Buongiorno, oggi è il 30 novembre.
Il 30 novembre 1936 il Crystal Palace di Londra viene distrutto da un incendio.
Anche se oggi c’è chi pensa che il Crystal Palace sia solo una delle tante squadre calcistiche londinesi, in realtà il suo nome ha una storia antica e prestigiosa, legata alla Great Exhibition del 1851, che ci dimostra come bellezza e fragilità siano un binomio che ci capita purtroppo di applicare troppo spesso all’arte.
Tutto cominciò nel giugno del 1849, quando il principe Alberto, consorte della regina Vittoria, su sollecitazione di un gruppo di banchieri ed industriali britannici della Society of Arts, durante una conferenza a Buckingham Palace, propose di organizzare un’Esposizione Mondiale a Londra (la Great Exhibition), aperta a venditori provenienti da tutto il mondo, ma anche volta a pubblicizzare i prodotti industriali locali, mostrando a livello globale l’egemonia tecnologico-commerciale raggiunta dal paese.
Una volta approvato, non senza difficoltà, il progetto, fu bandito quindi un concorso internazionale di architettura per la realizzazione della struttura destinata ad ospitare l’Esposizione, struttura che Alberto desiderava innovativa e veloce da realizzarsi. Curiosamente, a risultare vittorioso fu il progetto di Joseph Paxton, giardiniere, botanico ed architetto, che si era distinto, sino ad allora, prevalentemente per la costruzione di serre.
L’innovazione che Paxton apportò alla realizzazione delle serre sino ad allora realizzate, fu la costruzione di un tetto arricchito di travi che fungevano anche da canali, per deviare le acque piovane. Una soluzione semplice ed efficace che, coniugata all’inclinazione dei tetti dagli ampi pannelli in vetro, consentiva alla luce di inondare gli interni, persino alle non soleggiate latitudini inglesi.
Quando nel 1840, dopo quattro anni di lavori, Paxton ultimò il «Great Conversatory or Stove», ovvero una grandiosa serra riscaldata per William Spencer Cavendish, VI duca del Devonshire, l’ammirazione dei contemporanei fu davvero straordinaria. Persino la regina Vittoria ed il principe Alberto ne percorsero gli interni in carrozza, deliziati dalla vista degli uccelli variopinti e delle piante tropicali che ne popolavano gli interni.
Non stupisce quindi che la scelta per la realizzazione del simbolo della Great Exhibition cadde proprio sul suo geniale autore e Paxton certamente non deluse le aspettative: in soli quattro mesi eresse una elegante struttura mista in vetro e ghisa, subito soprannominata «Crystal Palace», il «Palazzo di Cristallo», che fu allestita in Hyde Park, per poi essere smontata alla fine dell’evento e trasferita, con qualche modifica, al centro del grande parco di Sydenham, nel Borough di Lewisham, dove divenne un museo ed una sede destinata alle esposizioni.
Questo edificio dalle forme agili ed eleganti, dall’imponente volta a botte e dalle nervature radiali della navata principale ispirate alle foglie di una ninfea, la Victoria amazonica, che occupava un’area di più di 90.000 metri quadri, si inscriveva, stilisticamente, nella produzione architettonica denominata «Architettura del ferro», comparsa in Europa nella seconda metà del XIX secolo, e caratterizzata dall’uso di nuovi materiali da costruzione, quali ossature metalliche e rivestimenti in acciaio e vetro, materiali legati alle innovazioni tecnologiche della Rivoluzione industriale.
Era destino, tuttavia, che l’edificio di cristallo, già vanto della corona inglese, non dovesse durare a lungo: sfuggito miracolosamente ad un primo rogo del 1866, esso venne completamente distrutto da un secondo incendio il 30 novembre del 1936 e persino le due torri laterali superstiti furono abbattute nel corso della seconda guerra mondiale, perché si temeva divenissero un pericoloso punto di riferimento per gli aerei tedeschi durante i bombardamenti di Londra.
Un triste epilogo per una delle più innovative architetture dell’epoca, destinata ad influenzare i progetti di altri edifici non meno sfortunati del modello che li aveva ispirati: basti pensare che il New Crystal Palace di New York fu vittima di un rogo distruttivo a pochi anni dalla sua realizzazione e che il Glaspalast di Monaco di Baviera fece la stessa fine nel 1931.
Winston Churchill commentò amaramente, in un discorso del 1936, al cospetto della Camera dei Comuni, che la fine di Crystal Palace segnava la fine di un’epoca.
Eppure, nonostante tutto, la maestosa costruzione dell’ambizioso edificio continua ad affascinare gli architetti contemporanei e a costituire spunto e modello per l’architettura post-moderna.
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sabato 30 novembre 2019
venerdì 29 novembre 2019
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 29 novembre.
Il 29 novembre 800 Carlo Magno giunge a Roma per dirimere la questione dei presunti crimini del futuro Papa Leone III.
Nativo di Roma, Leone III fu il primo papa ad essere eletto alla dignità pontificia, dopo che il regno dei Franchi prese ad esercitare sul nuovo stato ecclesiastico, una forma di protezione che garantiva la sicurezza interna ed esterna, mentre il papa assumeva la figura di gran sacerdote, che prega per il popolo cristiano, affinché abbia sempre vittoria su tutti i nemici di Dio.
Leone III dopo la consacrazione avvenuta il 27 dicembre 795, comunicò a Carlo Magno la morte del suo predecessore Adriano I e quindi la sua consacrazione, gli mandò il vessillo della città di Roma, in segno di ossequio e le chiavi della Confessione di S. Pietro con l’invito a mandare un suo rappresentante alla cerimonia del giuramento di fedeltà del popolo romano.
Dovette occuparsi della questione dell’adozionismo, teoria sostenuta principalmente dai vescovi spagnoli Felice di Urgel e Elipando di Toledo: questi dicevano che Gesù Cristo come uomo non era il vero Figlio di Dio, ma soltanto suo figlio adottivo.
La questione, già discussa sotto il pontificato del predecessore Adriano I, finì per essere condannata nei sinodi di Ratisbona del 792 e Francoforte del 794, ma Felice volendo discolparsi, si appellò a Carlo Magno; l’intervento del re fece sì che il papa convocasse nell’autunno 798 un sinodo a Roma, in cui fu confermata la condanna delle tesi di Felice.
Carlo Magno allora invitò il vescovo alla sua corte di Aquisgrana dove lo confrontò con il grande erudito Alcuino, disputa che durò sei giorni, alla fine dei quali il vescovo Felice riconobbe l’errore, il re comunque gli tolse l’incarico e lo affidò alla sorveglianza dell’arcivescovo di Lione; essendo ottantenne l’altro vescovo sostenitore dell’eresia, questa decadde per mancanza di altri sostenitori.
Altra questione che interessò il suo pontificato, fu quella del Filioque che vedeva in contrapposizione le due Chiese di Oriente ed Occidente. Nel simbolo o credo Niceno-Costantinopolitano, c’è, riguardo la progressione dello Spirito Santo, l’espressione “qui ex Patre procedit”, cioè che procede dal Padre. In Occidente però dal 589 in poi, dal concilio di Toledo, si usava aggiungere la parola Filioque, cioè che lo Spirito Santo procede non solo dal Padre ma anche dal Figlio, così da poter precisare l’uguaglianza e la stessa sostanza delle tre persone della SS. Trinità.
Giacché in Occidente, a partire dalla Spagna, si cominciò a recitare il credo durante le celebrazioni eucaristiche, questa versione con il Filioque divenne comune a tutti i fedeli; questo si trasformò in oggetto di discordia fra Greci e Latini, provocando da ambo le parti accuse di mancanza di ortodossia, prendendo gli Atti del Concilio di Nicea come argomento interpretativo della questione.
Verso l’807 dopo un periodo di acquiescenza, il contrasto scoppiò di nuovo, questa volta a Gerusalemme fra i monaci greci e quelli latini; il papa riaffermò il principio della progressione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio e giacché i monaci latini erano dei franchi, rimise la questione a Carlo Magno, il quale convocò il sinodo di Aquisgrana dell’809 dove dopo ampia discussione, fu approvata l’aggiunta del Filioque al credo; papa Leone III approvò la deliberazione, ma volendo essere il padre di tutti, orientali ed occidentali, non ritenne opportuno farne un obbligo per i Greci.
Papa Leone ebbe già dai primi anni del suo pontificato parecchie avversità, in particolare dai parenti del defunto papa Adriano I, che li aveva favoriti in importanti incarichi ed uffici, quindi fomentarono un odio contro di lui che non poteva continuare a favorirli, fino al punto da organizzare un vero e proprio attentato.
Il 25 aprile 799 mentre il papa si recava a cavallo dal Laterano a S. Lorenzo in Lucina per delle funzioni, fu assalito improvvisamente da alcuni uomini armati che lo tirarono giù da cavallo e presero a maltrattarlo, cercando di accecarlo e tagliargli la lingua; il papa cercò rifugio nella vicina chiesa, dove lo inseguirono gli assalitori; in serata fu portato prigioniero al monastero di S. Erasmo al Celio, dove poi i fedeli riuscirono a liberarlo e a riportarlo a S. Pietro; in seguito fu soccorso dal duca di Spoleto, Guinigi che lo condusse in salvo nella sua città.
Papa Leone III chiese l’intervento di Carlo Magno a cui si erano appellati anche gli avversari; ne seguì un processo, durante il quale il pontefice giurò solennemente di non essere colpevole dei crimini che gli venivano imputati. Il re presente a Roma, due giorni dopo, ricevé il 25 dicembre 800 dalle mani del papa, la corona del Sacro Romano Impero; divenuto così anche imperatore, egli poté pronunziare la sentenza di morte per questi romani attentatori, che poi per l’intervento del papa fu commutata con l’esilio in Francia.
I contrasti fra alcune famiglie patrizie romane contro il papa, continuarono anche dopo la morte di Carlo Magno (814), un nuovo complotto si stava organizzando, ma furono scoperti e accusati di lesa maestà e condannati a morte; il papa agì di sua propria autorità senza ricorrere al successore dell’imperatore, Ludovico, dimostrando una severità che poco si addiceva al capo spirituale della cristianità.
In ogni modo gli studiosi, pur comprendendo gli odi, i rancori, le ostilità che imperavano in quel tempo, non danno una visione benevola della sua autorità, in quanto le accuse contro di lui, sorte all’inizio del suo pontificato, si intensificarono durante i 20 anni del suo governo, fino a richiedere un pubblico giuramento; qualcosa non andava se gli animi invece di rappacificarsi si istigavano sempre più.
Fondò la Scuola Palatina da cui derivò l’Università di Parigi.
Morì il 12 giugno 816 e fu sepolto in S. Pietro. La Sacra Congregazione dei Riti nel 1673, inserì il suo nome nel Martirologio Romano al 12 giugno, ma bisogna dire che nella revisione del 1963 la sua festa è stata eliminata.
Il 29 novembre 800 Carlo Magno giunge a Roma per dirimere la questione dei presunti crimini del futuro Papa Leone III.
Nativo di Roma, Leone III fu il primo papa ad essere eletto alla dignità pontificia, dopo che il regno dei Franchi prese ad esercitare sul nuovo stato ecclesiastico, una forma di protezione che garantiva la sicurezza interna ed esterna, mentre il papa assumeva la figura di gran sacerdote, che prega per il popolo cristiano, affinché abbia sempre vittoria su tutti i nemici di Dio.
Leone III dopo la consacrazione avvenuta il 27 dicembre 795, comunicò a Carlo Magno la morte del suo predecessore Adriano I e quindi la sua consacrazione, gli mandò il vessillo della città di Roma, in segno di ossequio e le chiavi della Confessione di S. Pietro con l’invito a mandare un suo rappresentante alla cerimonia del giuramento di fedeltà del popolo romano.
Dovette occuparsi della questione dell’adozionismo, teoria sostenuta principalmente dai vescovi spagnoli Felice di Urgel e Elipando di Toledo: questi dicevano che Gesù Cristo come uomo non era il vero Figlio di Dio, ma soltanto suo figlio adottivo.
La questione, già discussa sotto il pontificato del predecessore Adriano I, finì per essere condannata nei sinodi di Ratisbona del 792 e Francoforte del 794, ma Felice volendo discolparsi, si appellò a Carlo Magno; l’intervento del re fece sì che il papa convocasse nell’autunno 798 un sinodo a Roma, in cui fu confermata la condanna delle tesi di Felice.
Carlo Magno allora invitò il vescovo alla sua corte di Aquisgrana dove lo confrontò con il grande erudito Alcuino, disputa che durò sei giorni, alla fine dei quali il vescovo Felice riconobbe l’errore, il re comunque gli tolse l’incarico e lo affidò alla sorveglianza dell’arcivescovo di Lione; essendo ottantenne l’altro vescovo sostenitore dell’eresia, questa decadde per mancanza di altri sostenitori.
Altra questione che interessò il suo pontificato, fu quella del Filioque che vedeva in contrapposizione le due Chiese di Oriente ed Occidente. Nel simbolo o credo Niceno-Costantinopolitano, c’è, riguardo la progressione dello Spirito Santo, l’espressione “qui ex Patre procedit”, cioè che procede dal Padre. In Occidente però dal 589 in poi, dal concilio di Toledo, si usava aggiungere la parola Filioque, cioè che lo Spirito Santo procede non solo dal Padre ma anche dal Figlio, così da poter precisare l’uguaglianza e la stessa sostanza delle tre persone della SS. Trinità.
Giacché in Occidente, a partire dalla Spagna, si cominciò a recitare il credo durante le celebrazioni eucaristiche, questa versione con il Filioque divenne comune a tutti i fedeli; questo si trasformò in oggetto di discordia fra Greci e Latini, provocando da ambo le parti accuse di mancanza di ortodossia, prendendo gli Atti del Concilio di Nicea come argomento interpretativo della questione.
Verso l’807 dopo un periodo di acquiescenza, il contrasto scoppiò di nuovo, questa volta a Gerusalemme fra i monaci greci e quelli latini; il papa riaffermò il principio della progressione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio e giacché i monaci latini erano dei franchi, rimise la questione a Carlo Magno, il quale convocò il sinodo di Aquisgrana dell’809 dove dopo ampia discussione, fu approvata l’aggiunta del Filioque al credo; papa Leone III approvò la deliberazione, ma volendo essere il padre di tutti, orientali ed occidentali, non ritenne opportuno farne un obbligo per i Greci.
Papa Leone ebbe già dai primi anni del suo pontificato parecchie avversità, in particolare dai parenti del defunto papa Adriano I, che li aveva favoriti in importanti incarichi ed uffici, quindi fomentarono un odio contro di lui che non poteva continuare a favorirli, fino al punto da organizzare un vero e proprio attentato.
Il 25 aprile 799 mentre il papa si recava a cavallo dal Laterano a S. Lorenzo in Lucina per delle funzioni, fu assalito improvvisamente da alcuni uomini armati che lo tirarono giù da cavallo e presero a maltrattarlo, cercando di accecarlo e tagliargli la lingua; il papa cercò rifugio nella vicina chiesa, dove lo inseguirono gli assalitori; in serata fu portato prigioniero al monastero di S. Erasmo al Celio, dove poi i fedeli riuscirono a liberarlo e a riportarlo a S. Pietro; in seguito fu soccorso dal duca di Spoleto, Guinigi che lo condusse in salvo nella sua città.
Papa Leone III chiese l’intervento di Carlo Magno a cui si erano appellati anche gli avversari; ne seguì un processo, durante il quale il pontefice giurò solennemente di non essere colpevole dei crimini che gli venivano imputati. Il re presente a Roma, due giorni dopo, ricevé il 25 dicembre 800 dalle mani del papa, la corona del Sacro Romano Impero; divenuto così anche imperatore, egli poté pronunziare la sentenza di morte per questi romani attentatori, che poi per l’intervento del papa fu commutata con l’esilio in Francia.
I contrasti fra alcune famiglie patrizie romane contro il papa, continuarono anche dopo la morte di Carlo Magno (814), un nuovo complotto si stava organizzando, ma furono scoperti e accusati di lesa maestà e condannati a morte; il papa agì di sua propria autorità senza ricorrere al successore dell’imperatore, Ludovico, dimostrando una severità che poco si addiceva al capo spirituale della cristianità.
In ogni modo gli studiosi, pur comprendendo gli odi, i rancori, le ostilità che imperavano in quel tempo, non danno una visione benevola della sua autorità, in quanto le accuse contro di lui, sorte all’inizio del suo pontificato, si intensificarono durante i 20 anni del suo governo, fino a richiedere un pubblico giuramento; qualcosa non andava se gli animi invece di rappacificarsi si istigavano sempre più.
Fondò la Scuola Palatina da cui derivò l’Università di Parigi.
Morì il 12 giugno 816 e fu sepolto in S. Pietro. La Sacra Congregazione dei Riti nel 1673, inserì il suo nome nel Martirologio Romano al 12 giugno, ma bisogna dire che nella revisione del 1963 la sua festa è stata eliminata.
giovedì 28 novembre 2019
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 28 novembre.
Il 28 novembre 1757 nasce William Blake.
William Blake, poeta, pittore, artista incisore di grandissimo talento, è l'ideatore di una tecnica innovativa per la realizzazione di opere di sorprendente forza di immaginazione, per le quali è ricordata la sua grande capacità di trasferire nel mondo reale le sue visioni spirituali.
William Blake nasce il 28 novembre 1757 a Londra, nel quartiere di Soho. La famiglia composta da sei figli è benestante; il padre James Blake è commerciante di maglieria. William non frequenta la scuola: è la madre Catherine a occuparsi della sua educazione. Il giovane Blake mostra un precoce talento per l'arte che il padre non esita ad incoraggiare.
All'età di dieci anni William inizia a frequentare la scuola di disegno di Henry Pars nello Strand. Terminati gli studi inizia un apprendistato come incisore, facendo la prima esperienza nello studio di uno degli artisti più noti nel suo campo, William Ryland. Il rapporto di William Blake con il maestro è però conflittuale e nel 1783 entra in un altro studio, quello di James Basire, un altro incisore meno conosciuto.
Di carattere introverso Blake non va molto d'accordo con i compagni e questo motivo lo porta a passare molto tempo in solitudine, chiuso nell'Abbazia di Westminster, lavorando a schizzi preparatori per illustrazioni destinate a libri d'antiquariato. E' proprio in questo periodo che nasce in William la grande passione per l'arte medievale.
Nel 1779 termina il suo apprendistato con Basire e l'8 ottobre dello stesso anno si iscrive presso la scuola d'arte più prestigiosa d'Inghilterra, la Royal Academy of Arts. La sua esperienza qui è breve ed infelice, segnata dall'ostilità nei confronti di Sir Joshua Reynolds, preside dell'Accademia. Tuttavia Blake coltiva importanti amicizie fra gli studenti.
Nel 1780 un suo acquarello viene esposto al pubblico nelle sale della Royal Academy; sempre in quell'anno inizia a ricevere le prime commissioni come incisore.
Il 18 agosto 1782, nonostante il parere contrario del padre, William Blake sposa Catherine Boucher, figlia ventenne di un fioraio ambulante. Grazie all'aiuto del marito Catherina impara a scrivere e leggere; non avranno figli ma vivranno un'unione molte felice. Successivamente Catherine aiuterà il marito nelle varie fasi del suo lavoro come editore.
Nel 1783 Blake pubblica il suo primo libro illustrato "Schizzi poetici". Solo un anno più tardi muore il padre: William Blake diventa editore e commerciante di stampe, purtroppo in breve l'impresa fallisce.
In questi anni ospita in casa il fratello minore Robert: per la coppia diventa il figlio che non hanno mai avuto; ma un'altra tragedia si consuma quando nel febbraio del 1787, a soli diciannove anni, Robert muore di tisi.
