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domenica 22 marzo 2020

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 22 marzo.
Il 22 marzo 1796 prendeva servizio a Roma per conto del Papa, Mastro Titta, al secolo Giambattista Bugatti, boia ufficiale dello Stato Pontificio per ben 68 anni.
Nato a Roma nel 1779, nella sua lunga carriera di "maestro di giustizia" Mastro Titta praticò ben 516 esecuzioni, tutte diligentemente descritte nelle sue "Annotazioni", dal 22 marzo 1796 al 17 agosto 1864, quando, all'età di 85 anni, fu collocato a riposo da Pio IX con una pensione mensile di 30 scudi.
Prima di ogni esecuzione Mastro Titta si confessava e si comunicava, poi indossava il mantello rosso e si recava a compiere l'opera. Quando mazzolava, impiccava, squartava o decapitava, il boia operava con uguale abilità e spesso svolgeva la sua attività anche nelle province. Così annotava gli esordi della carriera di boia: «Esordii nella mia carriera di giustiziere di Sua Santità, impiccando e squartando a Foligno Nicola Gentilucci, un giovinotto che, tratto dalla gelosia, aveva ucciso prima un prete e il suo cocchiere, poi, costretto a buttarsi alla macchia, grassato due frati».
Nella Roma ottocentesca celebri viaggiatori rimasero colpiti dalla crudezza delle scene di esecuzione capitale cui assistettero, come Lord Byron, che conobbe Mastro Titta quando il boia s'avvicinava verso la duecentesima "giustizia". Il poeta inglese, dopo aver assistito a tre esecuzioni capitali tramite ghigliottina, nel 1813 così scriveva al suo amico ed editore John Murray: «La cerimonia, - compresi i preti con la maschera, i carnefici mezzi nudi, i criminali bendati, il Cristo nero e il suo stendardo, il patibolo, le truppe, la lenta processione, il rapido rumore secco e il pesante cadere dell'ascia, lo schizzo del sangue e l'apparenza spettrale delle teste esposte - è nel suo insieme più impressionante del volgare rozzo e sudicio new drop e dell'agonia da cane inflitta alle vittime delle sentenze inglesi».
Charles Dickens restò molto impressionato da un'esecuzione cui aveva assistito in via de' Cerchi, intorno al 1865, e commentava con queste parole la scena: «Uno spettacolo brutto, sudicio, trascurato, disgustoso; che altro non significava se non un macello, all'infuori del momentaneo interesse per l'unico disgraziato attore». Quando il cadavere fu portato via, la lama detersa, e il boia s'allontanava ripassando il ponte, lo scrittore amaramente così concludeva le sue riflessioni: and the show was over.
Infine Massimo D'Azeglio, in alcune pagine de "I miei ricordi", sintetizzò la barbarie della giustizia praticata nella Roma di quegli anni descrivendo un'immagine vista a Porta San Giovanni: «In una gabbia di ferro stava il cranio imbiancato dal sole e dalle pioggie di un celebre malandrino».
Simili scene, però, si ripetevano quotidianamente in tutte le nazioni civili e, nonostante i principi di umanizzazione della pena professati dagli Illuministi e affermati nel celebre libro "Dei delitti e delle pene" da Cesare Beccaria, la "liturgia del dolore" rappresentata in occasione delle esecuzioni capitali pubbliche continuò a trovare sostenitori per tutto il secolo XIX.
Il nomignolo dato al Bugatti fu poi esteso anche ai suoi successori: in alcune terre che fecero parte dello Stato Pontificio (ma a Roma in particolar modo), il termine "mastro Titta" è direttamente sinonimo di boia.
Nei lunghi periodi di inattività svolgeva il mestiere di venditore di ombrelli, sempre a Roma. Il boia viveva nella cinta vaticana, sulla riva destra del Tevere, nel rione Borgo, al numero civico 2 di via del Campanile. Egli era naturalmente mal visto dai suoi concittadini, tanto che gli era vietato recarsi nel centro della città per ragioni legate alla sua sicurezza personale (donde il proverbio "Boia nun passa Ponte", letteralmente "il boia non passa il ponte", cioè "ognuno se ne stia nel suo pezzo di mondo"). Ma siccome a Roma le esecuzioni capitali pubbliche decretate in nome del papa-re, soprattutto quelle che dovevano essere "esemplari" per il popolo, non avvenivano nel borgo papalino ma nella parte centrale della città - a Piazza del Popolo o a Campo de' Fiori o nella piazza del Velabro (dove Monicelli ha ambientato l'esecuzione del brigante don Bastiano nel film Il marchese del Grillo) - sull'altra sponda del Tevere, in eccezione al divieto il Bugatti doveva in ogni caso attraversare Ponte Sant'Angelo per andare a compiere i suoi servigi. Questo fatto diede origine all'altro modo di dire romano "Mastro Titta passa ponte", per dire che era in programma per la giornata l'esecuzione di una sentenza di morte.
Giuseppe Gioachino Belli ha dedicato un sonetto alla figura del boia, il n. 68, composto nel 1830. L'impiccagione di cui si narra è quella di Antonio Camardella, colpevole dell'uccisione del canonico e socio in affari Donato Morgigni - impiccagione eseguita nel 1749, ben prima della nascita del Bugatti. Il boia viene però ugualmente chiamato "Mastro Titta", tanta era la fama di cui già ai tempi del Belli, il Bugatti, giunto appena a metà della sua ultrasessantennale carriera, godeva nello Stato Pontificio.
Un padre, esibendo ammirazione per il boia e per la forca, volendo mostrare al figlio l'impiccagione, lo redarguisce pesantemente, malmenandolo e mettendolo in guardia dal giudicarsi migliore di un qualsiasi delinquente condannato a morte.
« Er ricordo

Er giorno che impiccorno Gammardella
io m’ero propio allora accresimato.
Me pare mó, ch’er zàntolo a mmercato
me pagò un zartapicchio e ’na sciammella.

Mi’ padre pijjò ppoi la carrettella,
ma pprima vorze gode l’impiccato:
e mme tieneva in arto inarberato
discenno: «Va’ la forca cuant’è bbella!».

Tutt’a un tempo ar paziente Mastro Titta
j’appoggiò un carcio in culo, e Ttata a mmene
un schiaffone a la guancia de mandritta.

«Pijja», me disse, «e aricordete bbene
che sta fine medema sce sta scritta
pe mmill’antri che ssò mmejjo de tene». »

Il mantello scarlatto che Mastro Titta indossava durante le esecuzioni, è tuttora conservato nel Museo Criminologico di Roma.

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