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giovedì 19 marzo 2020

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 19 marzo.
La sera del 19 marzo del 2002 un commando di Brigate Rosse uccide il professor Marco Biagi, giuslavorista, consulente di diversi ministri del Lavoro negli ultimi anni (compreso il titolare del dicastero in quel momento, Roberto Maroni), amico di Prodi e di Treu, padre del Libro Bianco sul Lavoro del Governo Berlusconi ma anche tra gli autori del Patto sul Lavoro dei governi del centrosinistra (insieme a D'Antona). L'omicidio viene compiuto a Bologna, con la stessa arma del delitto D'Antona, e nei giorni successivi è rivendicato dalle Br prima con una telefonata al Resto del Carlino e poi con un farneticante documento inviato a un'agenzia on line di Caserta.
Biagi, arrivato in stazione in treno da Modena, dove insegnava Diritto del lavoro, prende la sua bicicletta per far ritorno a casa, in via Valdonica 14. Davanti al portone, alle 20,10 - secondo quanto riferiranno succesivamente alcuni testimoni dell'omicidio - lo attendono almeno tre persone: una è a viso scoperto, due indossano caschi integrali e fuggiranno poi a bordo di un motorino. A colpire, sarà la mano di un solo killer: sei colpi di arma da fuoco, sparati con una pistola semiautomatica - così stabilirà l'autopsia - di cui uno mortale all'altezza del collo. Mentre Biagi cade a terra gravemente ferito - colpito al torace, al capo e a un braccio - l'assassino viene visto avvicinarsi alla vittima per il colpo di grazia.
Il 28 giugno del 2002, il quotidiano la Repubblica pubblica cinque lettere o e-mail dell'economista. Dentro c'è tutta la disperazione di un uomo che si sente abbandonato proprio dalle persone per le quali lavorava.
Il Ministero dell'Interno, in quel periodo diretto da Claudio Scajola, solo pochi mesi prima dell'attentato, aveva privato Marco Biagi della scorta, da lui richiesta proprio per timore di attentati da parte di componenti appartenenti all'estremismo di sinistra.
Una volta tolta, Biagi, tramite lettere scritte a diverse personalità politiche, ne fece nuovamente richiesta visto anche il perdurare delle minacce ricevute, ma questa non gli fu accordata. I brigatisti stessi ammisero che avevano deciso di colpire proprio Biagi in quanto poco protetto.
Il 30 giugno 2002, il Corriere della Sera (e il Sole 24 Ore), pubblica una chiacchierata tra l'allora Ministro dell'Interno, Claudio Scajola, ed alcuni giornalisti che seguono il ministro in visita ufficiale a Cipro.
« A Bologna hanno colpito Biagi che era senza protezione ma se lì ci fosse stata la scorta i morti sarebbero stati tre. E poi vi chiedo: nella trattativa di queste settimane sull'articolo 18 quante persone dovremmo proteggere? Praticamente tutte». E a questo punto il ministro sorprende i presenti quando gli viene detto che Biagi era comunque una figura centrale nel dialogo sociale: protagonista del patto di Milano, coautore del Libro Bianco, consulente del ministero del Welfare, della Cisl, della Confindustria. C'è un attimo di silenzio, Scajola volta le spalle, si blocca, azzarda: «Non fatemi parlare. Figura centrale Biagi? Fatevi dire da Maroni se era una figura centrale: era un rompicoglioni che voleva il rinnovo del contratto di consulenza. »
A causa delle polemiche suscitate da queste affermazioni, il 3 luglio 2002, Scajola rassegnò le sue dimissioni, al suo posto venne nominato Giuseppe Pisanu.
Il barbaro assassinio di Marco Biagi si iscrive in una storia lunga che segue alla sconfitta dei movimenti terroristici nel nostro paese e annovera tra le sue vittime innocenti Roberto Ruffilli, Ezio Tarantelli e Massimo D’Antona.