La figura del fratello continua ad ossessionare Blake che si convince che il fratello defunto gli sarebbe apparso per aiutarlo a risolvere i problemi relativi ad una nuova tecnica di stampa.
L'obiettivo di Blake era quello di combinare testi poetici ed illustrazioni sulla medesima lastra, elaborando un nuovo metodo di stampa che rendesse possibile l'operazione.
Blake battezza questa tecnica "stampa miniata" ed il primo esempio è costituito dalla raccolta poetica "Canti dell'innocenza" terminata nel 1789. Nel 1794 pubblica i "Canti dell'esperienza".
Secondo l'artista, le due parti illustravano esattamente gli "stati opposti dell'animo umano": i primi sono meditazioni sull'infanzia, i secondi (che comprendono il famoso "Tyger, Tyger") riguardano l'innocenza perduta dell'età adulta.
Fra queste due raccolte poetiche si colloca il più importante fra i lavori in prosa di William Blake, "Il matrimonio del Cielo e dell'Inferno", pubblicato nel 1793 come libro miniato, una complessa opera filosofica in cui esprime la rivolta contro i valori consolidati della sua epoca.
Blake realizza poi una serie di monotipi conosciuti generalmente con il nome di "grandi stampe a colori". Se ne conoscono dodici - di alcune esiste anche più di un esemplare - ma è certa l'esistenza almeno di un altro monotipo, che pare non sia giunto sino a noi. Si tratta probabilmente di vari soggetti ispirati alla Bibbia, a William Shakespeare e a Milton.
Purtroppo le opere non ottengono il successo sperato e l'artista fatica a guadagnarsi da vivere come incisore.
Conosce improvvisa fortuna quando nel 1795 l'amico Flaxman lo presenta a Thomas Butts, funzionario pubblico, che a partire dal 1799 e per i vent'anni successivi sarà suo mecenate: Butts versa a Blake un regolare stipendio e riempie la casa delle sue opere.
Nel 1803 a causa di una lite con un soldato ubriaco, Blake viene denunciato ed accusato di essere responsabile della lite, ma soprattutto viene accusato di aver pronunciato frasi sediziose contro il re e l'esercito.
L'11 gennaio 1804 si tiene il processo e grazie all'intervento di un amico venne assolto.
Nel 1809 Blake allestisce una mostra nella casa natale che purtroppo si rivela un disastro. All'età di cinquant'anni Blake si sente un fallito agli occhi del mondo.
Gli anni che seguono sono tra i più tormentati della sua esistenza, con frequenti difficoltà economiche superate solo grazie all'appoggio del devoto Butts.
Nel 1818 incontra l'altro suo grande mecenate, John Linnell, all'epoca ritrattista e paesaggista di discreto successo. Proprio grazie a Linnell l'ultimo decennio della vita Blake si trasforma in un periodo sereno e produttivo, senza più l'assillo di problemi economici.
A partire dal 1821 inizia a lavorare alle tavole per "Il libro di Giobbe" e per la "Divina Commedia" di Dante Alighieri. Quest'ultimo lavoro comprende alcuni dei più grandi capolavori di William Blake, purtroppo la morte gli impedirà di portare a termine l'opera.
L'ultimo grande libro miniato di William Blake è "Gerusalemme", realizzato tra il 1804 ed il 1820.
Negli ultimi anni Blake soffre di quelli che egli chiama "tremori improvvisi"; si ammala di itterizia. La morte sopraggiunge il 12 agosto 1827, all'età di sessantanove anni.
Il 28 novembre 1757 nasce William Blake.
William Blake, poeta, pittore, artista incisore di grandissimo talento, è l'ideatore di una tecnica innovativa per la realizzazione di opere di sorprendente forza di immaginazione, per le quali è ricordata la sua grande capacità di trasferire nel mondo reale le sue visioni spirituali.
William Blake nasce il 28 novembre 1757 a Londra, nel quartiere di Soho. La famiglia composta da sei figli è benestante; il padre James Blake è commerciante di maglieria. William non frequenta la scuola: è la madre Catherine a occuparsi della sua educazione. Il giovane Blake mostra un precoce talento per l'arte che il padre non esita ad incoraggiare.
All'età di dieci anni William inizia a frequentare la scuola di disegno di Henry Pars nello Strand. Terminati gli studi inizia un apprendistato come incisore, facendo la prima esperienza nello studio di uno degli artisti più noti nel suo campo, William Ryland. Il rapporto di William Blake con il maestro è però conflittuale e nel 1783 entra in un altro studio, quello di James Basire, un altro incisore meno conosciuto.
Di carattere introverso Blake non va molto d'accordo con i compagni e questo motivo lo porta a passare molto tempo in solitudine, chiuso nell'Abbazia di Westminster, lavorando a schizzi preparatori per illustrazioni destinate a libri d'antiquariato. E' proprio in questo periodo che nasce in William la grande passione per l'arte medievale.
Nel 1779 termina il suo apprendistato con Basire e l'8 ottobre dello stesso anno si iscrive presso la scuola d'arte più prestigiosa d'Inghilterra, la Royal Academy of Arts. La sua esperienza qui è breve ed infelice, segnata dall'ostilità nei confronti di Sir Joshua Reynolds, preside dell'Accademia. Tuttavia Blake coltiva importanti amicizie fra gli studenti.
Nel 1780 un suo acquarello viene esposto al pubblico nelle sale della Royal Academy; sempre in quell'anno inizia a ricevere le prime commissioni come incisore.
Il 18 agosto 1782, nonostante il parere contrario del padre, William Blake sposa Catherine Boucher, figlia ventenne di un fioraio ambulante. Grazie all'aiuto del marito Catherina impara a scrivere e leggere; non avranno figli ma vivranno un'unione molte felice. Successivamente Catherine aiuterà il marito nelle varie fasi del suo lavoro come editore.
Nel 1783 Blake pubblica il suo primo libro illustrato "Schizzi poetici". Solo un anno più tardi muore il padre: William Blake diventa editore e commerciante di stampe, purtroppo in breve l'impresa fallisce.
In questi anni ospita in casa il fratello minore Robert: per la coppia diventa il figlio che non hanno mai avuto; ma un'altra tragedia si consuma quando nel febbraio del 1787, a soli diciannove anni, Robert muore di tisi.
La figura del fratello continua ad ossessionare Blake che si convince che il fratello defunto gli sarebbe apparso per aiutarlo a risolvere i problemi relativi ad una nuova tecnica di stampa.
L'obiettivo di Blake era quello di combinare testi poetici ed illustrazioni sulla medesima lastra, elaborando un nuovo metodo di stampa che rendesse possibile l'operazione.
Blake battezza questa tecnica "stampa miniata" ed il primo esempio è costituito dalla raccolta poetica "Canti dell'innocenza" terminata nel 1789. Nel 1794 pubblica i "Canti dell'esperienza".
Secondo l'artista, le due parti illustravano esattamente gli "stati opposti dell'animo umano": i primi sono meditazioni sull'infanzia, i secondi (che comprendono il famoso "Tyger, Tyger") riguardano l'innocenza perduta dell'età adulta.
Fra queste due raccolte poetiche si colloca il più importante fra i lavori in prosa di William Blake, "Il matrimonio del Cielo e dell'Inferno", pubblicato nel 1793 come libro miniato, una complessa opera filosofica in cui esprime la rivolta contro i valori consolidati della sua epoca.
Blake realizza poi una serie di monotipi conosciuti generalmente con il nome di "grandi stampe a colori". Se ne conoscono dodici - di alcune esiste anche più di un esemplare - ma è certa l'esistenza almeno di un altro monotipo, che pare non sia giunto sino a noi. Si tratta probabilmente di vari soggetti ispirati alla Bibbia, a William Shakespeare e a Milton.
Purtroppo le opere non ottengono il successo sperato e l'artista fatica a guadagnarsi da vivere come incisore.
Conosce improvvisa fortuna quando nel 1795 l'amico Flaxman lo presenta a Thomas Butts, funzionario pubblico, che a partire dal 1799 e per i vent'anni successivi sarà suo mecenate: Butts versa a Blake un regolare stipendio e riempie la casa delle sue opere.
Nel 1803 a causa di una lite con un soldato ubriaco, Blake viene denunciato ed accusato di essere responsabile della lite, ma soprattutto viene accusato di aver pronunciato frasi sediziose contro il re e l'esercito.
L'11 gennaio 1804 si tiene il processo e grazie all'intervento di un amico venne assolto.
Nel 1809 Blake allestisce una mostra nella casa natale che purtroppo si rivela un disastro. All'età di cinquant'anni Blake si sente un fallito agli occhi del mondo.
Gli anni che seguono sono tra i più tormentati della sua esistenza, con frequenti difficoltà economiche superate solo grazie all'appoggio del devoto Butts.
Nel 1818 incontra l'altro suo grande mecenate, John Linnell, all'epoca ritrattista e paesaggista di discreto successo. Proprio grazie a Linnell l'ultimo decennio della vita Blake si trasforma in un periodo sereno e produttivo, senza più l'assillo di problemi economici.
A partire dal 1821 inizia a lavorare alle tavole per "Il libro di Giobbe" e per la "Divina Commedia" di Dante Alighieri. Quest'ultimo lavoro comprende alcuni dei più grandi capolavori di William Blake, purtroppo la morte gli impedirà di portare a termine l'opera.
L'ultimo grande libro miniato di William Blake è "Gerusalemme", realizzato tra il 1804 ed il 1820.
Negli ultimi anni Blake soffre di quelli che egli chiama "tremori improvvisi"; si ammala di itterizia. La morte sopraggiunge il 12 agosto 1827, all'età di sessantanove anni.
mercoledì 27 novembre 2019
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 27 novembre.
Il 27 novembre 1941 a Gondar, avviene l'ultima battaglia il cui esito porterà l'Italia ad abbandonare definitivamente l'Africa Orientale.
La battaglia di Gondar fu una battaglia della seconda guerra mondiale combattuta in Etiopia, a Gondar, nella regione dell'Amhara dal 10 maggio al 30 novembre 1941. Rappresentò la fase finale della Campagna dell'Africa Orientale Italiana (1940-1942) e vide contrapposti gli schieramenti italiani e anglo-abissini.
Di fronte alla travolgente Controffensiva britannica in Africa Orientale Italiana il Viceré d'Etiopia Amedeo di Savoia diede alle sue truppe l'ordine di proseguire la lotta nei ridotti dell'Amba Alagi, del Galla Sidama e dell'Amhara.
Il ridotto di Gondar, situato nell'Amhara, già mesi prima era stato fortificato dal generale Nasi e comprendeva un'area centrale con Gondar Azozo dove risiedeva il comando e quattro capisaldi esterni: Culqualber, Blagir, Tucul e Ualag. Inoltre due presidi a Debrà Tabor e Uolchefit. La ridotta era difesa da 13 battaglioni nazionali, 15 battaglioni coloniali e pochi squadroni di cavalleria indigena. All'incirca 40.000 uomini. Le truppe italiane al comando del generale Guglielmo Nasi vennero schierate nell'Amhara. Il generale Nasi, persi i rifornimenti da Addis Abeba, dovette amministrare le poche scorte rimaste per farle durare il più a lungo possibile riducendo le razioni e organizzando un mercato indigeno, una sezione recuperi per sfruttare ogni materiale e una sezione pesca sul lago Tana. Furono anche realizzati degli improvvisati carri armati riutilizzando trattori agricoli opportunamente blindati. Nei mesi di settembre e ottobre, tramite voli segreti dalla Libia, Nasi ricevette denaro dall'Italia per comprare derrate alimentari. Il 19 luglio il generale Nasi lanciò una canzone intitolata "I gondarini".
Se non ci conoscete, guardate il nostro pane,
noi siamo i gondarini che sanno far la fame.
Se non ci conoscete, tenetelo a memoria,
noi siamo i gondarini che fuman la cicoria.
L'inglese ci conosce, si morde i pugni e ringhia,
noi siamo i gondarini che stringono la cinghia.
Gl'indiani ci conoscono e anche i sudanesi,
noi siamo i gondarini incubo degli inglesi
Se non ci conoscete, leggete i nostri casi,
noi siamo i gondarini del generale Nasi.
Se non ci conoscete, lasciatevelo dire,
noi siamo i gondarini, i duri da morire
Il primo attacco britannico fu scatenato il 17 maggio 1941 e portò alla momentanea occupazione di Anguavà, ripresa subito dopo grazie all'azione della brigata del colonnello Torelli. Nei giorni seguenti, altri attacchi britannici in altri settori portarono all'occupazione del presidio di Debrà Tabor, comandato dal colonnello Angelini, che si arrese quasi senza combattere a differenza del presidio di Uolchefit. All'inizio dell'assedio, le forze aeree presenti nella base aerea di Gondar - Azozo era formata da due caccia Fiat CR.42 "Falco" ed un bombardiere Caproni Ca.133. Il Caproni venne utilizzato per rifornire dal cielo il presidio di Uolchefit, fino al suo danneggiamento da parte degli aerei inglesi l'8 agosto e la sua distruzione per probabile sabotaggio il 21 settembre.
Il presidio di Uolchefit, composto da due battaglioni di Camicie Nere al comando del tenente colonnello Mario Gonella invece resistette a oltranza. Alle Camicie Nere si affiancarono due gruppi di bande, formate da irregolari indigeni, di cui una era la leggendaria "banda Bastiani" al comando dell'allora sergente maggiore Angelo Bastiani, e l'altra la 1^ banda Amhara al comando del tenente Enrico Calenda. Già dal 17 aprile, a seguito del tradimento di ras Ajaleu Burrù, il presidio fu completamente isolato e il 10 maggio il tenente colonnello Gonella rifiutò una prima richiesta di resa pervenuta dai britannici, così il 28 maggio un duro assalto inglese obbligò gli italiani ad abbandonare le posizioni più avanzate a passo Ciank e Debarech. Il 22 giugno un nuovo contrattacco italiano, effettuato all'arma bianca dalle Camicie Nere e dalla "banda Bastiani", portò alla distruzione del presidio e alla rioccupazione del passo Ciank. Nel corso di questa operazione Angelo Bastiani, in combinazione con gli uomini di Calenda, catturò personalmente ras Ajaleu Burrù. Il comandante inglese Ringrose sfuggì alla cattura nascondendosi in un cespuglio. Informato della cattura di ras Ajaleu Burrù, il generale Nasi ordinò di non fucilarlo. In Italia Achille Beltrame dedicò all'azione una delle sue celebri copertine sulla Domenica del Corriere e Bastiani ottenne la Medaglia d'oro al Valor Militare.
Il 19 luglio il comando inglese, inviò al colonnello Gonella una seconda intimazione di resa, che fu respinta. In agosto il presidio di Uolchefit fu posto sotto assedio anche dalla 12ª divisione al comando del generale Charles Fowkes. Il tenente Calenda cadde durante un bombardamento al passo Mecan, venendo insignito anch'egli della Medaglia d'oro al Valor militare. Per integrare gli scarsi viveri ci si adattò a procurarseli con scorribande notturne per alcuni giorni, ma il 25 settembre questi furono esauriti completamente. Il 18 e il 25 settembre furono effettuate le ultime due sortite poi il 28 settembre il presidio, dopo 165 giorni di battaglia, si arrese con l'onore delle armi. La resa del presidio di Uolchefit permise agli inglesi di completare l'accerchiamento della ridotta di Gondar e molte truppe furono destinate alla successiva Battaglia di Culqualber.
Nel corso degli scontri di Culqualber il Primo Gruppo Mobilitato dei Carabinieri e il CCXL Battaglione Camicie Nere si immolò quasi al completo. Si distinse in particolare il muntaz Unatù Endisciau che rifiutando di arrendersi agli inglesi, in seguito alla capitolazione del ridotto avanzato di Debre Tabor, oltrepassate le linee nemiche raggiunse le linee italiane per portare in salvo il gagliardetto del battaglione. Ferito a morte nell'adempimento della missione, unico soldato di colore, fu decorato con la medaglia d'oro al valor militare. Il 21 novembre 1941, la caduta del presidio di Culqualber spianò definitivamente la strada all'assedio della ridotta di Gondar.
Il 23 novembre gli inglesi arrivarono sotto Gondar, il cui presidio era sguarnito poiché diversi ascari avevano disertato non avendo più ricevuto la paga. L'unico caccia Fiat CR.42 "Falco" ancora funzionante partì per un'azione sul più vicino campo di aviazione inglese, e il pilota, Ildebrando Malavolta, morì nell'azione. I sudafricani resero onore il giorno seguente lanciando sul campo un messaggio con scritto "Un omaggio al pilota del Fiat; è stato un valoroso - South African Air Force".
Il 27 novembre 1941 iniziò l'attacco finale degli inglesi diretto subito sull'aeroporto di Azozo. Nella mattinata cadde Azozo e le truppe britanniche raggiunsero il castello di Fasilades. Alle 14.30 il generale Guglielmo Nasi inviò in Italia l'ultimo dispaccio: "La brigata di riserva, lanciata sul fronte sud, non è riuscita a contenere l'attacco. Il nemico ha già superato il reticolato e i mezzi blindati sono penetrati in città. Ritengo esaurito ogni mezzo per un'ulteriore resistenza ed invio i parlamentari". Poco dopo il comando italiano di Gondar, locato nella Banca d'Italia, fu preso d'assalto e costretto alla resa. Il 30 novembre deposero le armi gli italiani negli ultimi presidi che ancora resistevano. L'ultima piazzaforte nell'Africa Orientale Italiana fu completamente conquistata degli inglesi.
Il 27 novembre 1941 a Gondar, avviene l'ultima battaglia il cui esito porterà l'Italia ad abbandonare definitivamente l'Africa Orientale.
La battaglia di Gondar fu una battaglia della seconda guerra mondiale combattuta in Etiopia, a Gondar, nella regione dell'Amhara dal 10 maggio al 30 novembre 1941. Rappresentò la fase finale della Campagna dell'Africa Orientale Italiana (1940-1942) e vide contrapposti gli schieramenti italiani e anglo-abissini.
Di fronte alla travolgente Controffensiva britannica in Africa Orientale Italiana il Viceré d'Etiopia Amedeo di Savoia diede alle sue truppe l'ordine di proseguire la lotta nei ridotti dell'Amba Alagi, del Galla Sidama e dell'Amhara.
Il ridotto di Gondar, situato nell'Amhara, già mesi prima era stato fortificato dal generale Nasi e comprendeva un'area centrale con Gondar Azozo dove risiedeva il comando e quattro capisaldi esterni: Culqualber, Blagir, Tucul e Ualag. Inoltre due presidi a Debrà Tabor e Uolchefit. La ridotta era difesa da 13 battaglioni nazionali, 15 battaglioni coloniali e pochi squadroni di cavalleria indigena. All'incirca 40.000 uomini. Le truppe italiane al comando del generale Guglielmo Nasi vennero schierate nell'Amhara. Il generale Nasi, persi i rifornimenti da Addis Abeba, dovette amministrare le poche scorte rimaste per farle durare il più a lungo possibile riducendo le razioni e organizzando un mercato indigeno, una sezione recuperi per sfruttare ogni materiale e una sezione pesca sul lago Tana. Furono anche realizzati degli improvvisati carri armati riutilizzando trattori agricoli opportunamente blindati. Nei mesi di settembre e ottobre, tramite voli segreti dalla Libia, Nasi ricevette denaro dall'Italia per comprare derrate alimentari. Il 19 luglio il generale Nasi lanciò una canzone intitolata "I gondarini".
Se non ci conoscete, guardate il nostro pane,
noi siamo i gondarini che sanno far la fame.
Se non ci conoscete, tenetelo a memoria,
noi siamo i gondarini che fuman la cicoria.
L'inglese ci conosce, si morde i pugni e ringhia,
noi siamo i gondarini che stringono la cinghia.
Gl'indiani ci conoscono e anche i sudanesi,
noi siamo i gondarini incubo degli inglesi
Se non ci conoscete, leggete i nostri casi,
noi siamo i gondarini del generale Nasi.
