Secondo una voce che proviene dall’ambasciata americana a Roma e da uno dei servizi segreti americani. Moro sarebbe l’ "antelope Cobbler" (nome in codice del destinatario italiano delle bustarelle), poi l’Alta Corte Costituzionale appura che Moro non ha nulla a che fare con l’antelope Cobbler.
Corrado Guerzoni uno dei più stretti collaboratori di Moro, che lo ha accompagnato diverse volte negli Stati Uniti ha detto che il Segretario di Stato americano Henry Kissinger minacciò Moro per la sua politica di apertura al partito Comunista. Circostanza che Kissinger ha sempre smentito anche nell’intervista che Kissinger ha concesso a Minoli nel 1983.
Nel Comunicato Numero 1 delle BR, si legge: “Questa mattina abbiamo sequestrato il Presidente della Democrazia Cristiana ed eliminato le sue guardie del corpo, teste di cuoio di Cossiga” (all’epoca Ministro dell’Interno).
Nel comunicato n. 6 del 15 aprile 1978 i brigatisti annunciano che l'interrogatorio è terminato e annunciano la sentenza di condanna a morte. Nel comunicato n. 7 affermano che: "Il rilascio del prigioniero Aldo Moro può essere preso in considerazione solo in relazione alla liberazione di prigionieri comunisti", i nomi dei quali verranno specificati nel successivo comunicato, il n. 8 del 24 aprile: Sante Notarnicola, Mario Rossi, Giuseppe Battaglia, Augusto Viel, Domenico Delli Veneri, Pasquale Abatangelo, Giorgio Panizzari, Maurizio Ferrari, Alberto Franceschini, Renato Curcio, Roberto Ognibene, Paola Besuschio molti dei quali detenuti a Torino, dove è in corso il processo ai capi storici delle prime Brigate. Nell'ultimo comunicato annunciano la conclusione della "battaglia iniziata il 16 marzo, eseguendo la sentenza a cui Aldo Moro è stato condannato" e la promessa che: "Le risultanze dell'interrogatorio di Aldo Moro e le informazioni in nostro possesso, ed un bilancio complessivo politico militare della battaglia che qui si conclude, verrà fornito al Movimento Rivoluzionario e alle O.C.C. attraverso gli strumenti di propaganda clandestini". Ma questa diffusione benchè promessa non avverrà mai.
I partiti reagiscono dividendosi in sostenitori della cosiddetta “linea della fermezza” e fautori della trattativa con i brigatisti. Per la “fermezza” si schierano la maggior parte dei partiti: la DC, il PCI, il PLI, il PSDI e il PRI di Ugo La Malfa, il quale arriva a proporre il ripristino della pena capitale per i rapitori.
Per la trattativa, i socialisti di Bettino Craxi, i radicali di Marco Pannella, la sinistra non comunista, una componente del cattolicesimo dissidente e uomini di cultura come Leonardo Sciascia. Oltre all’ONU, ad Amnesty International, ad esponenti politici ed organizzazioni umanitarie da tutto il mondo, si mobilita per la liberazione di Moro anche Papa Paolo VI – suo amico personale di vecchia data - che attraverso la Radio Vaticana diffonde un appello “agli uomini delle Brigate Rosse”, in cui, tuttavia, il Sommo Pontefice chiede che l’ostaggio venga liberato “senza condizioni”, così avallando – secondo un’interpretazione ormai condivisa – la linea della fermezza. Sandro Pertini, futuro Presidente della Repubblica, dice di non voler seguire il funerale di Moro, ma neanche quello della Repubblica.
Nelle lettere è soprattutto la personalità di Moro ad emergere in modo diretto e senza filtri. Le lettere inviate dalla prigionia, infatti, raccontano la sofferenza e la dignità dell’uomo che pagò con la vita la sua dedizione allo Stato e che non trovò conforto in un mondo politico lontano dalla cosiddetta “prigione del popolo” in cui era ostaggio.
Dopo 54 difficilissimi giorni, segnati da ulteriori attentati delle BR, ma anche dalle strazianti lettere di Moro dalla cosiddetta “prigione del popolo” brigatista, il 9 maggio 1978 la telefonata del brigatista Valerio Morucci annuncia la morte di Moro.
Il corpo viene fatto ritrovare a Roma, nel bagagliaio di una Renault 4 rossa a via Caetani, poco distante dalle sedi del PCI e della DC.
All’omicidio di Moro segue una forte crisi istituzionale: poche ore dopo il ritrovamento del cadavere di Moro, Francesco Cossiga si dimette da Ministro dell’Interno; in giugno, travolto dalle polemiche (non legate al caso Moro) si dimette anche il Presidente della Repubblica, Giovanni Leone. Poi, nel 1979, il PCI dichiara di considerare chiusa l'esperienza dell’unità nazionale.
Aldo Moro fu sepolto nel comune di Torrita Tiberina, piccolo paese della provincia romana ove lo statista amava soggiornare. Aveva 61 anni.
Papa Paolo VI officiò una solenne commemorazione funebre pubblica per la scomparsa di Aldo Moro, amico di sempre e alleato, a cui parteciparono le personalità politiche e trasmesso in televisione. Questa cerimonia funebre venne celebrata senza il corpo dello statista per esplicito volere della famiglia, che non vi partecipò, ritenendo che lo stato italiano poco o nulla avesse fatto per salvare la vita di Moro, rifiutando il funerale di stato e scegliendo di svolgere le esequie dello statista in forma privata.