Un anno dopo l'omicidio, nel registro degli indagati della Procura di Bologna viene iscritto il nome della brigatista Nadia Desdemona Lioce, accusata di attentato per finalità terroristiche o di eversione. La svolta nell'inchiesta arriva dopo una sparatoria sul treno Roma-Firenze. Il 3 marzo 2003 due terroristi delle Br ricercati anche per l'assassinio di D'Antona vengono fermati dalla polizia. Nella sparatoria, uno di loro, Mario Galesi, 37 anni, muore, insieme all'agente Emanuele Petri. L'altra brigatista, Nadia Desdemona Lioce, 43 anni, viene arrestata. Si sospetta che sia coinvolta nell'omicidio di Biagi. Anche Galesi, per gli inquirenti bolognesi, avrebbe fatto parte del gruppo che organizzò e mise in atto l'agguato a Marco Biagi: un supertestimone, che all'epoca tracciò un identikit preciso del terrorista, lo avrebbe riconosciuto come l'uomo che si aggirava in zona alcuni giorni prima l'omicidio del professore, col fare tipico di chi è intento a fare un sopralluogo. Ancora da ricostruire con precisione il ruolo della Lioce, anch'essa riconosciuta a Bologna da alcuni testimoni in seguito alle foto diffuse dopo l'arresto. Uno di questi sarebbe ritenuto particolarmente attendibile dagli investigatori. Anche la donna potrebbe aver partecipato ai sopralluoghi, o essere stata presente sul posto la sera dell'agguato, a coprire le spalle ai killer, mentre viene escluso che fosse in città dopo il fatto.
Nel processo di primo grado, il 1º giugno 2005, la Corte d'Assise di Bologna, dopo ventidue ore di camera di consiglio, condanna a cinque ergastoli altrettanti componenti delle Nuove BR: Nadia Desdemona Lioce, Roberto Morandi, Marco Mezzasalma, Diana Blefari Melazzi e Simone Boccaccini.
Il 6 dicembre 2006, la Corte d'assise d'appello, conferma in secondo grado l'ergastolo per Diana Blefari Melazzi, Roberto Morandi, Nadia Desdemona Lioce e Marco Mezzasalma, riducendo a 21 anni di reclusione la condanna per Simone Boccaccini, riconoscendogli le attenuanti generiche.
Nel terzo ed ultimo grado di giudizio, l'8 dicembre 2007, la quinta sezione penale della Corte di Cassazione di Bologna, conferma il verdetto emesso in secondo grado rendendo definitive le condanne ai brigatisti responsabili, tranne che per Nadia Desdemona Lioce, che non aveva presentato ricorso in cassazione, e per Diana Blefari Melazzi, per la quale decise di annullare la sentenza ritenendo necessario un esame delle condizioni psichiche della donna, richiesto dai suoi difensori. Le venne così diagnosticata una patologia da disturbo post traumatico da stress per il fatto di essere stata sottoposta al carcere duro del 41 bis e per lo stress della condanna in primo grado all'ergastolo. Da li in poi, la Melazzi, cominciò un lento declino depressivo che a poco a poco la fece rintanare in un universo fatto di solitudine e di rifiuto della vita ai limiti dell'autismo, con comportamenti che gli psichiatri definirono paranoici, fatti di lunghi silenzi interrotti solo da attacchi di panico che le facevano apparire ovunque complotti per il cibo avvelenato (rifiutò il cibo addirittura per 28 giorni) o per la convinzione di dover essere uccisa da Massimo D'Alema.
Ma i magistrati che dovevano giudicarla la dichiararono "in grado di stare in giudizio e di rapportarsi al processo" ammettendo "l'indubbio stato di sofferenza della Blefari" ma giudicando che quella sofferenza "derivava dallo stato di consapevolezza del processo" e che i suoi "atteggiamenti apparentemente paranoici, come il rifiuto del cibo, erano una reazione coerente al suo modo di porsi e conseguenza di un forte impatto dell'ideologia Br sulla sua personalità."
Nel nuovo dibattimento di secondo grado che seguì, il 27 ottobre 2009, venne quindi condannata all'ergastolo in via definitiva dalla Prima sezione penale della Cassazione di Bologna.
La sera del 31 ottobre, poco dopo che le era stata notificata la sentenza di conferma dell'ergastolo, la Blefari tagliò e annodò le lenzuola del suo letto facendone un cappio con cui si impiccò nella sua cella di Rebibbia.
Nadia Desdemona Lioce è attualmente reclusa nel carcere di massima sicurezza Le Costarelle di L'Aquila dove sconta la pena dell'ergastolo in regime di 41-bis.

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