Se non ci conoscete, lasciatevelo dire,
noi siamo i gondarini, i duri da morire
Il primo attacco britannico fu scatenato il 17 maggio 1941 e portò alla momentanea occupazione di Anguavà, ripresa subito dopo grazie all'azione della brigata del colonnello Torelli. Nei giorni seguenti, altri attacchi britannici in altri settori portarono all'occupazione del presidio di Debrà Tabor, comandato dal colonnello Angelini, che si arrese quasi senza combattere a differenza del presidio di Uolchefit. All'inizio dell'assedio, le forze aeree presenti nella base aerea di Gondar - Azozo era formata da due caccia Fiat CR.42 "Falco" ed un bombardiere Caproni Ca.133. Il Caproni venne utilizzato per rifornire dal cielo il presidio di Uolchefit, fino al suo danneggiamento da parte degli aerei inglesi l'8 agosto e la sua distruzione per probabile sabotaggio il 21 settembre.
Il presidio di Uolchefit, composto da due battaglioni di Camicie Nere al comando del tenente colonnello Mario Gonella invece resistette a oltranza. Alle Camicie Nere si affiancarono due gruppi di bande, formate da irregolari indigeni, di cui una era la leggendaria "banda Bastiani" al comando dell'allora sergente maggiore Angelo Bastiani, e l'altra la 1^ banda Amhara al comando del tenente Enrico Calenda. Già dal 17 aprile, a seguito del tradimento di ras Ajaleu Burrù, il presidio fu completamente isolato e il 10 maggio il tenente colonnello Gonella rifiutò una prima richiesta di resa pervenuta dai britannici, così il 28 maggio un duro assalto inglese obbligò gli italiani ad abbandonare le posizioni più avanzate a passo Ciank e Debarech. Il 22 giugno un nuovo contrattacco italiano, effettuato all'arma bianca dalle Camicie Nere e dalla "banda Bastiani", portò alla distruzione del presidio e alla rioccupazione del passo Ciank. Nel corso di questa operazione Angelo Bastiani, in combinazione con gli uomini di Calenda, catturò personalmente ras Ajaleu Burrù. Il comandante inglese Ringrose sfuggì alla cattura nascondendosi in un cespuglio. Informato della cattura di ras Ajaleu Burrù, il generale Nasi ordinò di non fucilarlo. In Italia Achille Beltrame dedicò all'azione una delle sue celebri copertine sulla Domenica del Corriere e Bastiani ottenne la Medaglia d'oro al Valor Militare.
Il 19 luglio il comando inglese, inviò al colonnello Gonella una seconda intimazione di resa, che fu respinta. In agosto il presidio di Uolchefit fu posto sotto assedio anche dalla 12ª divisione al comando del generale Charles Fowkes. Il tenente Calenda cadde durante un bombardamento al passo Mecan, venendo insignito anch'egli della Medaglia d'oro al Valor militare. Per integrare gli scarsi viveri ci si adattò a procurarseli con scorribande notturne per alcuni giorni, ma il 25 settembre questi furono esauriti completamente. Il 18 e il 25 settembre furono effettuate le ultime due sortite poi il 28 settembre il presidio, dopo 165 giorni di battaglia, si arrese con l'onore delle armi. La resa del presidio di Uolchefit permise agli inglesi di completare l'accerchiamento della ridotta di Gondar e molte truppe furono destinate alla successiva Battaglia di Culqualber.
Nel corso degli scontri di Culqualber il Primo Gruppo Mobilitato dei Carabinieri e il CCXL Battaglione Camicie Nere si immolò quasi al completo. Si distinse in particolare il muntaz Unatù Endisciau che rifiutando di arrendersi agli inglesi, in seguito alla capitolazione del ridotto avanzato di Debre Tabor, oltrepassate le linee nemiche raggiunse le linee italiane per portare in salvo il gagliardetto del battaglione. Ferito a morte nell'adempimento della missione, unico soldato di colore, fu decorato con la medaglia d'oro al valor militare. Il 21 novembre 1941, la caduta del presidio di Culqualber spianò definitivamente la strada all'assedio della ridotta di Gondar.
Il 23 novembre gli inglesi arrivarono sotto Gondar, il cui presidio era sguarnito poiché diversi ascari avevano disertato non avendo più ricevuto la paga. L'unico caccia Fiat CR.42 "Falco" ancora funzionante partì per un'azione sul più vicino campo di aviazione inglese, e il pilota, Ildebrando Malavolta, morì nell'azione. I sudafricani resero onore il giorno seguente lanciando sul campo un messaggio con scritto "Un omaggio al pilota del Fiat; è stato un valoroso - South African Air Force".
Il 27 novembre 1941 iniziò l'attacco finale degli inglesi diretto subito sull'aeroporto di Azozo. Nella mattinata cadde Azozo e le truppe britanniche raggiunsero il castello di Fasilades. Alle 14.30 il generale Guglielmo Nasi inviò in Italia l'ultimo dispaccio: "La brigata di riserva, lanciata sul fronte sud, non è riuscita a contenere l'attacco. Il nemico ha già superato il reticolato e i mezzi blindati sono penetrati in città. Ritengo esaurito ogni mezzo per un'ulteriore resistenza ed invio i parlamentari". Poco dopo il comando italiano di Gondar, locato nella Banca d'Italia, fu preso d'assalto e costretto alla resa. Il 30 novembre deposero le armi gli italiani negli ultimi presidi che ancora resistevano. L'ultima piazzaforte nell'Africa Orientale Italiana fu completamente conquistata degli inglesi.
martedì 26 novembre 2019
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 26 novembre.
Il 26 novembre 1983 6.800 lingotti d'oro, per un valore di quasi 26 milioni di sterline, vengono rubati dal caveau della Brinks Mat all'Aeroporto di Heathrow.
La rapina alla Brink's-Mat presso l'Heathrow International Trading Estate il 26 novembre 1983 fu' un record , £ 26 milioni (oggi circa £ 500 milioni) di lingotti d'oro, diamanti e denaro rubato da un magazzino. I lingotti erano di proprietà della Johnson Matthey Bankers Ltd, che è crollata l'anno successivo dopo aver effettuato ingenti prestiti a truffatori e ditte insolventi. Molti della banda di rapinatori sono stati condannati, ma la maggior parte dell'oro non è mai stata recuperata.
Gli assicuratori Lloyd's of London hanno pagato le perdite. Diversi omicidi sono stati collegati al caso, più i collegamenti stabiliti per il furto con deposito di sicurezza Hatton Garden oltre 30 anni dopo, nell'aprile 2015.
La rapina alla Brink's-Mat avvenne presto il 26 novembre 1983 quando sei rapinatori irruppero nel magazzino di Brink's-Mat , l'Unità 7 della Heathrow International Trading Estate vicino all'aeroporto di Heathrow nella zona ovest di Londra.
All'epoca fu descritto come "il crimine del secolo".
La banda ottenne l'ingresso nel magazzino dalla guardia di sicurezza Anthony Black.
Una volta dentro, versarono benzina sul pavimento e minacciarono le guardie interne con un fiammifero acceso, se non avessero rivelato i numeri di combinazione del caveau.
I ladri pensavano di rubare 3,2 milioni di sterline in contanti, ma trovarono invece tre tonnellate di lingotti d'oro e rubarono 26 milioni di sterline (circa 500 milioni di sterline nel 2017) in oro, diamanti e denaro.
Due giorni dopo la rapina, una coppia vide un crogiolo incandescente che fumava in una capanna in un luogo vicino a Bath, nel Somerset. Sospettando che potesse essere collegato alla rapina di lingotti, immediatamente informarono la polizia. La polizia arrivò, ma poiché la capanna si trovava appena al di fuori della loro giurisdizione, i poliziotti dissero che avrebbero trasmesso l'informazione alla polizia responsabile di quella zona.
Alla coppia non fu mai stato chiesto di rilasciare una dichiarazione alla polizia o di testimoniare in tribunale.
Nessuna spiegazione è stata data per il mancato controllo da parte della polizia.
Solo 14 mesi dopo i locali furono perquisiti: fu trovata la fonderia e l'occupante John Palmer, un mercante di gioielli e lingottiere locale, arrestato. In tribunale, Palmer disse di non essere a conoscenza che l'oro fosse legato alla rapina e fu scagionato da ogni accusa.
Per questo incidente, Palmer ha acquisito il soprannome di "Goldfinger".
Uno dei rapinatori, Brian Robinson, fu catturato dopo che l'agente segreto della sicurezza Black, suo cognato, passò il suo nome agli investigatori. Fu arrestato nel dicembre 1983.
Scotland Yard ha rapidamente scoperto la connessione familiare e Black ha confessato di aver aiutato e favorito i rapinatori, fornendo loro una chiave per la porta principale e dando loro dettagli sulle misure di sicurezza.
Micky McAvoy aveva affidato parte della sua quota ai soci Brian Perry e George Francis. Perry reclutò Kenneth Noye , che era un esperto nel suo campo, per disporre dell'oro. Noye sciolse i lingotti e li rimise in vendita, mescolando monete di rame per mascherare la fonte. Tuttavia, l'improvviso spostamento di ingenti somme di denaro attraverso una banca di Bristol mise in allarme la Bank of England, che informò la polizia.
Noye fu posto sotto sorveglianza della polizia. Nel gennaio 1985 uccise un agente di polizia, John Fordham, che aveva scoperto nel suo giardino.
Al processo conclusivo del dicembre successivo, la giuria lo giudicò non colpevole, dichiarando che avesse agito per legittima difesa.
McAvoy fu condannato a 25 anni di reclusione per rapina a mano armata.
Anthony Black fu condannato a sei anni.
Nel 1986, Noye fu dichiarato colpevole di cospirazione sulla gestione dell'oro di Brink's-Mat, e condannato ad una multa di 500.000 sterline, più 200.000 sterline, e condannato a 14 anni di prigione. Ha scontato sette anni prima di essere rilasciato nel 1994.
George Francis fu poi assassinato e McAvoy fu ritenuto un sospetto.
I tentativi di McAvoy di concludere un accordo per restituire la sua parte di denaro in cambio di una riduzione della pena fallirono, poiché ormai i soldi erano svaniti.
Nel gennaio 1995, l' Alta Corte ordinò a McAvoy di effettuare un pagamento di £ 27,488,299, rendendolo responsabile dell'intera somma rubata. È stato rilasciato dal carcere nel 2000.
Nel 1996 Noye ha ucciso l'automobilista Stephen Cameron durante un incidente stradale . Arrestato in Spagna ed estradato, è stato condannato per l'omicidio di Cameron nel 2000 e ha ricevuto un'ergastolo.
Gran parte delle tre tonnellate di oro rubato non sono mai state recuperate e gli altri quattro rapinatori non sono mai stati condannati. Nel 1996 circa metà dell'oro, la parte che era stata fusa, fu probabilmente rimessa sul mercato dell'oro, comprese le riserve dei veri proprietari, Johnson Matthey.
Secondo la BBC, chiunque indossi gioielli d'oro acquistati nel Regno Unito dopo il 1983 probabilmente indossa oro proveniente da quella rapina.
Il 26 novembre 1983 6.800 lingotti d'oro, per un valore di quasi 26 milioni di sterline, vengono rubati dal caveau della Brinks Mat all'Aeroporto di Heathrow.
La rapina alla Brink's-Mat presso l'Heathrow International Trading Estate il 26 novembre 1983 fu' un record , £ 26 milioni (oggi circa £ 500 milioni) di lingotti d'oro, diamanti e denaro rubato da un magazzino. I lingotti erano di proprietà della Johnson Matthey Bankers Ltd, che è crollata l'anno successivo dopo aver effettuato ingenti prestiti a truffatori e ditte insolventi. Molti della banda di rapinatori sono stati condannati, ma la maggior parte dell'oro non è mai stata recuperata.
Gli assicuratori Lloyd's of London hanno pagato le perdite. Diversi omicidi sono stati collegati al caso, più i collegamenti stabiliti per il furto con deposito di sicurezza Hatton Garden oltre 30 anni dopo, nell'aprile 2015.
La rapina alla Brink's-Mat avvenne presto il 26 novembre 1983 quando sei rapinatori irruppero nel magazzino di Brink's-Mat , l'Unità 7 della Heathrow International Trading Estate vicino all'aeroporto di Heathrow nella zona ovest di Londra.
All'epoca fu descritto come "il crimine del secolo".
La banda ottenne l'ingresso nel magazzino dalla guardia di sicurezza Anthony Black.
Una volta dentro, versarono benzina sul pavimento e minacciarono le guardie interne con un fiammifero acceso, se non avessero rivelato i numeri di combinazione del caveau.
I ladri pensavano di rubare 3,2 milioni di sterline in contanti, ma trovarono invece tre tonnellate di lingotti d'oro e rubarono 26 milioni di sterline (circa 500 milioni di sterline nel 2017) in oro, diamanti e denaro.
Due giorni dopo la rapina, una coppia vide un crogiolo incandescente che fumava in una capanna in un luogo vicino a Bath, nel Somerset. Sospettando che potesse essere collegato alla rapina di lingotti, immediatamente informarono la polizia. La polizia arrivò, ma poiché la capanna si trovava appena al di fuori della loro giurisdizione, i poliziotti dissero che avrebbero trasmesso l'informazione alla polizia responsabile di quella zona.
Alla coppia non fu mai stato chiesto di rilasciare una dichiarazione alla polizia o di testimoniare in tribunale.
Nessuna spiegazione è stata data per il mancato controllo da parte della polizia.
Solo 14 mesi dopo i locali furono perquisiti: fu trovata la fonderia e l'occupante John Palmer, un mercante di gioielli e lingottiere locale, arrestato. In tribunale, Palmer disse di non essere a conoscenza che l'oro fosse legato alla rapina e fu scagionato da ogni accusa.
Per questo incidente, Palmer ha acquisito il soprannome di "Goldfinger".
Uno dei rapinatori, Brian Robinson, fu catturato dopo che l'agente segreto della sicurezza Black, suo cognato, passò il suo nome agli investigatori. Fu arrestato nel dicembre 1983.
Scotland Yard ha rapidamente scoperto la connessione familiare e Black ha confessato di aver aiutato e favorito i rapinatori, fornendo loro una chiave per la porta principale e dando loro dettagli sulle misure di sicurezza.
Micky McAvoy aveva affidato parte della sua quota ai soci Brian Perry e George Francis. Perry reclutò Kenneth Noye , che era un esperto nel suo campo, per disporre dell'oro. Noye sciolse i lingotti e li rimise in vendita, mescolando monete di rame per mascherare la fonte. Tuttavia, l'improvviso spostamento di ingenti somme di denaro attraverso una banca di Bristol mise in allarme la Bank of England, che informò la polizia.
Noye fu posto sotto sorveglianza della polizia. Nel gennaio 1985 uccise un agente di polizia, John Fordham, che aveva scoperto nel suo giardino.
Al processo conclusivo del dicembre successivo, la giuria lo giudicò non colpevole, dichiarando che avesse agito per legittima difesa.
McAvoy fu condannato a 25 anni di reclusione per rapina a mano armata.
Anthony Black fu condannato a sei anni.
Nel 1986, Noye fu dichiarato colpevole di cospirazione sulla gestione dell'oro di Brink's-Mat, e condannato ad una multa di 500.000 sterline, più 200.000 sterline, e condannato a 14 anni di prigione. Ha scontato sette anni prima di essere rilasciato nel 1994.
George Francis fu poi assassinato e McAvoy fu ritenuto un sospetto.
I tentativi di McAvoy di concludere un accordo per restituire la sua parte di denaro in cambio di una riduzione della pena fallirono, poiché ormai i soldi erano svaniti.
Nel gennaio 1995, l' Alta Corte ordinò a McAvoy di effettuare un pagamento di £ 27,488,299, rendendolo responsabile dell'intera somma rubata. È stato rilasciato dal carcere nel 2000.
Nel 1996 Noye ha ucciso l'automobilista Stephen Cameron durante un incidente stradale . Arrestato in Spagna ed estradato, è stato condannato per l'omicidio di Cameron nel 2000 e ha ricevuto un'ergastolo.
Gran parte delle tre tonnellate di oro rubato non sono mai state recuperate e gli altri quattro rapinatori non sono mai stati condannati. Nel 1996 circa metà dell'oro, la parte che era stata fusa, fu probabilmente rimessa sul mercato dell'oro, comprese le riserve dei veri proprietari, Johnson Matthey.
Secondo la BBC, chiunque indossi gioielli d'oro acquistati nel Regno Unito dopo il 1983 probabilmente indossa oro proveniente da quella rapina.
lunedì 25 novembre 2019
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 25 novembre.
Il 25 novembre 1915 Albert Einstein mette a punto l'equazione di campo:
Come è noto le masse deformano la struttura spazio temporale dell’universale che risulta come curva.
Qualunque corpo di massa più piccola, compresa la luce, che si trovi in prossimità di tali masse è costretto a muoversi lungo percorsi quindi che non sono rettilinei bensì curvi, seguendo la geometria dello spazio tempo curvo, e ciò porta a conseguenze sconcertanti come nella dilatazione gravitazionale dei tempi.
L’equazione di campo di Einstein consente di calcolare quale sia la geometria dello spazio una volta che risulta nota la distribuzione delle masse.
Una curva geodetica o geodetica rappresenta la minima distanza che unisce due punti nello spazio tempo.
In uno spazio euclideo piatto le curve geodetiche sono delle rette, in uno spazio curvo ad esempio quella su di una superficie sferica sono invece archi di circonferenza.
Le cose si fanno molto più complicate quando passiamo dalla rappresentazione dello spazio tempo a una dimensione spaziale ed una temporale (diagramma di Minkoswky) a una a tre dimensioni in cui pensiamo di curvare tale diagramma.
In un diagramma di Minkowsky infatti un punto era rappresentato da una retta, la cosiddetta linea d’universo che forniva la coordinata spaziale e temporale contemporaneamente (cioè il dove e il quando di un evento).
La serie di tutti i punti di una retta forniva dunque la rappresentazione di un fenomeno e l’inclinazione della retta era direttamente collegata con la velocità.
Adesso in una rappresentazione a 3 dimensioni le rette diventano superfici curve e pertanto in tale spazio non vale più la geometria euclidea.
Le più importanti geometrie non euclidee da ricordare sono quelle ellittiche ed iperboliche.
Nelle geometrie ellittiche non è possibile avere rette parallele ad una data retta, che passino per un punto esterno ad essa, ed inoltre la somma degli angoli interni di un triangolo tracciato su di una tale superficie ellittica è tale per cui la somma degli angoli interni è sempre maggiore di 180°.
Nelle geometrie iperboliche invece è possibile individuare infinite rette parallele ad una data retta che passino per un punto esterno a quest’ultima.
In questo caso la somma degli angoli interni di un triangolo tracciato su di una tale superficie iperbolica è sempre minore di 180°.
Quando si ha a che fare con sistemi di riferimento non inerziali, cioè accelerati, si possono approssimare come inerziali solo alcune zone locali dell’intero sistema e solo per brevi istanti di tempo.
Ciò vorrebbe dire approssimare un grande spazio curvo con uno piatto limitatamente ad una piccola porzione di esso, come per esempio la Terra che ha una grandissima superficie curva ma che a noi, solo localmente, appare come piatta.
In un universo approssimato come piatto le leggi di Newton risultano ancora valide.
Matematicamente Einstein descrive questo spazio tempo con un’equazione che lega la curvatura Gμν di un punto dello spazio tempo al tensore Tμν (cioè una generalizzazione del concetto di vettore) energia cioè che la curvatura dello spazio è direttamente proporzionale alla densità di energia.
Il significato fisico di questa equazione è che lo spazio tempo curvo è il risultato di una certa densità di energia e quindi materia ricordando che E = m ∙ c2 e più esso è incurvato più alta sarà allora l’attrazione gravitazionale.