Per quanto riguarda i processi ai terroristi dei quali è stata accertata la partecipazione al rapimento e all'uccisione della scorta e di Aldo Moro, queste sono le conclusioni:
Rita Algranati: ultima a essere catturata fra i terroristi coinvolti nel caso Moro, a Il Cairo nel 2004, sta scontando l'ergastolo. Fu la "staffetta" del commando brigatista in via Fani.
Barbara Balzerani: catturata nel 1985 e condannata all'ergastolo. In libertà vigilata dal 2006, è tornata definitivamente in libertà nel 2011.  In via Fani presidiava mitra alla mano l'incrocio con via Stresa e durante il sequestro occupava la base di via Gradoli 96 nella quale conviveva con Mario Moretti.
Franco Bonisoli: catturato nella base di via Monte Nevoso 8 a Milano il 1 ottobre 1978, è stato condannato all'ergastolo e oggi è in semilibertà. In via Fani sparò sulla scorta di Moro e alla conclusione del sequestro portò nel covo di Milano il memoriale e le lettere dello statista ritrovate in una prima tranche contestualmente al suo arresto e in una seconda tranche l'8 ottobre 1990.
Anna Laura Braghetti: arrestata nel 1980, condannata all'ergastolo, è in libertà condizionale dal 2002. Durante il sequestro non era ancora in clandestinità: era l'intestataria e l'inquilina "ufficiale", insieme a Germano Maccari, dell'appartamento di via Montalcini a Roma, tuttora l'unica prigione accertata di Moro.
Alessio Casimirri: fuggito in Nicaragua, dove gestisce il ristorante "La Cueva Del Buzo" a Managua specializzato in frutti di mare, è l'unico a non essere mai stato arrestato né per il caso Moro né per altri reati. In via Fani presidiava con Alvaro Lojacono la parte alta della strada.
Raimondo Etro: catturato solo nel 1996, è stato condannato a ventiquattro anni e sei mesi, poi ridotti a vent'anni e sei mesi. Non presente in via Fani, fu il custode delle armi usate nella strage.
Adriana Faranda: arrestata nel 1979, è stata rilasciata nel 1994 per la sua collaborazione con le forze dell'ordine. Non è stata accertata in sede giudiziaria la sua presenza in via Fani, è stata la "postina" del sequestro Moro con Valerio Morucci.
Raffaele Fiore: catturato nel 1979 e condannato all'ergastolo, è in libertà condizionale dal 1997. In via Fani ha sparato sulla scorta di Moro, anche se il suo mitra si è inceppato quasi subito.
Prospero Gallinari: già latitante (durante il caso Moro) per il sequestro del giudice Mario Sossi, è successivamente catturato nel 1979. Dal 1994 al 2007 ha ottenuto la sospensione della pena per motivi di salute, ottenendo gli arresti domiciliari. È deceduto il 14 gennaio 2013. In via Fani ha sparato sulla scorta di Moro e durante il sequestro era rifugiato nel covo brigatista di via Montalcini, unica prigione di Moro accertata in sede giudiziaria.
Alvaro Lojacono: fuggito in Svizzera non ha mai scontato un solo giorno di prigione né per il caso Moro né per l'omicidio dello studente Miki Mantakas ma soltanto per reati legati a traffici d'armi da e per la Svizzera, che non ha mai concesso la sua estradizione in Italia. In via Fani presidiava con Alessio Casimirri la parte alta della strada.
Germano Maccari: arrestato solo nel 1993, rimesso in libertà per decorrenza dei termini e poi riarrestato dopo aver ammesso il suo coinvolgimento nel sequestro, viene condannato a trent'anni, poi ridotti a ventisei, nell'ultimo processo celebrato sul caso Moro. Muore per aneurisma cerebrale nel carcere di Rebibbia il 25 agosto 2001. Insieme ad Anna Laura Braghetti era l'inquilino "ufficiale" dell'appartamento di via Montalcini, unica prigione di Moro finora accertata, sotto il falso nome di "ingegner Altobelli".
Mario Moretti: catturato nel 1981 e condannato a 6 ergastoli. Dal 1994 è in semilibertà e lavora da oltre 14 anni per la regione Lombardia. Capo della colonna romana delle Brigate Rosse, in via Fani era alla guida dell'auto che ha bloccato il convoglio di Moro e della scorta avviando l'imboscata. Nonostante alcune testimonianze oculari, non è stata accertato in sede giudiziaria che abbia sparato. Durante il sequestro occupava con Barbara Balzerani il covo di via Gradoli 96 e si recava quotidianamente ad interrogare Moro nel luogo della sua detenzione e periodicamente a Firenze e Rapallo per riunioni con il comitato esecutivo dell'organizzazione terroristica.
Valerio Morucci: arrestato nel 1979 venne condannato a vari ergastoli. Rilasciato nel 1994, si occupa di informatica. In via Fani ha sparato sulla scorta di Moro e durante il sequesto è stato il postino delle Brigate Rosse insieme alla sua compagna Adriana Faranda.
Bruno Seghetti: catturato nel 1980 e condannato all'ergastolo, è ammesso al lavoro esterno nell'aprile del 1995. Ottiene la semilibertà nel 1999 che però gli viene revocata in seguito ad alcune irregolarità. È tuttora detenuto, e lavora per la cooperativa "32 dicembre" di Prospero Gallinari. In via Fani era alla guida dell'auto con la quale Moro venne portato via dopo l'agguato.
In definitiva, di tutti i brigatisti presenti in via Fani quel 16 Marzo 1978, dal 2006 (dopo 28 anni) solo Algranati, Etro e Seghetti sono ancora in carcere.

Nessun commento:

Posta un commento

Cerca nel blog

Archivio blog