In realtà quella sopra scritta è una semplificazione dell’equazione a cui giunse Einstein che invece presenta una forma specifica della curvatura dello spazio tempo ed è la seguente:
La soluzione di questa equazione esula dai programmi delle scuole superiori a livello nazionale e viene trattato solo in ambito universitario per la complessità matematica che la sostiene.
Tuttavia è interessante discutere che si perviene ad un risultato circa la geometria dell’universo che viene definita in rapporto alla velocità di espansione dell’universo stesso e alla densità di energia/materia.
In sostanza la densità di energia/massa influenza la velocità di espansione dell’universo ed esiste una soglia critica di densità al di sotto della quale si ha un universo aperto che continuerà ad espandersi per sempre mentre al di sopra si avrà un universo chiuso che è destinato inesorabilmente a contrarsi.
Il 25 novembre 1915 Albert Einstein mette a punto l'equazione di campo:
Come è noto le masse deformano la struttura spazio temporale dell’universale che risulta come curva.
Qualunque corpo di massa più piccola, compresa la luce, che si trovi in prossimità di tali masse è costretto a muoversi lungo percorsi quindi che non sono rettilinei bensì curvi, seguendo la geometria dello spazio tempo curvo, e ciò porta a conseguenze sconcertanti come nella dilatazione gravitazionale dei tempi.
L’equazione di campo di Einstein consente di calcolare quale sia la geometria dello spazio una volta che risulta nota la distribuzione delle masse.
Una curva geodetica o geodetica rappresenta la minima distanza che unisce due punti nello spazio tempo.
In uno spazio euclideo piatto le curve geodetiche sono delle rette, in uno spazio curvo ad esempio quella su di una superficie sferica sono invece archi di circonferenza.
Le cose si fanno molto più complicate quando passiamo dalla rappresentazione dello spazio tempo a una dimensione spaziale ed una temporale (diagramma di Minkoswky) a una a tre dimensioni in cui pensiamo di curvare tale diagramma.
In un diagramma di Minkowsky infatti un punto era rappresentato da una retta, la cosiddetta linea d’universo che forniva la coordinata spaziale e temporale contemporaneamente (cioè il dove e il quando di un evento).
La serie di tutti i punti di una retta forniva dunque la rappresentazione di un fenomeno e l’inclinazione della retta era direttamente collegata con la velocità.
Adesso in una rappresentazione a 3 dimensioni le rette diventano superfici curve e pertanto in tale spazio non vale più la geometria euclidea.
Le più importanti geometrie non euclidee da ricordare sono quelle ellittiche ed iperboliche.
Nelle geometrie ellittiche non è possibile avere rette parallele ad una data retta, che passino per un punto esterno ad essa, ed inoltre la somma degli angoli interni di un triangolo tracciato su di una tale superficie ellittica è tale per cui la somma degli angoli interni è sempre maggiore di 180°.
Nelle geometrie iperboliche invece è possibile individuare infinite rette parallele ad una data retta che passino per un punto esterno a quest’ultima.
In questo caso la somma degli angoli interni di un triangolo tracciato su di una tale superficie iperbolica è sempre minore di 180°.
Quando si ha a che fare con sistemi di riferimento non inerziali, cioè accelerati, si possono approssimare come inerziali solo alcune zone locali dell’intero sistema e solo per brevi istanti di tempo.
Ciò vorrebbe dire approssimare un grande spazio curvo con uno piatto limitatamente ad una piccola porzione di esso, come per esempio la Terra che ha una grandissima superficie curva ma che a noi, solo localmente, appare come piatta.
In un universo approssimato come piatto le leggi di Newton risultano ancora valide.
Matematicamente Einstein descrive questo spazio tempo con un’equazione che lega la curvatura Gμν di un punto dello spazio tempo al tensore Tμν (cioè una generalizzazione del concetto di vettore) energia cioè che la curvatura dello spazio è direttamente proporzionale alla densità di energia.
Il significato fisico di questa equazione è che lo spazio tempo curvo è il risultato di una certa densità di energia e quindi materia ricordando che E = m ∙ c2 e più esso è incurvato più alta sarà allora l’attrazione gravitazionale.
In realtà quella sopra scritta è una semplificazione dell’equazione a cui giunse Einstein che invece presenta una forma specifica della curvatura dello spazio tempo ed è la seguente:
La soluzione di questa equazione esula dai programmi delle scuole superiori a livello nazionale e viene trattato solo in ambito universitario per la complessità matematica che la sostiene.
Tuttavia è interessante discutere che si perviene ad un risultato circa la geometria dell’universo che viene definita in rapporto alla velocità di espansione dell’universo stesso e alla densità di energia/materia.
In sostanza la densità di energia/massa influenza la velocità di espansione dell’universo ed esiste una soglia critica di densità al di sotto della quale si ha un universo aperto che continuerà ad espandersi per sempre mentre al di sopra si avrà un universo chiuso che è destinato inesorabilmente a contrarsi.
domenica 24 novembre 2019
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Il 24 novembre 2009 viene uccisa Lea Garofalo.
Lea Garofalo era l'ex moglie del boss Carlo Cosco che dopo essere diventata testimone di giustizia fu uccisa dalla ‘ndrangheta, nei dintorni di Monza, in Lombardia, in un agguato organizzato dal suo ex marito. Lea Garofalo aveva 35 anni: prima di essere uccisa fu torturata, nella frazione monzese di San Fruttuoso, e il suo corpo fu poi bruciato. I resti furono ritrovati soltanto nel 2012. Per questo delitto, al termine di lungo processo che si è concluso a marzo 2012, sono state condannate all’ergastolo – con sentenze confermate in appello nel 2013 e definitivamente in Cassazione nel 2014 – diverse persone del clan Cosco, tra cui l’ex marito di Garofalo, riconosciuto come mandante dell’omicidio.
Lea Garofalo, nata nel 1974 a Petilia Policastro, in provincia di Crotone, è riconosciuta e ricordata come un simbolo della lotta contro la criminalità organizzata. Prima di morire, le sue testimonianze servirono nelle indagini riguardo diversi membri del clan dei Cosco, anche per delitti contro altri parenti di lei, tra cui il fratello Floriano, boss rivale dei Cosco. In occasione del funerale pubblico celebrato nel 2013, Denise Garofalo, figlia di Lea, scrisse di sua madre: “Ha avuto il coraggio di ribellarsi alla cultura della mafia, la forza di non piegarsi alla rassegnazione. Il suo funerale pubblico è un segno di vicinanza non solo a lei, ma a tutte le donne e gli uomini che hanno rischiato e continuano a mettersi in gioco per la propria dignità e per la giustizia di tutti”.
La lunga storia di Lea Garofalo fu ripresa da diversi giornali italiani ed è stata raccontata fin dal 2010, quando la notizia della sua morte cruenta suscitò grande biasimo da parte dell’opinione pubblica.
Lea Garofalo faceva parte di un’altra famiglia legata alla criminalità organizzata crotonese: queste relazioni emersero in ambito nazionale il 7 maggio 1996, quando furono arrestati a Milano alcuni membri della ‘ndrangheta di Petilia Policastro, che già da alcuni anni aveva cominciato a stringere relazioni nel nord dell’Italia. Tra gli arrestati c’era anche Floriano Garofalo, giovane boss incaricato di gestire gli affari milanesi per conto dei Garofalo, e che fu poi assolto nel processo seguente l’arresto. Floriano Garofalo era il fratello di Lea Garofalo: fu ucciso l’8 giugno del 2005, nove anni dopo quel primo arresto e dopo l’assoluzione, in un agguato dei Cosco nella frazione Pagliarelle di Petilia Policastro.
Alla fine degli anni Ottanta, dopo aver conosciuto ed essersi innamorata del suo compaesano Carlo Cosco, Lea Garofalo – che all’epoca aveva 13 anni – era andata a vivere con lui a Milano. Cosco aveva cominciato a frequentare alcuni spacciatori di Quarto Oggiaro, dove era già presente un gruppo della ‘ndrangheta operante in Lombardia. Garofalo e Cosco avevano una figlia, Denise. Lui era diventato, con il passare del tempo, un capo della criminalità calabrese a Milano. Scrive Emanuela Zuccalà in un articolo sulla sezione “27esimaora” del Corriere:
[Lea Garofalo] aveva fatto la “fuitina” a 13 anni con il ragazzo di cui s’era innamorata proprio per dimenticare la Calabria e abbracciare un mondo nuovo a Milano, fatto di regole diverse e senza strade imbrattate di sangue. Invece qui si era ritrovata in un ambiente identico, con i picciotti della ‘ndrangheta che si ammazzavano tra loro, nello stabile di via Montello 6 di proprietà della Fondazione Policlinico occupato abusivamente da famiglie calabresi che campavano con la droga.
Dopo aver lasciato Cosco nel 1996, nel 2002 Lea Garofalo entrò in un programma di protezione per testimoni che collaborano con la giustizia. Fornì informazioni riguardo omicidi di mafia avvenuti alla fine degli anni novanta a Milano: nel caso dell’omicidio di Antonio Comberiati, nel 1995, la sua collaborazione servì a stabilire il ruolo avuto da suo fratello Floriano e dal fratello di Carlo Cosco, Giuseppe Cosco detto «Smith». Dopo essere stata trasferita a Campobasso, però, Lea Garofalo perse le tutele del programma di protezione perché la collaborazione offerta non fu ritenuta sufficientemente rilevante. Lei si rivolse prima al TAR e poi al Consiglio di Stato: fu riammessa nel programma nell’aprile del 2009 – pochi mesi prima della sua scomparsa – ma decise di rinunciare volontariamente a ogni tutela e tornare a Petilia Policastro, per poi trasferirsi di nuovo a Campobasso. Con sua figlia Denise.
Nel maggio 2009 Garofalo raccontò ai carabinieri di Campobasso di avere subito un’aggressione nel suo appartamento da parte di un sicario inviato da Cosco. Secondo la ricostruzione dei carabinieri e della Procura di Campobasso, l’uomo riuscì a entrare in casa senza difficoltà e poi aggredì Lea Garofalo, che disse di essere riuscita a sottrarsi all’agguato anche grazie all’aiuto della figlia Denise. Come emerse nei mesi seguenti, Cosco tentò di far uccidere Garofalo perché preoccupato per quello che lei avrebbe potuto rivelare a novembre durante l’udienza di un processo a cui era stata chiamata a testimoniare a Firenze.
Il 24 novembre 2009 Carlo Cosco riuscì comunque a convincere Lea Garofalo, che si trovava in Calabria con Denise, a incontrarsi a Milano. Dovevano parlare del futuro di Denise, disse lui per ottenere l’incontro. Cosco e Garofalo parlarono in presenza della figlia; poi lui disse di voler accompagnare Denise a trovare gli zii, ma Lea – rifiutando di andare con Cosco – diede appuntamento alla figlia per incontrarsi alla stazione centrale di Milano e tornare a casa, in Calabria. Da quel momento, le tracce di Lea Garofalo andarono completamente perse fino al 2012, quando i suoi resti furono ritrovati nelle vicinanze di un cantiere a San Fruttuoso, a Monza. Il 24 novembre Cosco, che era rimasto con la figlia Denise, fu il primo a chiamare la polizia denunciando la scomparsa di Lea.
Le vicende precedenti la scomparsa di Lea Garofalo furono ricostruite nel corso delle indagini: contro Cosco fu emessa un’ordinanza di custodia cautelare riguardo al primo tentato sequestro nel maggio 2009. Le indagini successive stabilirono che Cosco aveva pianificato il rapimento e l’uccisione della sua ex compagna.
sabato 23 novembre 2019
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 23 novembre.
Il 23 novembre 2003 Eduard Shevardnadze viene deposto in quella che fu battezzata la rivoluzione delle rose.
Nel novembre 2003 migliaia di persone scendono in piazza a Tbilisi per protestare contro i presunti brogli elettorali che avrebbero così consentito nuovamente all’ottantenne Eduard Shevarnadze di essere eletto Presidente della Repubblica: la Georgia è catapultata sulla scena internazionale. Quella che sarà chiamata Rivoluzione delle Rose, e che ispirerà poi le altre rivoluzioni floreali o colorate, è salutata con entusiasmo e fiducia dalle democrazie occidentali: Shevarnadze dopo giorni di tensioni e manifestazioni di protesta rassegnerà le sue dimissioni e partirà alla volta di Mosca, dopo essersi assicurato l’immunità. Nel gennaio 2004 Mikhail Saakashvili, leader carismatico della rivoluzione di velluto, viene eletto con il 97,5% delle preferenze Presidente della Repubblica: la Georgia si appresta a voltare pagina, la gente che non aveva espresso un semplice voto, ma riposto una speranza, prova a rialzare la china; ma il sentiero che porta alla democrazia e allo sviluppo economico e sociale è estremamente complicato e “Misha”, il più giovane capo di Governo, è chiamato a rispondere in maniera rapida alle attese di una popolazione la cui maggioranza vive sotto la soglia minima di sopravvivenza. Gli obiettivi primari sono il pagamento regolare delle pensioni, l’aumento dei salari, la riduzione dell’inflazione, la lotta alla corruzione, ma anche il problema delle dipendenze dalla Russia, il vicino scomodo (ma non sempre), sia sotto l’aspetto del rifornimento energetico (pressoché totale), sia sotto quello dello sbocco commerciale dei propri prodotti (buona parte); a ciò si aggiunge l’annoso problema dei separatismi in Abchazia e Ossezia del Sud, fomentati certamente dalla Russia.
I primi mesi dell’era Saakashvili sono più che soddisfacenti, soprattutto alla luce di due obiettivi importantissimi realizzati dal Governo: l’accordo per il ritiro delle ultime due basi militari russe dal territorio georgiano, e la liberazione dell’Adjara dalle dipendenze del dittatore Aslan Abashidze; d’altronde il Presidente, durante il suo giuramento sulla tomba di di Re David IV, conosciuto come Aghmashenebeli o il “costruttore” grazie all’unificazione dei principati georgiani, aveva promesso di mantenere l’integrità territoriale gravemente minacciata. Forte dell’appoggio di Washington che oltre al programma Train and Equip, destinato all’ammodernamento dell’esercito, stanzia milioni di dollari per lo sviluppo economico del Paese, Saakashvili riesce nei primi mesi a dare una scossa alla vita economica della Georgia, profondamente segnata dall’ empasse dell’era Shevarnadze, lanciando una sferrata lotta alla corruzione, favorendo l’afflusso di crediti da parte del FMI e della World Bank, nonostante un debito estero di 1.8 miliardi di dollari, accelerando le trattative per l’ingresso del Paese sia nella NATO che nella UE, inaugurando l’oleodotto più lungo del mondo, ossia il Baku-Tbilisi-Cheyan (BTC) che trasporta petrolio dal Mar Caspio fino alle coste della Turchia, un incentivo importante, unito ad una nuova politica energetica, nel tentativo di ridurre le dipendenze da Mosca. Ma con i mesi Saakashvili sembra perdere consensi: accusato di forte accentramento di poteri, di criminalizzare l’opposizione, piuttosto esigua visto la soglia di sbarramento in Parlamento del 7%, di non aver apportato le riforme necessarie e previste nella Costituzione e nell’apparato produttivo, di mascherare dietro un forte nazionalismo, che a volte ricorda quello tragico di Gamsakhurdia e che ha portato al riesplodere dei conflitti in Abchazia ed Ossezia del Sud, la sua politica fallimentare.
Colui che si era ripromesso di portare entro 75 anni la Georgia agli standard di vita occidentali adesso viene definito “democrate senza democrazia”: ai nuovi problemi sorti nella giovane democrazia s’intrecciano gli interessi delle grandi Potenze, Russia e Usa su tutte, che si contendono il controllo della regione caucasica. Brzezinski definì la Georgia chiave del Sud Caucaso, e gli interessi degli Usa, mascherati non troppo dietro le sovvenzioni per lo sviluppo economico e sociale di Tbilisi, sembrano avvalorarne la tesi, nonostante la Russia lo neghi, contraddetta però dal tentativo di non perdere altro terreno in quello che in molti hanno già definito il “grande gioco”: la partita, per il momento, sembra essere pilotata verso un pareggio, un equilibrio di interessi certamente favorito anche dalla lotta al terrorismo che vede coinvolte sia Usa che Russia; ma lo scenario dove si sta giocando questa gara resta comunque fragile, un’instabilità che ha radici storiche e che non sembra assolutamente sopita. La sensazione che oggi aleggia sulla Georgia, e sul Caucaso in generale, è che non solo la rivoluzione delle rose sia stata una rivoluzione mancata, ma che altre rivoluzioni floreali o colorate possano verificarsi per semplici cambiamenti di Governo o per variazioni di interessi che poggiano sul fragile filo degli equilibri tra le grandi Potenze.
Il 23 novembre 2003 Eduard Shevardnadze viene deposto in quella che fu battezzata la rivoluzione delle rose.
Nel novembre 2003 migliaia di persone scendono in piazza a Tbilisi per protestare contro i presunti brogli elettorali che avrebbero così consentito nuovamente all’ottantenne Eduard Shevarnadze di essere eletto Presidente della Repubblica: la Georgia è catapultata sulla scena internazionale. Quella che sarà chiamata Rivoluzione delle Rose, e che ispirerà poi le altre rivoluzioni floreali o colorate, è salutata con entusiasmo e fiducia dalle democrazie occidentali: Shevarnadze dopo giorni di tensioni e manifestazioni di protesta rassegnerà le sue dimissioni e partirà alla volta di Mosca, dopo essersi assicurato l’immunità. Nel gennaio 2004 Mikhail Saakashvili, leader carismatico della rivoluzione di velluto, viene eletto con il 97,5% delle preferenze Presidente della Repubblica: la Georgia si appresta a voltare pagina, la gente che non aveva espresso un semplice voto, ma riposto una speranza, prova a rialzare la china; ma il sentiero che porta alla democrazia e allo sviluppo economico e sociale è estremamente complicato e “Misha”, il più giovane capo di Governo, è chiamato a rispondere in maniera rapida alle attese di una popolazione la cui maggioranza vive sotto la soglia minima di sopravvivenza. Gli obiettivi primari sono il pagamento regolare delle pensioni, l’aumento dei salari, la riduzione dell’inflazione, la lotta alla corruzione, ma anche il problema delle dipendenze dalla Russia, il vicino scomodo (ma non sempre), sia sotto l’aspetto del rifornimento energetico (pressoché totale), sia sotto quello dello sbocco commerciale dei propri prodotti (buona parte); a ciò si aggiunge l’annoso problema dei separatismi in Abchazia e Ossezia del Sud, fomentati certamente dalla Russia.
I primi mesi dell’era Saakashvili sono più che soddisfacenti, soprattutto alla luce di due obiettivi importantissimi realizzati dal Governo: l’accordo per il ritiro delle ultime due basi militari russe dal territorio georgiano, e la liberazione dell’Adjara dalle dipendenze del dittatore Aslan Abashidze; d’altronde il Presidente, durante il suo giuramento sulla tomba di di Re David IV, conosciuto come Aghmashenebeli o il “costruttore” grazie all’unificazione dei principati georgiani, aveva promesso di mantenere l’integrità territoriale gravemente minacciata. Forte dell’appoggio di Washington che oltre al programma Train and Equip, destinato all’ammodernamento dell’esercito, stanzia milioni di dollari per lo sviluppo economico del Paese, Saakashvili riesce nei primi mesi a dare una scossa alla vita economica della Georgia, profondamente segnata dall’ empasse dell’era Shevarnadze, lanciando una sferrata lotta alla corruzione, favorendo l’afflusso di crediti da parte del FMI e della World Bank, nonostante un debito estero di 1.8 miliardi di dollari, accelerando le trattative per l’ingresso del Paese sia nella NATO che nella UE, inaugurando l’oleodotto più lungo del mondo, ossia il Baku-Tbilisi-Cheyan (BTC) che trasporta petrolio dal Mar Caspio fino alle coste della Turchia, un incentivo importante, unito ad una nuova politica energetica, nel tentativo di ridurre le dipendenze da Mosca. Ma con i mesi Saakashvili sembra perdere consensi: accusato di forte accentramento di poteri, di criminalizzare l’opposizione, piuttosto esigua visto la soglia di sbarramento in Parlamento del 7%, di non aver apportato le riforme necessarie e previste nella Costituzione e nell’apparato produttivo, di mascherare dietro un forte nazionalismo, che a volte ricorda quello tragico di Gamsakhurdia e che ha portato al riesplodere dei conflitti in Abchazia ed Ossezia del Sud, la sua politica fallimentare.
Colui che si era ripromesso di portare entro 75 anni la Georgia agli standard di vita occidentali adesso viene definito “democrate senza democrazia”: ai nuovi problemi sorti nella giovane democrazia s’intrecciano gli interessi delle grandi Potenze, Russia e Usa su tutte, che si contendono il controllo della regione caucasica. Brzezinski definì la Georgia chiave del Sud Caucaso, e gli interessi degli Usa, mascherati non troppo dietro le sovvenzioni per lo sviluppo economico e sociale di Tbilisi, sembrano avvalorarne la tesi, nonostante la Russia lo neghi, contraddetta però dal tentativo di non perdere altro terreno in quello che in molti hanno già definito il “grande gioco”: la partita, per il momento, sembra essere pilotata verso un pareggio, un equilibrio di interessi certamente favorito anche dalla lotta al terrorismo che vede coinvolte sia Usa che Russia; ma lo scenario dove si sta giocando questa gara resta comunque fragile, un’instabilità che ha radici storiche e che non sembra assolutamente sopita. La sensazione che oggi aleggia sulla Georgia, e sul Caucaso in generale, è che non solo la rivoluzione delle rose sia stata una rivoluzione mancata, ma che altre rivoluzioni floreali o colorate possano verificarsi per semplici cambiamenti di Governo o per variazioni di interessi che poggiano sul fragile filo degli equilibri tra le grandi Potenze.
venerdì 22 novembre 2019
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 22 novembre.
Il 22 novembre 2005 Angela Merkel diventa la prima cancelliera donna della Germania.
Angela Dorothea Kasner - questo è il suo nome completo da nubile - nasce ad Amburgo il 17 luglio 1954. Poche settimane dopo si trasferisce ma già tre settimane dopo venne portata a Quitzow, piccolo paesino di trecento abitanti nella regione di Prignitz, nel Brandeburgo (Repubblica democratica tedesca). Lì il padre Horst Kasner aveva ricevuto il suo primo incarico di pastore dopo gli studi di teologia ad Amburgo. Tre anni dopo la famiglia si trasferisce a Templin, nella regione di Uckermark.
Durante i primi cinque mesi di vita di Angela quasi 200.000 cittadini avevano compiuto un percorso inverso, fuggendo dallo Stato socialista. Tuttavia nella RDT vi era una grande carenza di pastori e alcuni prelati si spostavano volontariamente da ovest verso est.
Il pastore sarà definito "Kasner il rosso", per via dei suoi tentativi di dialogare con il regime della RDT. Si intuisce così come la politica e i temi sociali siano stati fin dall'infanzia, pane quotidiano per Angela.
Studentessa eccezionale, si iscrive alla facoltà di Fisica a Lipsia nel 1973. Durante questi anni dimostra inoltre le sue potenzialità come leader: è iscritta all'organizzazione giovanile comunista della SED (FDJ) e ricopre anche incarichi direttivi.
Conseguita la laurea nel 1978, la svolta dell'attivismo politico arriva soltanto alla fine del 1989, alcuni giorni prima di Natale, quando ormai il regime comunista era finito. Dopo aver inizialmente guardato con scarso interesse alla PDS - il partito del socialismo democratico costituito nella Germania dell'Est nel 1989 - aderisce al Demokratischer Aufbruch (Risveglio democratico), un partito politicamente ben radicato che alcuni mesi dopo si allea con la CDU nell'ambito della "Alleanza per la Germania" per le prime - e allo stesso tempo ultime - elezioni libere della Camera nella RDT.
Quella che segue è carriera politica in rapida ascesa: prima è vice portavoce del governo dell'ultimo governo della RDT sotto Lothar de Maizière, poi deputata del Bundestag, ministro per le Donne e la Gioventù, ministro dell'Ambiente, quindi, dopo le elezioni perse dalla CDU/CSU, segretario generale nonché presidente del partito e del gruppo parlamentare della CDU.
L'irresistibile ascesa di Angela Merkel è dovuta almeno in parte nella caparbietà e ostinazione con cui persegue gli obiettivi. La sua forte volontà di conquistare il potere - aspetto che condivide con i cancellieri Helmut Kohl e Gerhard Schröder - si intreccia con la necessità di dimostrare di essere migliore degli altri. Altra ragione del suo successo è il modo in cui affronta le sfide. Talento di questa "scienziata della natura" è la sua grande razionalità, che contraddistingue anche il suo stile politico. La soluzione dei problemi, per la Merkel, trova concretezza dall'applicazione di criteri di efficienza. Filoamericana, nel 2002 Angela Merkel si è espressa a favore della politica americana in Iraq, tanto che le sue dichiarazioni l'hanno fatta dipingere dai media tedeschi, come una "americana in Germania".
Pupilla di Helmut Kohl, è diventata nuovo cancelliere tedesco dopo le elezioni del 2005, succedendo a Gerhard Schröder. Angela Merkel viene poi rieletta nel 2009. Si riconferma vincendo le elezioni del settembre 2013, sfiorando addirittura la maggioranza assoluta.
Il 22 novembre 2005 Angela Merkel diventa la prima cancelliera donna della Germania.
Angela Dorothea Kasner - questo è il suo nome completo da nubile - nasce ad Amburgo il 17 luglio 1954. Poche settimane dopo si trasferisce ma già tre settimane dopo venne portata a Quitzow, piccolo paesino di trecento abitanti nella regione di Prignitz, nel Brandeburgo (Repubblica democratica tedesca). Lì il padre Horst Kasner aveva ricevuto il suo primo incarico di pastore dopo gli studi di teologia ad Amburgo. Tre anni dopo la famiglia si trasferisce a Templin, nella regione di Uckermark.
Durante i primi cinque mesi di vita di Angela quasi 200.000 cittadini avevano compiuto un percorso inverso, fuggendo dallo Stato socialista. Tuttavia nella RDT vi era una grande carenza di pastori e alcuni prelati si spostavano volontariamente da ovest verso est.
Il pastore sarà definito "Kasner il rosso", per via dei suoi tentativi di dialogare con il regime della RDT. Si intuisce così come la politica e i temi sociali siano stati fin dall'infanzia, pane quotidiano per Angela.
Studentessa eccezionale, si iscrive alla facoltà di Fisica a Lipsia nel 1973. Durante questi anni dimostra inoltre le sue potenzialità come leader: è iscritta all'organizzazione giovanile comunista della SED (FDJ) e ricopre anche incarichi direttivi.
Conseguita la laurea nel 1978, la svolta dell'attivismo politico arriva soltanto alla fine del 1989, alcuni giorni prima di Natale, quando ormai il regime comunista era finito. Dopo aver inizialmente guardato con scarso interesse alla PDS - il partito del socialismo democratico costituito nella Germania dell'Est nel 1989 - aderisce al Demokratischer Aufbruch (Risveglio democratico), un partito politicamente ben radicato che alcuni mesi dopo si allea con la CDU nell'ambito della "Alleanza per la Germania" per le prime - e allo stesso tempo ultime - elezioni libere della Camera nella RDT.
Quella che segue è carriera politica in rapida ascesa: prima è vice portavoce del governo dell'ultimo governo della RDT sotto Lothar de Maizière, poi deputata del Bundestag, ministro per le Donne e la Gioventù, ministro dell'Ambiente, quindi, dopo le elezioni perse dalla CDU/CSU, segretario generale nonché presidente del partito e del gruppo parlamentare della CDU.
L'irresistibile ascesa di Angela Merkel è dovuta almeno in parte nella caparbietà e ostinazione con cui persegue gli obiettivi. La sua forte volontà di conquistare il potere - aspetto che condivide con i cancellieri Helmut Kohl e Gerhard Schröder - si intreccia con la necessità di dimostrare di essere migliore degli altri. Altra ragione del suo successo è il modo in cui affronta le sfide. Talento di questa "scienziata della natura" è la sua grande razionalità, che contraddistingue anche il suo stile politico. La soluzione dei problemi, per la Merkel, trova concretezza dall'applicazione di criteri di efficienza. Filoamericana, nel 2002 Angela Merkel si è espressa a favore della politica americana in Iraq, tanto che le sue dichiarazioni l'hanno fatta dipingere dai media tedeschi, come una "americana in Germania".
Pupilla di Helmut Kohl, è diventata nuovo cancelliere tedesco dopo le elezioni del 2005, succedendo a Gerhard Schröder. Angela Merkel viene poi rieletta nel 2009. Si riconferma vincendo le elezioni del settembre 2013, sfiorando addirittura la maggioranza assoluta.
giovedì 21 novembre 2019
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 21 novembre.
Il 21 novembre 1964 viene inaugurato a New York il ponte di Verrazano.
Quando fu inaugurato nel 1964, il ponte di Verrazano era il ponte ad arco sospeso più lungo del mondo. Alle sue estremità ci sono Fort Hamilton, a Brooklyn, e Fort Wadsworth, a Staten Island, che per oltre un secolo sorvegliarono il porto di New York.
Il Verrazano Bridge collegò per la prima volta il quartiere di Brooklyn noto come Bay Ridge, un’area a prevalenza italiana, con Staten Island che, tra i cinque borough di New York, è quello con una più ampia popolazione di origine italiana. Fu quindi naturale che si pensasse di intitolarlo proprio a un italiano.
Fu l’allora governatore di New York Rockefeller ad approvare, nell’aprile del ’59 la proposta della Italian Historical Society of America di intitolare il ponte alla memoria di Giovanni da Verrazzano, il navigatore fiorentino che, nel 1524, fu il primo esploratore europeo ad entrare nel porto di New York. Ci fu qualche disputa sull’ortografia del nome, ma alla fine si scelse la dicitura americana, con una sola “z”.
Le sue monumentali torri alte più di 200 metri hanno un’inclinazione che fa sì che siano più distanti tra di loro nella parte superiore rispetto ai basamenti, in modo da compensare la curvatura della terra. Ogni torre pesa 27.000 tonnellate ed è tenuta insieme da tre milioni di rivetti e un milione di bulloni. Contrazioni stagionali ed espansioni dei cavi d’acciaio fanno sì che la carreggiata a due piani, in estate, sia 12 metri più in basso che in inverno.
Da qualche tempo il ponte è al centro di un'accesa diatriba "linguistica" proprio per via della Z mancante.
Infatti The Verrazano, come lo chiamano i newyorkesi, punto di partenza della celeberrima maratona di New York e fino al 1981 il ponte sospeso più lungo del mondo, è dedicato al navigatore italiano Giovanni da Verrazzano (due zeta, non una soltanto), il primo europeo a raggiungere, nel 1524, la zona della foce del fiume Hudson e quindi l'area di New York.
In molti chiedono che l'errore sia corretto, come segno di rispetto per la nutrita comunità italoamericana newyorkese e americana. Proprio per questo è partita una raccolta firme online, con una petizione che chiede di mettere fine per sempre alla discrepanza. Nel dibattito è entrato anche Joseph Scelsa, direttore dell'Italian American Museum di Lower Manhattan: "Rettificare il nome del ponte, da Verrazano a Verrazzano, vorrebbe dire veramente a tutti gli italiani e italoamericani che li rispettiamo e li apprezziamo", ha detto.
Per il momento, la questione non è tra le priorità della Metropolitan Transportation Authority (Mta), l'autorità che gestisce i trasporti urbani newyorkesi, tanto più che cambiare il nome non sarebbe solo una formalità, ma comporterebbe anche notevoli costi (per esempio, andrebbe corretta tutta la segnaletica stradale dell'area metropolitana). "In questo momento non stiamo valutando nessun cambiamento di nome per il Verrazano Bridge", ha detto Christopher McKniff, portavoce dell'Mta, liquidando la vicenda in modo secco.
L'Mta non ha tutti i torti. Quando il Triborough Bridge, che collega Manhattan, Queens e Bronx, è stato ribattezzato nel 2008 Robert F. Kennedy Bridge, in onore dell'ex senatore di New York, sono stati spesi 4 milioni di dollari per cambiare il nome su tutti i cartelli stradali. E lo stesso vale per il Queensboro Bridge, ora chiamato Ed Koch Queensboro Bridge a ricordo dell'ex sindaco della città, e per il Brooklyn-Battery Tunnel, che ora è denominato Hugh L. Carey Tunnel, come l'ex governatore.
La città non preclude dunque a prescindere la possibilità di un cambio di nome, ma, giusto o sbagliato che sia, sembra privilegiare motivazioni più "alte", come appunto il ricordo di un personaggio importante per la città o lo stato di New York, rispetto alla correzione di un refuso, che comunque è lì da oltre cinquant'anni.
Tanto più che le autorità newyorkesi non sono mai state d'accordo a passare per sbadate: nel 1960, John LaCorte, allora direttore esecutivo dell'Italian Historical Society of America e la persona che più aveva premuto perché il ponte fosse intitolato a un italiano, aveva sostenuto di essersi consultato con le autorità italiane e di avere scelto la grafia latina del nome del navigatore, Janus Verrazanus. Peccato che il nome dato al ponte, Verrazano appunto, non sia né latino né italiano.
Il 21 novembre 1964 viene inaugurato a New York il ponte di Verrazano.
Quando fu inaugurato nel 1964, il ponte di Verrazano era il ponte ad arco sospeso più lungo del mondo. Alle sue estremità ci sono Fort Hamilton, a Brooklyn, e Fort Wadsworth, a Staten Island, che per oltre un secolo sorvegliarono il porto di New York.
Il Verrazano Bridge collegò per la prima volta il quartiere di Brooklyn noto come Bay Ridge, un’area a prevalenza italiana, con Staten Island che, tra i cinque borough di New York, è quello con una più ampia popolazione di origine italiana. Fu quindi naturale che si pensasse di intitolarlo proprio a un italiano.
Fu l’allora governatore di New York Rockefeller ad approvare, nell’aprile del ’59 la proposta della Italian Historical Society of America di intitolare il ponte alla memoria di Giovanni da Verrazzano, il navigatore fiorentino che, nel 1524, fu il primo esploratore europeo ad entrare nel porto di New York. Ci fu qualche disputa sull’ortografia del nome, ma alla fine si scelse la dicitura americana, con una sola “z”.
Le sue monumentali torri alte più di 200 metri hanno un’inclinazione che fa sì che siano più distanti tra di loro nella parte superiore rispetto ai basamenti, in modo da compensare la curvatura della terra. Ogni torre pesa 27.000 tonnellate ed è tenuta insieme da tre milioni di rivetti e un milione di bulloni. Contrazioni stagionali ed espansioni dei cavi d’acciaio fanno sì che la carreggiata a due piani, in estate, sia 12 metri più in basso che in inverno.
Da qualche tempo il ponte è al centro di un'accesa diatriba "linguistica" proprio per via della Z mancante.
Infatti The Verrazano, come lo chiamano i newyorkesi, punto di partenza della celeberrima maratona di New York e fino al 1981 il ponte sospeso più lungo del mondo, è dedicato al navigatore italiano Giovanni da Verrazzano (due zeta, non una soltanto), il primo europeo a raggiungere, nel 1524, la zona della foce del fiume Hudson e quindi l'area di New York.
In molti chiedono che l'errore sia corretto, come segno di rispetto per la nutrita comunità italoamericana newyorkese e americana. Proprio per questo è partita una raccolta firme online, con una petizione che chiede di mettere fine per sempre alla discrepanza. Nel dibattito è entrato anche Joseph Scelsa, direttore dell'Italian American Museum di Lower Manhattan: "Rettificare il nome del ponte, da Verrazano a Verrazzano, vorrebbe dire veramente a tutti gli italiani e italoamericani che li rispettiamo e li apprezziamo", ha detto.
Per il momento, la questione non è tra le priorità della Metropolitan Transportation Authority (Mta), l'autorità che gestisce i trasporti urbani newyorkesi, tanto più che cambiare il nome non sarebbe solo una formalità, ma comporterebbe anche notevoli costi (per esempio, andrebbe corretta tutta la segnaletica stradale dell'area metropolitana). "In questo momento non stiamo valutando nessun cambiamento di nome per il Verrazano Bridge", ha detto Christopher McKniff, portavoce dell'Mta, liquidando la vicenda in modo secco.
L'Mta non ha tutti i torti. Quando il Triborough Bridge, che collega Manhattan, Queens e Bronx, è stato ribattezzato nel 2008 Robert F. Kennedy Bridge, in onore dell'ex senatore di New York, sono stati spesi 4 milioni di dollari per cambiare il nome su tutti i cartelli stradali. E lo stesso vale per il Queensboro Bridge, ora chiamato Ed Koch Queensboro Bridge a ricordo dell'ex sindaco della città, e per il Brooklyn-Battery Tunnel, che ora è denominato Hugh L. Carey Tunnel, come l'ex governatore.
La città non preclude dunque a prescindere la possibilità di un cambio di nome, ma, giusto o sbagliato che sia, sembra privilegiare motivazioni più "alte", come appunto il ricordo di un personaggio importante per la città o lo stato di New York, rispetto alla correzione di un refuso, che comunque è lì da oltre cinquant'anni.
Tanto più che le autorità newyorkesi non sono mai state d'accordo a passare per sbadate: nel 1960, John LaCorte, allora direttore esecutivo dell'Italian Historical Society of America e la persona che più aveva premuto perché il ponte fosse intitolato a un italiano, aveva sostenuto di essersi consultato con le autorità italiane e di avere scelto la grafia latina del nome del navigatore, Janus Verrazanus. Peccato che il nome dato al ponte, Verrazano appunto, non sia né latino né italiano.
mercoledì 20 novembre 2019
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 20 novembre.
Il 20 novembre 1947 la principessa Elisabeth Windsor e il Tenente Philip Mountbatten si sposano.
La Regina Elisabetta e il Principe Filippo festeggiano oggi 72 anni di matrimonio.
Sposi il 20 Novembre 1947, superano l'ennesimo record del regno di The Queen: è il matrimonio più longevo di un monarca inglese.
Un legame, quello tra la sovrana e il Duca di Edimburgo, spesso dato per scontato, ma che negli anni passati ha fatto discutere allo stesso modo in cui oggi si parla delle nottate con gli amici di William e delle intemperanze di Meghan Markle, sposa di Harry.
Non fu un matrimonio combinato, anzi.
Era il 1934 quando Elisabetta II e Filippo Mountbatten si incontrano al matrimonio della cugina di lui.
All'epoca la futura sovrana aveva appena 8 anni.
Nel 1939 si rincontrano, lei 13enne lui già maggiorenne.
È qui che scatta la scintilla, nonostante la differenza d'età e nonostante la sua imminente partenza per la guerra.
Re Giorgio VI non era per niente convinto che quel giovane marinaio potesse essere l'uomo giusto per la figlia, colui che sarebbe dovuto starle accanto mentre lei prendeva il suo posto sul trono.
Ma Elisabetta non ha voluto sentire ragioni e questa, per i tempi, fu una delle sue più grosse conquiste: riuscire a sposare l'uomo che amava.
Solo a guerra ormai finita, Elisabetta e Filippo riescono a frequentarsi con assiduità.
Prima, come riportato dalla stessa Regina in alcune lettere, i due si erano riusciti a vedere giusto un paio di volte in tre anni.
Bisogna aspettare il 1946 perché la loro storia prenda la giusta piega, quando il giovane chiese la mano della futura sovrana a Giorgio VI con un anello di fidanzamento di tre diamanti.
Ottenuta l'approvazione, però, la coppia mantenne la cosa segreta fino al luglio del 1947 quando il re ne diede annuncio.
Il matrimonio si celebrò nel novembre dello stesso anno, nell'Abbazia di Westminster.
Per l'occasione Elisabetta decise di indossare un abito sfarzoso, ispirato - si disse - alla Primavera di Botticelli, come simbolo di rinascita per la fine della guerra.
Ad accompagnarla all'altare ben otto damigelle, che ebbero anche il compito di calmarla e aiutarla durante una piccola crisi pre-cerimonia, quando la sua corona proprio non ne voleva sapere di stare su.
Le nozze vennero trasmesse in radio e seguite da 200 milioni di persone.
Fin dal primo momento in cui Elisabetta e Filippo annunciarono il matrimonio a corte iniziarono i pettegolezzi, specie sul conto del Principe, che aveva un passato da sciupafemmine.
Voci che sono andate avanti negli anni e che sono diventate sempre più insistenti con l'uscita di libri e biografie non autorizzate.
Negli anni Novanta, in particolare, fece discutere, tanto da essere ripresa persino dal Times, quella firmata da Sarah Bradford che definì Filippo «impenitente farfallone, difficilissimo di carattere», mentre di Elisabetta diceva: «capisce il suo desiderio di indipendenza», «gli lascia i suoi spazi», «vede ma non vuole sapere».
Nel libro si sosteneva che il Duca di Edimburgo avesse avuto diverse relazioni, con attrici e donne di vario tipo, fin dall'anno successivo alle nozze.
Storie di cui Sua Maestà sarebbe stata a conoscenza, ma che fingeva di ignorare.
Versione ovviamente sempre smentita da Buckingham Palace.
Che qualche problema i due lo abbiano avuto è innegabile e normale, in 72 anni di rapporto.
In particolare, secondo fonti vicine a Palazzo, inizialmente non fu facile per Filippo rinunciare alla carriera militare in marina e accettare che nessuno dei suoi figli avrebbe preso il suo cognome.
Sacrifici cui la Regina ha sempre cercato di compensare, per esempio con il decreto emesso nel 1955 che prevedeva la possibilità di usare il cognome Mountbatten-Windsor.
Se in pubblico Filippo deve stare sempre un passo indietro rispetto a Elisabetta per onorare l'etichetta, questo non avviene a porte chiuse, quando i due sono semplicemente marito e moglie.
Diverse fonti, infatti, hanno sottolineato come il Duca di Edimburgo abbia sempre adempiuto al suo compito di Principe consorte, ma come sia stato influente nella gestione della monarchia:
«La Regina indossa la corona, ma suo marito indossa i pantaloni. È lui la vera forza dietro il trono: fermo e sempre di supporto nelle scelte di Sua Maestà», scrive il loro biografo ufficiale Gyles Brandreth.
Non solo: «Dato che è la Regina, nessuno al mondo può trattare Elisabetta normalmente, ad eccezione del Principe Filippo.
Viceversa, Sua Maestà è l'unica persona al mondo che può dire al Duca di Edimburgo di stare zitto. E lo fa».
Trascorrere una vita insieme, per di più con gli occhi di tutto il mondo sempre puntati addosso, non dev'essere semplice.
Ma se c'è una cosa che tutti abbiamo imparato ad apprezzare è il senso dell'umorismo del Principe Filippo, l'unico in grado di portare sempre il sorriso sul volto della Regina.
«L'ha fatta ridere per oltre 70 anni», scrive Brandreth.
Un altro degli ingredienti del successo della loro unione, sostiene il biografo, è il fatto che si accettino per quello che sono:
«Filippo è dinamico, avventuroso, ama i viaggi e le sfide. Elisabetta, d'altro canto, è una conservatrice, pacata, che vuole che le cose siano fatte come sempre sono state fatte.
Come coppia sono alleati, ma questo non significa che non abbiano le loro idee e le loro differenze».
Il 20 novembre 1947 la principessa Elisabeth Windsor e il Tenente Philip Mountbatten si sposano.
La Regina Elisabetta e il Principe Filippo festeggiano oggi 72 anni di matrimonio.
Sposi il 20 Novembre 1947, superano l'ennesimo record del regno di The Queen: è il matrimonio più longevo di un monarca inglese.
Un legame, quello tra la sovrana e il Duca di Edimburgo, spesso dato per scontato, ma che negli anni passati ha fatto discutere allo stesso modo in cui oggi si parla delle nottate con gli amici di William e delle intemperanze di Meghan Markle, sposa di Harry.
Non fu un matrimonio combinato, anzi.
Era il 1934 quando Elisabetta II e Filippo Mountbatten si incontrano al matrimonio della cugina di lui.
All'epoca la futura sovrana aveva appena 8 anni.
Nel 1939 si rincontrano, lei 13enne lui già maggiorenne.
È qui che scatta la scintilla, nonostante la differenza d'età e nonostante la sua imminente partenza per la guerra.
Re Giorgio VI non era per niente convinto che quel giovane marinaio potesse essere l'uomo giusto per la figlia, colui che sarebbe dovuto starle accanto mentre lei prendeva il suo posto sul trono.
Ma Elisabetta non ha voluto sentire ragioni e questa, per i tempi, fu una delle sue più grosse conquiste: riuscire a sposare l'uomo che amava.
Solo a guerra ormai finita, Elisabetta e Filippo riescono a frequentarsi con assiduità.
Prima, come riportato dalla stessa Regina in alcune lettere, i due si erano riusciti a vedere giusto un paio di volte in tre anni.
Bisogna aspettare il 1946 perché la loro storia prenda la giusta piega, quando il giovane chiese la mano della futura sovrana a Giorgio VI con un anello di fidanzamento di tre diamanti.
Ottenuta l'approvazione, però, la coppia mantenne la cosa segreta fino al luglio del 1947 quando il re ne diede annuncio.
Il matrimonio si celebrò nel novembre dello stesso anno, nell'Abbazia di Westminster.
Per l'occasione Elisabetta decise di indossare un abito sfarzoso, ispirato - si disse - alla Primavera di Botticelli, come simbolo di rinascita per la fine della guerra.
Ad accompagnarla all'altare ben otto damigelle, che ebbero anche il compito di calmarla e aiutarla durante una piccola crisi pre-cerimonia, quando la sua corona proprio non ne voleva sapere di stare su.
Le nozze vennero trasmesse in radio e seguite da 200 milioni di persone.
Fin dal primo momento in cui Elisabetta e Filippo annunciarono il matrimonio a corte iniziarono i pettegolezzi, specie sul conto del Principe, che aveva un passato da sciupafemmine.
Voci che sono andate avanti negli anni e che sono diventate sempre più insistenti con l'uscita di libri e biografie non autorizzate.
Negli anni Novanta, in particolare, fece discutere, tanto da essere ripresa persino dal Times, quella firmata da Sarah Bradford che definì Filippo «impenitente farfallone, difficilissimo di carattere», mentre di Elisabetta diceva: «capisce il suo desiderio di indipendenza», «gli lascia i suoi spazi», «vede ma non vuole sapere».
Nel libro si sosteneva che il Duca di Edimburgo avesse avuto diverse relazioni, con attrici e donne di vario tipo, fin dall'anno successivo alle nozze.
Storie di cui Sua Maestà sarebbe stata a conoscenza, ma che fingeva di ignorare.
Versione ovviamente sempre smentita da Buckingham Palace.
Che qualche problema i due lo abbiano avuto è innegabile e normale, in 72 anni di rapporto.
In particolare, secondo fonti vicine a Palazzo, inizialmente non fu facile per Filippo rinunciare alla carriera militare in marina e accettare che nessuno dei suoi figli avrebbe preso il suo cognome.
Sacrifici cui la Regina ha sempre cercato di compensare, per esempio con il decreto emesso nel 1955 che prevedeva la possibilità di usare il cognome Mountbatten-Windsor.
Se in pubblico Filippo deve stare sempre un passo indietro rispetto a Elisabetta per onorare l'etichetta, questo non avviene a porte chiuse, quando i due sono semplicemente marito e moglie.
Diverse fonti, infatti, hanno sottolineato come il Duca di Edimburgo abbia sempre adempiuto al suo compito di Principe consorte, ma come sia stato influente nella gestione della monarchia:
«La Regina indossa la corona, ma suo marito indossa i pantaloni. È lui la vera forza dietro il trono: fermo e sempre di supporto nelle scelte di Sua Maestà», scrive il loro biografo ufficiale Gyles Brandreth.
Non solo: «Dato che è la Regina, nessuno al mondo può trattare Elisabetta normalmente, ad eccezione del Principe Filippo.
Viceversa, Sua Maestà è l'unica persona al mondo che può dire al Duca di Edimburgo di stare zitto. E lo fa».
Trascorrere una vita insieme, per di più con gli occhi di tutto il mondo sempre puntati addosso, non dev'essere semplice.
Ma se c'è una cosa che tutti abbiamo imparato ad apprezzare è il senso dell'umorismo del Principe Filippo, l'unico in grado di portare sempre il sorriso sul volto della Regina.
«L'ha fatta ridere per oltre 70 anni», scrive Brandreth.
Un altro degli ingredienti del successo della loro unione, sostiene il biografo, è il fatto che si accettino per quello che sono:
«Filippo è dinamico, avventuroso, ama i viaggi e le sfide. Elisabetta, d'altro canto, è una conservatrice, pacata, che vuole che le cose siano fatte come sempre sono state fatte.
Come coppia sono alleati, ma questo non significa che non abbiano le loro idee e le loro differenze».
martedì 19 novembre 2019
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 19 novembre.
Il 19 novembre 1863 il presidente dell'Unione, Abramo Lincoln, pronuncia il famoso discorso di Gettysburg.
Quel giorno era un giovedì, quando nel corso del pomeriggio Abraham Lincoln – 16° Presidente degli Stati Uniti d’America – pronunciò uno dei più celebri e famosi discorsi della storia: il Discorso di Gettysburg.
Il contesto storico è quello della guerra di secessione americana; il luogo, Gettysburg, nella Contea di Adams, in Pennsylvania, è lo stesso della celebre battaglia che porta il nome della città: la battaglia di Gettysburg si svolse nei giorni dal 1° al 3 luglio 1863 (quattro mesi prima del Discorso di Gettysburg) ed è storicamente considerata una delle battaglie più importanti della guerra di secessione americana; la battaglia si concluse con una vittoria schiacciante delle forze dell’Unione dell’Armata del Potomac, che arrestarono l’offensiva dell’esercito confederato dell’Armata della Virginia Settentrionale, in Pennsylvania.
Il Presidente Lincoln, il 19 novembre 1863, pronunciò il Discorso in occasione della cerimonia di inaugurazione del cimitero militare di Gettysburg, 4 mesi e mezzo dopo la storica battaglia.
Il testo in italiano del Discorso di Gettysburg è il seguente:
Or sono sedici lustri e sette anni che i nostri avi costruirono su questo continente una nuova nazione, concepita nella Libertà e votata al principio che tutti gli uomini sono creati uguali. Adesso noi siamo impegnati in una grande guerra civile, la quale proverà se quella nazione, o ogni altra nazione, così concepita e così votata, possa a lungo perdurare.
Noi ci siamo raccolti su di un gran campo di battaglia di quella guerra. Noi siamo venuti a destinare una parte di quel campo a luogo di ultimo riposo per coloro che qui dettero la loro vita, perché quella nazione potesse vivere. È del tutto giusto e appropriato che noi compiamo quest’atto. Ma, in un senso più ampio, noi non possiamo inaugurare, non possiamo consacrare, non possiamo santificare questo suolo.
I coraggiosi uomini, vivi e morti, che qui combatterono, lo hanno consacrato, ben al di là del nostro piccolo potere di aggiungere o portar via alcunché. Il mondo noterà appena, né a lungo ricorderà ciò che qui diciamo, ma mai potrà dimenticare ciò che essi qui fecero. Sta a noi viventi, piuttosto, il votarci qui al lavoro incompiuto, finora così nobilmente portato avanti da coloro che qui combatterono.
Sta piuttosto a noi il votarci qui al grande compito che ci è dinnanzi: che da questi morti onorati ci venga un’accresciuta devozione a quella causa per la quale essi diedero, della devozione, l’ultima piena misura; che noi qui solennemente si prometta che questi morti non sono morti invano (per nulla); che questa nazione, guidata da Dio, abbia una rinascita di libertà; e che l’idea di un governo del popolo, dal popolo, per il popolo, non abbia a perire dalla terra.
Nota: questo testo in italiano, tradotto dall’originale, è il testo riconosciuto dalla Library of Congress (Biblioteca del Congresso) di Washington.
Nel discorso, Lincoln rivolge i suoi pensieri allo sforzo della nazione nella guerra civile, ma con l’ideale che a Gettysburg nessun soldato, dell’Unione o della Confederazione, del nord o del sud, fosse morto invano.
Riprendendo le parole e i concetti supremi sanciti nella Dichiarazione di Indipendenza, Lincoln sottolinea come gli esseri umani siano uguali. Ricorda come la guerra civile sia stata una lotta non solo per l’Unione, ma soprattutto di come rappresenti “la rinascita della libertà” che avrebbe reso tutti davvero uguali all’interno di un’unica nazione, finalmente unita.
Il discorso inizia con il famoso “Ottantasette anni fa“, riferendosi alla Rivoluzione Americana nel 1776. La cerimonia di Gettysburg è un’occasione per Lincoln per incoraggiare gli uomini ad aiutare la democrazia americana, in modo che il “governo del popolo, dal popolo, per il popolo, non sia distrutto dalla terra“.
Sebbene il Discorso di Gettysburg sia uno dei più importanti della storia degli Stati Uniti e uno dei più celebri discorsi presenti nei libri di storia, non si è comunque certi delle esatte parole pronunciate da Abramo Lincoln il 19 novembre 1863, in quanto esistono ben cinque manoscritti che lo riportano, ed essi si differenziano l’uno dall’altro, anche se solo per pochi dettagli. Di fatto il Discorso di Gettysburg rappresenta un momento fondamentale nel processo di costruzione della futura nazione americana.
Il 19 novembre 1863 il presidente dell'Unione, Abramo Lincoln, pronuncia il famoso discorso di Gettysburg.
Quel giorno era un giovedì, quando nel corso del pomeriggio Abraham Lincoln – 16° Presidente degli Stati Uniti d’America – pronunciò uno dei più celebri e famosi discorsi della storia: il Discorso di Gettysburg.
Il contesto storico è quello della guerra di secessione americana; il luogo, Gettysburg, nella Contea di Adams, in Pennsylvania, è lo stesso della celebre battaglia che porta il nome della città: la battaglia di Gettysburg si svolse nei giorni dal 1° al 3 luglio 1863 (quattro mesi prima del Discorso di Gettysburg) ed è storicamente considerata una delle battaglie più importanti della guerra di secessione americana; la battaglia si concluse con una vittoria schiacciante delle forze dell’Unione dell’Armata del Potomac, che arrestarono l’offensiva dell’esercito confederato dell’Armata della Virginia Settentrionale, in Pennsylvania.
Il Presidente Lincoln, il 19 novembre 1863, pronunciò il Discorso in occasione della cerimonia di inaugurazione del cimitero militare di Gettysburg, 4 mesi e mezzo dopo la storica battaglia.
Il testo in italiano del Discorso di Gettysburg è il seguente:
Or sono sedici lustri e sette anni che i nostri avi costruirono su questo continente una nuova nazione, concepita nella Libertà e votata al principio che tutti gli uomini sono creati uguali. Adesso noi siamo impegnati in una grande guerra civile, la quale proverà se quella nazione, o ogni altra nazione, così concepita e così votata, possa a lungo perdurare.
Noi ci siamo raccolti su di un gran campo di battaglia di quella guerra. Noi siamo venuti a destinare una parte di quel campo a luogo di ultimo riposo per coloro che qui dettero la loro vita, perché quella nazione potesse vivere. È del tutto giusto e appropriato che noi compiamo quest’atto. Ma, in un senso più ampio, noi non possiamo inaugurare, non possiamo consacrare, non possiamo santificare questo suolo.
I coraggiosi uomini, vivi e morti, che qui combatterono, lo hanno consacrato, ben al di là del nostro piccolo potere di aggiungere o portar via alcunché. Il mondo noterà appena, né a lungo ricorderà ciò che qui diciamo, ma mai potrà dimenticare ciò che essi qui fecero. Sta a noi viventi, piuttosto, il votarci qui al lavoro incompiuto, finora così nobilmente portato avanti da coloro che qui combatterono.
Sta piuttosto a noi il votarci qui al grande compito che ci è dinnanzi: che da questi morti onorati ci venga un’accresciuta devozione a quella causa per la quale essi diedero, della devozione, l’ultima piena misura; che noi qui solennemente si prometta che questi morti non sono morti invano (per nulla); che questa nazione, guidata da Dio, abbia una rinascita di libertà; e che l’idea di un governo del popolo, dal popolo, per il popolo, non abbia a perire dalla terra.
Nota: questo testo in italiano, tradotto dall’originale, è il testo riconosciuto dalla Library of Congress (Biblioteca del Congresso) di Washington.
Nel discorso, Lincoln rivolge i suoi pensieri allo sforzo della nazione nella guerra civile, ma con l’ideale che a Gettysburg nessun soldato, dell’Unione o della Confederazione, del nord o del sud, fosse morto invano.
Riprendendo le parole e i concetti supremi sanciti nella Dichiarazione di Indipendenza, Lincoln sottolinea come gli esseri umani siano uguali. Ricorda come la guerra civile sia stata una lotta non solo per l’Unione, ma soprattutto di come rappresenti “la rinascita della libertà” che avrebbe reso tutti davvero uguali all’interno di un’unica nazione, finalmente unita.
Il discorso inizia con il famoso “Ottantasette anni fa“, riferendosi alla Rivoluzione Americana nel 1776. La cerimonia di Gettysburg è un’occasione per Lincoln per incoraggiare gli uomini ad aiutare la democrazia americana, in modo che il “governo del popolo, dal popolo, per il popolo, non sia distrutto dalla terra“.
Sebbene il Discorso di Gettysburg sia uno dei più importanti della storia degli Stati Uniti e uno dei più celebri discorsi presenti nei libri di storia, non si è comunque certi delle esatte parole pronunciate da Abramo Lincoln il 19 novembre 1863, in quanto esistono ben cinque manoscritti che lo riportano, ed essi si differenziano l’uno dall’altro, anche se solo per pochi dettagli. Di fatto il Discorso di Gettysburg rappresenta un momento fondamentale nel processo di costruzione della futura nazione americana.
lunedì 18 novembre 2019
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 18 novembre.
Il 18 novembre è la Giornata europea degli antibiotici, promossa dal Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC) per aumentare la consapevolezza dell’importanza degli antibiotici e del loro uso appropriato tra la popolazione e i professionisti sanitari. La Giornata è celebrata all’interno della Settimana mondiale sull’uso consapevole degli antibiotici (World Antibiotics Awareness week, 12-18 novembre), a sua volta organizzata da Oms, Fao e Organizzazione mondiale della sanità animale (Oie).
I dati raccolti nel 2017 da EARS-Net,(European Antimicrobial Resistance Surveillance Network) la rete di sorveglianza della resistenza agli antibiotici in Europa, coordinata da Ecdc, alla quale partecipa anche l’Italia, mostrano che la resistenza agli antibiotici rimane una seria minaccia per l’Europa e per il nostro Paese.
Ad oggi si stima che siano oltre 33 mila i decessi annui legati a questo problema. Tra le resistenze più critiche, quella ai carbapenemi, soprattutto in Klebsiella pneumoniae, Pseudomonas aeruginosa e Acinetobacter baumannii. Si segnala anche un preoccupante aumento della resistenza ai glicopeptidi in Enterococcus faecium.
Riguardo al consumo di antibiotici, monitorato dalla rete ESAC-Net (European Surveillance of Antimicrobial Consumption Network), questo appare sostanzialmente stabile in Europa, con una lieve diminuzione in alcuni paesi, tra cui l'Italia.
Tra gli interventi messi in campo per contrastare il problema della resistenza agli antibiotici, il ministero della Salute ha varato nel 2017 il Piano nazionale di contrasto all’antimicrobico-resistenza 2017-2020 (Pncar), con lo scopo di affrontare e contrastare il fenomeno in modo efficace, attraverso un approccio “one health”, cioè integrato tra medicina umana, medicina veterinaria, agricoltura e ambiente.
Gli antibiotici sono un bene prezioso che si sta esaurendo nel tempo. Un loro uso scorretto potrebbe portarci indietro negli anni, quando gli antibiotici non esistevano e le malattie infettive potevano anche essere mortali.
Affinché la loro efficacia possa rimanere inalterata in futuro è necessario che tutti contribuiscano ad un uso corretto e responsabile degli antibiotici, anche negli animali e adottino alcuni semplici accorgimenti, come lavarsi le mani, che aiutano a prevenire le infezioni.
Questi gli obiettivi della campagna:
favorire la diffusione di informazioni corrette
aumentare la consapevolezza sui rischi associati all’uso inappropriato degli antibiotici
promuoverne un uso responsabile
Tutti possiamo fare la nostra parte per affrontare questa minaccia per la salute umana: pazienti, medici, infermieri, farmacisti, veterinari, agricoltori, cittadini e politici.
Il 18 novembre è la Giornata europea degli antibiotici, promossa dal Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC) per aumentare la consapevolezza dell’importanza degli antibiotici e del loro uso appropriato tra la popolazione e i professionisti sanitari. La Giornata è celebrata all’interno della Settimana mondiale sull’uso consapevole degli antibiotici (World Antibiotics Awareness week, 12-18 novembre), a sua volta organizzata da Oms, Fao e Organizzazione mondiale della sanità animale (Oie).
I dati raccolti nel 2017 da EARS-Net,(European Antimicrobial Resistance Surveillance Network) la rete di sorveglianza della resistenza agli antibiotici in Europa, coordinata da Ecdc, alla quale partecipa anche l’Italia, mostrano che la resistenza agli antibiotici rimane una seria minaccia per l’Europa e per il nostro Paese.
Ad oggi si stima che siano oltre 33 mila i decessi annui legati a questo problema. Tra le resistenze più critiche, quella ai carbapenemi, soprattutto in Klebsiella pneumoniae, Pseudomonas aeruginosa e Acinetobacter baumannii. Si segnala anche un preoccupante aumento della resistenza ai glicopeptidi in Enterococcus faecium.
Riguardo al consumo di antibiotici, monitorato dalla rete ESAC-Net (European Surveillance of Antimicrobial Consumption Network), questo appare sostanzialmente stabile in Europa, con una lieve diminuzione in alcuni paesi, tra cui l'Italia.
Tra gli interventi messi in campo per contrastare il problema della resistenza agli antibiotici, il ministero della Salute ha varato nel 2017 il Piano nazionale di contrasto all’antimicrobico-resistenza 2017-2020 (Pncar), con lo scopo di affrontare e contrastare il fenomeno in modo efficace, attraverso un approccio “one health”, cioè integrato tra medicina umana, medicina veterinaria, agricoltura e ambiente.
Gli antibiotici sono un bene prezioso che si sta esaurendo nel tempo. Un loro uso scorretto potrebbe portarci indietro negli anni, quando gli antibiotici non esistevano e le malattie infettive potevano anche essere mortali.
Affinché la loro efficacia possa rimanere inalterata in futuro è necessario che tutti contribuiscano ad un uso corretto e responsabile degli antibiotici, anche negli animali e adottino alcuni semplici accorgimenti, come lavarsi le mani, che aiutano a prevenire le infezioni.
Questi gli obiettivi della campagna:
favorire la diffusione di informazioni corrette
aumentare la consapevolezza sui rischi associati all’uso inappropriato degli antibiotici
promuoverne un uso responsabile
Tutti possiamo fare la nostra parte per affrontare questa minaccia per la salute umana: pazienti, medici, infermieri, farmacisti, veterinari, agricoltori, cittadini e politici.
domenica 17 novembre 2019
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 17 novembre.
Il 17 novembre 1989 inizia in Cecoslovacchia la cosiddetta "Velvet revolution".
È impossibile tenere il conto di tutti quegli eventi storici che sono passati sotto il nome di ‘rivoluzione’. Termine traslato dal linguaggio astronomico, con rivoluzione si intende qualsiasi evento il cui accadimento ha irreversibilmente cambiato l’esistenza di un gruppo più o meno ampio di persone: da una popolazione di una regione all’intera umanità. Benché utilizzato per indicare sconvolgimenti perlopiù politici, viene utilizzato anche per fenomeni di tipo tecnologico (la rivoluzione telematica o industriale, con gli effetti sociali a strascico), sociale (la cosiddetta rivoluzione sessuale) o culturale (come fu, in parte, anche quella francese).
La Rivoluzione per eccellenza è proprio quest’ultima e non è un caso: l’intera Europa fu letteralmente sconvolta per un ventennio e influenzata per sempre dagli eventi che ebbero luogo a Parigi dal 1789 in poi. Ma non fu l’unica rivoluzione che ebbe luogo sul continente europeo. Furono molte e, a un certo punto, bisognò trovare altri nomi, anche per meglio caratterizzarli in ambito storiografico. Si pensi alla rivoluzione dei garofani, che ebbe luogo in Portogallo nel 1974, per porre fine alla dittatura di Salazar. Venne chiamato così per il gesto di una fioraia che, in piazza, donò ai militari dei garofani, che vennero posti nella canna del fucile.
Ma oggi è l’anniversario di un’altra rivoluzione: quella di velluto. Avvenuta nell’allora Cecoslovacchia, portò alla definitiva caduta del regime comunista a Praga e Bratislava, a pochissimi giorni dal Crollo del Muro di Berlino. Il suo nome è legato alla band statunitense dei Velvet Underground (velvet significa ‘velluto’ in inglese), molto ascoltata nelle manifestazioni dell’epoca. Nata come una manifestazione studentesca, conobbe un’inaspettata e clamorosa adesione da parte della popolazione: il 20 novembre del 1989, a quattro giorni dall’inizio delle proteste, la folla di Praga passò dall’essere composta da qualche migliaio di persone a mezzo milione di manifestanti. L’Urss, mai così debole, non poté far altro che cercare di guidare il cambiamento. Inutilmente: come indicava il tintinnio di chiavi dei manifestanti in piazza, era ora per i sovietici di ‘tornare a casa’.
Il 24 novembre si dimise l’intera nomenclatura comunista incluso il segretario generale Miloš Jakeš. Il 28 novembre venne emendata la Costituzione nelle parti che dava al Partito Comunista Cecoslovacco il monopolio assoluto del potere. Pochi giorni dopo vennero rimosse le barriere di filo spinato ai confini con Austria e Germania. Il 10 dicembre il presidente della Cecoslovacchia, il comunista Gustáv Husák, nominò il primo governo a maggioranza non comunista dal 1948, e si dimise. Alexander Dubček fu eletto presidente del Parlamento federale il 28 dicembre e Vaclav Havel presidente della Cecoslovacchia il 29 dicembre 1989. Nel giugno 1990 si tennero in Cecoslovacchia le prime elezioni democratiche dal 1946.
Il 17 novembre 1989 inizia in Cecoslovacchia la cosiddetta "Velvet revolution".
È impossibile tenere il conto di tutti quegli eventi storici che sono passati sotto il nome di ‘rivoluzione’. Termine traslato dal linguaggio astronomico, con rivoluzione si intende qualsiasi evento il cui accadimento ha irreversibilmente cambiato l’esistenza di un gruppo più o meno ampio di persone: da una popolazione di una regione all’intera umanità. Benché utilizzato per indicare sconvolgimenti perlopiù politici, viene utilizzato anche per fenomeni di tipo tecnologico (la rivoluzione telematica o industriale, con gli effetti sociali a strascico), sociale (la cosiddetta rivoluzione sessuale) o culturale (come fu, in parte, anche quella francese).
La Rivoluzione per eccellenza è proprio quest’ultima e non è un caso: l’intera Europa fu letteralmente sconvolta per un ventennio e influenzata per sempre dagli eventi che ebbero luogo a Parigi dal 1789 in poi. Ma non fu l’unica rivoluzione che ebbe luogo sul continente europeo. Furono molte e, a un certo punto, bisognò trovare altri nomi, anche per meglio caratterizzarli in ambito storiografico. Si pensi alla rivoluzione dei garofani, che ebbe luogo in Portogallo nel 1974, per porre fine alla dittatura di Salazar. Venne chiamato così per il gesto di una fioraia che, in piazza, donò ai militari dei garofani, che vennero posti nella canna del fucile.
Ma oggi è l’anniversario di un’altra rivoluzione: quella di velluto. Avvenuta nell’allora Cecoslovacchia, portò alla definitiva caduta del regime comunista a Praga e Bratislava, a pochissimi giorni dal Crollo del Muro di Berlino. Il suo nome è legato alla band statunitense dei Velvet Underground (velvet significa ‘velluto’ in inglese), molto ascoltata nelle manifestazioni dell’epoca. Nata come una manifestazione studentesca, conobbe un’inaspettata e clamorosa adesione da parte della popolazione: il 20 novembre del 1989, a quattro giorni dall’inizio delle proteste, la folla di Praga passò dall’essere composta da qualche migliaio di persone a mezzo milione di manifestanti. L’Urss, mai così debole, non poté far altro che cercare di guidare il cambiamento. Inutilmente: come indicava il tintinnio di chiavi dei manifestanti in piazza, era ora per i sovietici di ‘tornare a casa’.
Il 24 novembre si dimise l’intera nomenclatura comunista incluso il segretario generale Miloš Jakeš. Il 28 novembre venne emendata la Costituzione nelle parti che dava al Partito Comunista Cecoslovacco il monopolio assoluto del potere. Pochi giorni dopo vennero rimosse le barriere di filo spinato ai confini con Austria e Germania. Il 10 dicembre il presidente della Cecoslovacchia, il comunista Gustáv Husák, nominò il primo governo a maggioranza non comunista dal 1948, e si dimise. Alexander Dubček fu eletto presidente del Parlamento federale il 28 dicembre e Vaclav Havel presidente della Cecoslovacchia il 29 dicembre 1989. Nel giugno 1990 si tennero in Cecoslovacchia le prime elezioni democratiche dal 1946.
sabato 16 novembre 2019
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 16 novembre.
Il 16 novembre 2001 esce nelle sale Harry Potter e la pietra filosofale, primo film tratto dai romanzi di J. K. Rowling.
La saga di Harry Potter ha segnato una fase essenziale dell’infanzia e dell’adolescenza di molti di noi. Il maghetto protagonista della saga letteraria di J.K. Rowling è stato uno degli eroi moderni della letteratura, con un percorso evolutivo degno dei migliori romanzi di formazione. Sette libri e otto film – un nono è in arrivo, adattato sull’opera teatrale The Cursed Child, con protagonista il figlio minore di Harry e Ginny – hanno accompagnato le fantasie e i momenti più spensierati dei millennials e non solo. Il patrimonio lasciato da Harry Potter infatti è contenuto nei valori che i vari personaggi hanno voluto trasmettere e interpretare, come il sacrificio di Severus Piton, l’amicizia incondizionata di Hermione Granger, la bontà di Hagrid, la fragilità di Draco Malfoy e non ultima la complessa psicologia di Harry, traumatizzata dalla perdita dei genitori e dalla presenza oscura di un essere maligno che alberga nel suo sangue magico. Quasi vent’anni dopo l’uscita de La Pietra Filosofale, vediamo il percorso fatto dagli interpreti giovani principali e i nuovi progetti che li hanno tenuti occupati.
HARRY POTTER – DANIEL RADCLIFFE
Daniel Radcliffe ha continuato la sua carriera nel cinema, ricoprendo ruoli completamente diversi dal “ragazzo che è sopravvissuto”. Lo troviamo in film come Now You See Me 2, Imperium e Un Amico Multiuso. L’attore ha preso parte anche a molti spettacoli teatrali quali Privacy al Public Theater di New York nel 2016 e Rosencrantz e Guildenstern sono morti al Old Vic di Londra nel 2017. Per quanto riguarda la sua vita sentimentale, al momento ha una relazione con l’attrice Erin Darke. Daniel purtroppo evita i social media, come ha rivelato anche a People:
Non ho Twitter e non sono su Facebook, e penso che renda le cose molto più semplici perché se vai su Twitter e dici a tutti cosa stai facendo minuto per minuto, e poi dichiari di volere una vita privata, nessuno ti prenderà sul serio.
HERMIONE GRANGER – EMMA WATSON
Emma Watson è stata impegnata fra i vari ruoli che le venivano offerti e il suo corso di Letteratura Inglese alla Brown University. Dopo essersi laureata nel 2014, è stata testimonial di Burberry e Lancôme e, sempre nello stesso anno, è stata nominata Goodwill Ambassador dall’UN Women. Inoltre è stata protagonista in film come Noi Siamo Infinito, Bling Ring e La Bella e La Bestia, che le hanno fatto portare a casa un paio di awards. Al contrario del collega Daniel Radcliffe, Emma sfrutta il suo account Twitter con ben 28 milioni di followers per parlare di due grandi campagne: HeForShe e Time’s Up.
RON WEASLEY – RUPERT GRINT
Dopo Harry Potter, Rupert Grint ha quasi mollato la carriera da attore dichiarando:
Quando abbiamo finito di girare mi sono sentito perso, perché è stata una gran parte della mia vita
Ma è stato solo un momento di debolezza per l’attore, visto che si è ripreso alla grande nel ruolo di Charlie Cavendish-Scott nella serie Snatch del 2017, dove sono presenti anche Ed Westwick e Luke Pasqualino. Quest’anno è già uscita la seconda stagione, dato che la serie ha avuto successo sia in Inghilterra che negli Stati Uniti, essendo di produzione britannica-statunitense.
DRACO MALFOY – TOM FELTON
Tom Felton ha recitato in parecchi film e nel 2015 ha girato il documentario Tom Felton: Meet the Superfans. Ma la sua notorietà è aumentata ancor di più quando nel 2016 è entrato a far parte del cast di The Flash nel ruolo del Dottor Alchemy. Tom non è fidanzato o sposato, specialmente da quando ha interrotto la relazione con la sua fidanzata storica Jade Olivia Gordon.
GINNY WEASLEY – BONNIE WRIGHT
Bonnie Wright è molto concentrata sulla sua carriera di sceneggiatrice e direttrice. Dopo essersi laureata in Discipline Artistiche ha scritto e diretto un paio di film, in particolare Separate We Come, Separate We Go con protagonista David Thewlis, che è stato il professor Lupin in Harry Potter. Bonnie è stata fidanzata con l’ex collega Jamie Campbell Bower quando aveva 19 anni, ma dopo essersi lasciati ha mantenuto privata la sua vita sentimentale.
DEAN THOMAS – ALFRED ENOCH
Alfred Enoch è diventato il famoso Wes Gibbins, il protagonista dell’acclamata serie americana Le regole del delitto perfetto. Alfred ha recitato al fianco della fantastica Viola Davis e anche se adesso non fa più parte del cast, rimane uno dei personaggi più amati. Pare che l’attore avesse una relazione con la co-star Aja Naomi King, ma le voci sono state smentite. La carriera di Alfred è decisamente una delle più promettenti e lo vedremo sicuramente in altri ruoli.
CEDRIC DIGGORY – ROBERT PATTINSON
Robert Pattinson è passato da una saga all’altra: come ben sappiamo è stato protagonista in Twilight. Ha preso parte anche ad altri film di successo quali Remember Me, Bel Ami, Come L’acqua per gli Elefanti e Civiltà Perduta. Inoltre è stato testimonial per il famoso marchio Dior. Robert ha avuto una relazione con la cantante britannica FKA Twigs per diversi anni, ma ora è single.
Il 16 novembre 2001 esce nelle sale Harry Potter e la pietra filosofale, primo film tratto dai romanzi di J. K. Rowling.
La saga di Harry Potter ha segnato una fase essenziale dell’infanzia e dell’adolescenza di molti di noi. Il maghetto protagonista della saga letteraria di J.K. Rowling è stato uno degli eroi moderni della letteratura, con un percorso evolutivo degno dei migliori romanzi di formazione. Sette libri e otto film – un nono è in arrivo, adattato sull’opera teatrale The Cursed Child, con protagonista il figlio minore di Harry e Ginny – hanno accompagnato le fantasie e i momenti più spensierati dei millennials e non solo. Il patrimonio lasciato da Harry Potter infatti è contenuto nei valori che i vari personaggi hanno voluto trasmettere e interpretare, come il sacrificio di Severus Piton, l’amicizia incondizionata di Hermione Granger, la bontà di Hagrid, la fragilità di Draco Malfoy e non ultima la complessa psicologia di Harry, traumatizzata dalla perdita dei genitori e dalla presenza oscura di un essere maligno che alberga nel suo sangue magico. Quasi vent’anni dopo l’uscita de La Pietra Filosofale, vediamo il percorso fatto dagli interpreti giovani principali e i nuovi progetti che li hanno tenuti occupati.
HARRY POTTER – DANIEL RADCLIFFE
Daniel Radcliffe ha continuato la sua carriera nel cinema, ricoprendo ruoli completamente diversi dal “ragazzo che è sopravvissuto”. Lo troviamo in film come Now You See Me 2, Imperium e Un Amico Multiuso. L’attore ha preso parte anche a molti spettacoli teatrali quali Privacy al Public Theater di New York nel 2016 e Rosencrantz e Guildenstern sono morti al Old Vic di Londra nel 2017. Per quanto riguarda la sua vita sentimentale, al momento ha una relazione con l’attrice Erin Darke. Daniel purtroppo evita i social media, come ha rivelato anche a People:
Non ho Twitter e non sono su Facebook, e penso che renda le cose molto più semplici perché se vai su Twitter e dici a tutti cosa stai facendo minuto per minuto, e poi dichiari di volere una vita privata, nessuno ti prenderà sul serio.
HERMIONE GRANGER – EMMA WATSON
Emma Watson è stata impegnata fra i vari ruoli che le venivano offerti e il suo corso di Letteratura Inglese alla Brown University. Dopo essersi laureata nel 2014, è stata testimonial di Burberry e Lancôme e, sempre nello stesso anno, è stata nominata Goodwill Ambassador dall’UN Women. Inoltre è stata protagonista in film come Noi Siamo Infinito, Bling Ring e La Bella e La Bestia, che le hanno fatto portare a casa un paio di awards. Al contrario del collega Daniel Radcliffe, Emma sfrutta il suo account Twitter con ben 28 milioni di followers per parlare di due grandi campagne: HeForShe e Time’s Up.
RON WEASLEY – RUPERT GRINT
Dopo Harry Potter, Rupert Grint ha quasi mollato la carriera da attore dichiarando:
Quando abbiamo finito di girare mi sono sentito perso, perché è stata una gran parte della mia vita
Ma è stato solo un momento di debolezza per l’attore, visto che si è ripreso alla grande nel ruolo di Charlie Cavendish-Scott nella serie Snatch del 2017, dove sono presenti anche Ed Westwick e Luke Pasqualino. Quest’anno è già uscita la seconda stagione, dato che la serie ha avuto successo sia in Inghilterra che negli Stati Uniti, essendo di produzione britannica-statunitense.
DRACO MALFOY – TOM FELTON
Tom Felton ha recitato in parecchi film e nel 2015 ha girato il documentario Tom Felton: Meet the Superfans. Ma la sua notorietà è aumentata ancor di più quando nel 2016 è entrato a far parte del cast di The Flash nel ruolo del Dottor Alchemy. Tom non è fidanzato o sposato, specialmente da quando ha interrotto la relazione con la sua fidanzata storica Jade Olivia Gordon.
GINNY WEASLEY – BONNIE WRIGHT
Bonnie Wright è molto concentrata sulla sua carriera di sceneggiatrice e direttrice. Dopo essersi laureata in Discipline Artistiche ha scritto e diretto un paio di film, in particolare Separate We Come, Separate We Go con protagonista David Thewlis, che è stato il professor Lupin in Harry Potter. Bonnie è stata fidanzata con l’ex collega Jamie Campbell Bower quando aveva 19 anni, ma dopo essersi lasciati ha mantenuto privata la sua vita sentimentale.
DEAN THOMAS – ALFRED ENOCH
Alfred Enoch è diventato il famoso Wes Gibbins, il protagonista dell’acclamata serie americana Le regole del delitto perfetto. Alfred ha recitato al fianco della fantastica Viola Davis e anche se adesso non fa più parte del cast, rimane uno dei personaggi più amati. Pare che l’attore avesse una relazione con la co-star Aja Naomi King, ma le voci sono state smentite. La carriera di Alfred è decisamente una delle più promettenti e lo vedremo sicuramente in altri ruoli.
CEDRIC DIGGORY – ROBERT PATTINSON
Robert Pattinson è passato da una saga all’altra: come ben sappiamo è stato protagonista in Twilight. Ha preso parte anche ad altri film di successo quali Remember Me, Bel Ami, Come L’acqua per gli Elefanti e Civiltà Perduta. Inoltre è stato testimonial per il famoso marchio Dior. Robert ha avuto una relazione con la cantante britannica FKA Twigs per diversi anni, ma ora è single.
venerdì 15 novembre 2019
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 15 novembre.
Il 15 novembre 1943, come rappresaglia per l'uccisione del commissario fascista Igino Ghisellini, vengono fucilati 11 antifascisci, nel cosiddetto eccidio del castello estense.
La mattina del 14 novembre 1943 Igino Ghisellini, reggente della federazione del fascio di Ferrara, atteso in città dai suoi collaboratori per recarsi a Verona al primo congresso del partito fascista repubblicano, non si presentò all'appuntamento. I fascisti si recarono immediatamente a Casumaro, dalla moglie del federale, e a Cento, dal fratello, dove appresero che egli la sera precedente non si era visto, ma questo non aveva destato nessuna apprensione dal momento che entrambi non lo attendevano.
I giovani appartenenti al P.F.R, che in quei primi tre mesi di tentativo di restaurazione fascista avevano collaborato con Ghisellini, tra i quali Carlo Govoni, convinto assertore, in seguito, della tesi, che lo condusse a morire a Dachau, secondo la quale il reggente estense era stato ucciso da fascisti corrotti che il federale aveva deciso di denunciare a Verona e Carlo Tortonesi, futuro capo della polizia speciale dei Tupin che portò il terrore a Ferrara e nella provincia nei mesi successivi, si recarono dal capo della provincia Berti per informarlo della scomparsa.
La salma di Ghisellini venne ritrovata verso le dieci del mattino del 14 novembre, riversa in un fossato a poca distanza da Castel D'Argile, in provincia di Bologna, ma a breve distanza dal territorio ferrarese. Dai documenti raccolti in quasi quindici anni di ricerche presso l'Archivio Centrale dello Stato e l'Archivio di stato della città estense fu immediatamente evidente che quello del federale di Ferrara si presentava agli occhi degli studiosi come un vero e proprio giallo.
Il cadavere venne ritrovato supino, con la testa poggiata sulla spalla sinistra; era senza scarpe (infatti gli erano stati rubati sia gli stivali sia la rivoltella) e risultava essere stato colpito da cinque colpi di arma da fuoco, di cui quattro alla regione temporale destra ed uno ala mandibolare sinistra. Il corpo venne immediatamente esaminato dal dottor Rubini, medico condotto del luogo, il quale constatò il già elevato grado di rigidità cadaverica, che faceva risalire quasi con certezza la morte a diverse ore prima del ritrovamento. Il referto medico conferiva spessore e credibilità alla deposizione resa al Vice Brigadiere Francesco la Porta, comandante della stazione dei Carabinieri del paese, da Alfredo Corticelli, abitante nella zona del rinvenimento del cadavere il quale, dopo averne denunciato la presenza nel fossato, raccontò all'inquirente che la sera precedente, verso le 22 e 30, mentre rincasava, aveva notato un'automobile FIAT 1100 targata 7260 FE, che la mattina seguente era stata ritrovata a pochi metri dal corpo.
A condizionare il dibattito sulla morte di Ghisellini, che per decenni si sarebbe sviluppato tra storici, ricercatori e pubblicisti, il reperimento, sulla strada che da Cento conduce a Ferrara, a cinquecento metri dal chilometro 30, sul lato sinistro, di frammenti di vetro che, in seguito, gli inquirenti avrebbero appurato appartenere alla macchina del federale, accanto ai quali era presente una grossa macchia di sangue coagulato. Fatto questo che aveva fatto dedurre che, con tutta probabilità, Ghisellini, si fosse fermato per far salire qualcuno, presumibilmente un uomo in divisa, che li, poi, lo aveva freddato. Non appena a Ferrara giunse la notizia del rinvenimento del cadavere il clima all'interno della federazione del P.F.R. si fece incandescente. Ciro Randi e Alessandro Benea, furono incaricati di partire per Verona per informare il segretario del partito Alessandro Pavolini, già messo a conoscenza della scomparsa del federale, della morte di Ghisellini.
Pavolini comunicò la notizia all'assemblea che l'accolse con un prevedibile scoppio di grida e di incitazioni alla vendetta contro gli antifascisti, già individuati come gli autori dell'omicidio del federale estense.
Egli ordinò che i lavori continuassero, mentre le squadre d'azione di Padova e di Verona e con loro Enrico Vezzalini, futuro capo della provincia estense, avrebbero dovuto recarsi nella città estense per attuare una rappresaglia esemplare. In quella giornata e sino ad alta notte, giunsero a Ferrara alcune delle personalità che, insieme a Vezzalini, che era stato uno dei giudici al processo di Verona dove si era decisa la condanna a morte di Ciano e degli altri gerarchi che avevano tradito Mussolini, meglio seppero interpretare l'anima violenta e vendicatrice della R.S.I. nel tragico biennio 1943-1945: il console Giovan Battista Riggio e il bolognese Franz Pagliani. Per tutta la giornata gli uomini arrivati dall'esterno si consultarono con i fascisti ferraresi per mettere in atto una rappresaglia, secondo le direttive del potere centrale, cosi cruenta da diventare esemplare e da non poter essere dimenticata. Riggio, Pagliani e Vezzalini si scontrarono con forza con il prefetto Berti, in seguito sostituito a Ferrara dallo stesso Vezzalini, che tentava di limitare la portare della strage che si stava organizzando. Secondo numerose testimonianze fu proprio Vezzalini, dopo tante discussioni, ad elaborare l'elenco degli uomini da uccidere, basandosi anche, si diceva, sulle carte che Ghisellini avrebbe dovuto portare con sé a Verona per denunciare i fascisti corrotti.
Sei degli undici civili che la mattina del 15 novembre 1943 vennero tragicamente trucidati di fronte al muretto del castello estense e sulle mura cittadine, Emilio Arlotti, Mario e Vittore Hanau, Arturo Torboli, Gerolamo Savonuzzi e Mario Zanatta vennero prelevati direttamente dalle proprie abitazioni, mentre l'operaio Cinzio Belletti, colpito a morte in via Previati, probabilmente, pagò con la vita la sfortuna di aver assistito casualmente a quanto in quella terribile notte stava accadendo. Gli altri, vennero prelevati dalle carceri, dove erano stati ristretti tra il sette e l'otto ottobre precedente, in seguito all'arresto, richiesto dai fascisti locali appena ritornati al potere. Il direttore del carcere dottor Gusmano, in assenza di un ordine scritto, cercò in tutti i modi di opporsi e per questo venne condotto presso la federazione del P.F.R. dove, dopo essere stato più volte minacciato di morte, lo convinsero alla consegna di Giulio Piazzi, Ugo Teglio, Pasquale Colagrande ed Alberto Vita Finzi.
Si trattò di una strage che colpi profondamente l'animo dei cittadini ferraresi, al punto tale che due dei maggiori artisti contemporanei della città estense, lo scrittore Giorgio Bassani e il regista Florestano Vancini, vollero fermare per sempre quei drammatici frangenti in due opere che restarono tra le più importanti di tutta la loro produzione. Non è difficile comprendere lo sgomento causato negli abitanti di Ferrara dalla vista dei corpi ammassati di fronte al muretto del Castello, lasciati esposti alle offese ed alla malvagità e volgarità delle camicie nere e rimossi solo dopo il pietoso intervento dell'Arcivescovo di Ferrara Monsignor Ruggero Bovelli. Come ricorda uno dei maggiori storici italiani, Claudio Pavone, si trattò del primo eccidio di civili compiuto in Italia dai fascisti e proprio a quell'episodio può essere ricondotto l'inizio della guerra che oppose i fascisti, alleati ai tedeschi, agli italiani che lottavano per la libertà. Per questo motivo, nei decenni successivi il dopoguerra ed ancora oggi, l'attribuzione dell'omicidio di Ghisellini ai fascisti o ai partigiani che si andavano organizzando ha rivestito e riveste un'importanza tanto rilevante.
Alla luce delle ricerche appare impossibile stabilire con certezza chi abbia ucciso il reggente della federazione estense, anche se gli archivi continuano a fornire materiale che rispetto al passato, sembra avvalorare con sempre maggiore forza la presenza, all'interno del P.F.R. estense, sin dai primi mesi della sua fondazione, di scontri pesantissimi che culminarono proprio nell'uccisione dello scomodo gerarca. Sin dai primi anni '90 è noto agli storici, e suffragato da ampia documentazione, il fatto che Ghisellini, con i giovani che lo avevano attorniato nei tre mesi della sua presenza a Ferrara, avevano individuato i numerosi fascisti che, durante il periodo badogliano, avevano lavorato per prepararsi a quando, dopo la fine della guerra, il fascismo sarebbe stato superato. Tra i nomi, e i documenti e gli studi lo provano ampliamente, erano presenti esponenti di spicco delle gerarchie fasciste ferraresi pre 25 luglio: Giulio Divisi, Olao Giaggioli e persino il prefetto Giovanni Dolfin, rimasto in carica durante i '45 giorni" ad occuparsi delle epurazioni dei suoi stessi ex compagni di partito e, quindi, nuovamente approvato al fascismo e alla R.S.I. e in settembre trasferito a Salò quale segretario particolare di Mussolini.
Che all'interno della federazione estense numerosi fossero quelli convinti che Ghisellini era stato ucciso a causa di una faida interna é testimoniato da molteplici documenti nei quali si trova notizia delle denunce che costrinsero le autorità di polizia, ma anche la dirigenza del P.F.R., a mettere in piedi indagini per raccogliere testimonianze sul clima e sui fatti di quei giorni. I dubbi, negli anni, furono avvalorati, inoltre, dal ritrovamento presso l'Archivio Centrale dello Stato di un telegramma in data 24 gennaio 1944 con il quale Benito Mussolini, in tono perentorio, sollecitava Vezzalini a portare avanti le indagini, rilevando che, dopo diverse settimane, non si era ancora ottenuto nessun risultato. Era evidente che lo stesso capo del governo, con grande probabilità sollecitato dalla famiglia del gerarca, che vedeva quanto stava accadendo a Ferrara, dubitasse con forza di quanto si stava facendo in loco per arrivare a determinare gli esecutori e i mandanti dell'assassinio.
La documentazione raccolta nell'ultimo decennio fornisce più di una possibile spiegazione del motivo per cui non si giunse mai ad individuare con certezza i mandanti e gli esecutori dell'omicidio del federale. Lo storico, infatti, non può non restare colpito dai documenti che evidenziano come da una parte la rappresaglia fascista colpi con forza l'ambiente antifascista borghese cittadino, mentre le indagini sia delle autorità di Polizia sia dello stesso P.F.R. andarono tutte nella direzione di cercare gli autori all'interno dello stesso fascismo, cosa che, è evidente, non poteva essere certo pubblicizzata. Un dato di fatto è che la moglie di Ghisellini, Alfonsina Trentini, affermò immediatamente e con risolutezza che a causa del clima politico e dei precedenti avvertimenti era impossibile che il marito avesse accolto in auto uno sconosciuto. Allo stesso modo il milite Edgardo Baresi, che aveva il compito di accompagnare il federale che in quei giorni aveva la macchina in riparazione, raccontò agli inquirenti che Ghisellini era un uomo chiuso e riservato, ma che in quei tragitti, proprio a causa della difficile e confusa situazione che stava vivendo il fascismo, gli aveva dispensato consigli e raccomandazioni circa il modo nel quale avrebbe dovuto comportarsi, evidenziando che si doveva essere molto attenti perché si era circondati da nemici potenti.
Era stato ancora il federale a specificare che era assolutamente necessario vigilare perché, soprattutto di notte, nessuno si avvicinasse alla federazione, diffidando di chiunque indossasse una divisa sia italiana sia tedesca, visto che dopo l'8 settembre era molto più semplice procurarsele. Il federale, che aveva consigliato a Baiesi di cambiare tragitto ogni volta che lo accompagnava, quindi, era ben conscio della situazione che stava vivendo e appare certo che mai quella notte si sarebbe fermato all'alt di un militare. I documenti più recenti, inoltre, ci hanno permesso di ricostruire perché, proprio quella sera, Ghisellini fosse solo.
Secondo la testimonianza del milite Baiesi, infatti, quella sera, poco prima dell'ora di cena, egli era stato invitato in federazione dove aveva trovato lo stesso reggente, Benea e Borellini e proprio quest'ultimo gli aveva consegnato due biglietti da recapitare urgentemente a Calura e a Ghilardoni, rispettivamente a Cassana e a San Bartolomeo. Questi particolari rendono assolutamente impossibile credere alle versioni che volevano che il federale fosse stato ucciso dai partigiani in divisa fascista, dopo essere stato fermato mentre percorreva la strada verso Cento, dove, per altro, è stato stabilito non era atteso. Data la situazione descritta e la ormai accertata circospezione della vittima, ben più complessa ed articolata avrebbe dovuto essere, per avere successo, un'azione condotta dai partigiani. Anche volendo tralasciare il non ancora elevato, sia a Ferrara sia a Bologna, livello di organizzazione dei partigiani, risulta difficile giustificare il fatto che gli antifascisti fossero a conoscenza che proprio quella sera il reggente si sarebbe mosso da solo, se non ipotizzando il non certo impossibile contatto tra questi ultimi e qualcuno che, all'interno del fascismo, avesse interesse all'eliminazione di Ghisellini.
Che gli stessi fascisti dubitassero dell'accaduto, oltre che dalla tragica vicenda di Carlo Govoni, il giovane che fu mandato a morire a Dachau perché non si stancò mai di denunciare i fascisti che secondo lui erano responsabili dell'omicidio di Ghisellini, appare evidente anche dalle indagini interne al partito che fecero emergere grossi dubbi proprio sulla figura di Cesare Borellini, l'uomo che aveva dato a Baiesi i biglietti da consegnare a Calura e Ghilardoni e a causa dei quali il federale era rimasto senza scorta. Borellini la sera del delitto era stato accompagnato a casa da Alessandro Benea, perché aveva detto di essere febbricitante: in realtà, proprio in quei frangenti, secondo alcune deposizioni di compagni di partito, la moglie lo aveva cercato in federazione. Dove fosse non si seppe anche se, alcuni testimoni concordavano nel dire che, il giorno successivo, sul suo volto erano evidenti i segni di un graffio. Di grande interesse, a proposito, il fatto che Borellini, Ghilardoni e Calura, dopo i tragici fatti del novembre 1943, scomparirono dalla scena politica della R.S.I..
Ancora oggi non è possibile stabilire con certezza chi abbia ucciso Ghisellini, ma la mole crescente di documenti permettono ormai di descrivere con grande precisione la situazione esistente all'interno del fascismo repubblicano nei primi mesi della R.S.I. dove gli scontri e le contrapposizioni erano all'ordine del giorno.
Quello che è evidente è che si trattò di un episodio fondamentale per comprendere le linee strategiche e politiche della R.S.I. su tutto il territorio che ne fu interessato. Infatti, dopo la terribile strage di civili, venne coniato il motto 'Ferrarizzare l'Italia" che dimostrava come i fascisti tornati al potere non si facessero certo scrupolo, pur senza avere nessuna sicurezza sugli esecutori dell'omicidio ed anzi ben sapendo che esisteva la possibilità di pesanti coinvolgimenti di esponenti del P.F.R., ad addossare all'antifascismo le responsabilità dell'accaduto, uccidendo, al solo scopo di creare terrore e asservimento, persone che avevano quale unico torto quello di essere contrari al fascismo ed alla dittatura.
Il 15 novembre 1943, come rappresaglia per l'uccisione del commissario fascista Igino Ghisellini, vengono fucilati 11 antifascisci, nel cosiddetto eccidio del castello estense.
La mattina del 14 novembre 1943 Igino Ghisellini, reggente della federazione del fascio di Ferrara, atteso in città dai suoi collaboratori per recarsi a Verona al primo congresso del partito fascista repubblicano, non si presentò all'appuntamento. I fascisti si recarono immediatamente a Casumaro, dalla moglie del federale, e a Cento, dal fratello, dove appresero che egli la sera precedente non si era visto, ma questo non aveva destato nessuna apprensione dal momento che entrambi non lo attendevano.
I giovani appartenenti al P.F.R, che in quei primi tre mesi di tentativo di restaurazione fascista avevano collaborato con Ghisellini, tra i quali Carlo Govoni, convinto assertore, in seguito, della tesi, che lo condusse a morire a Dachau, secondo la quale il reggente estense era stato ucciso da fascisti corrotti che il federale aveva deciso di denunciare a Verona e Carlo Tortonesi, futuro capo della polizia speciale dei Tupin che portò il terrore a Ferrara e nella provincia nei mesi successivi, si recarono dal capo della provincia Berti per informarlo della scomparsa.
La salma di Ghisellini venne ritrovata verso le dieci del mattino del 14 novembre, riversa in un fossato a poca distanza da Castel D'Argile, in provincia di Bologna, ma a breve distanza dal territorio ferrarese. Dai documenti raccolti in quasi quindici anni di ricerche presso l'Archivio Centrale dello Stato e l'Archivio di stato della città estense fu immediatamente evidente che quello del federale di Ferrara si presentava agli occhi degli studiosi come un vero e proprio giallo.
Il cadavere venne ritrovato supino, con la testa poggiata sulla spalla sinistra; era senza scarpe (infatti gli erano stati rubati sia gli stivali sia la rivoltella) e risultava essere stato colpito da cinque colpi di arma da fuoco, di cui quattro alla regione temporale destra ed uno ala mandibolare sinistra. Il corpo venne immediatamente esaminato dal dottor Rubini, medico condotto del luogo, il quale constatò il già elevato grado di rigidità cadaverica, che faceva risalire quasi con certezza la morte a diverse ore prima del ritrovamento. Il referto medico conferiva spessore e credibilità alla deposizione resa al Vice Brigadiere Francesco la Porta, comandante della stazione dei Carabinieri del paese, da Alfredo Corticelli, abitante nella zona del rinvenimento del cadavere il quale, dopo averne denunciato la presenza nel fossato, raccontò all'inquirente che la sera precedente, verso le 22 e 30, mentre rincasava, aveva notato un'automobile FIAT 1100 targata 7260 FE, che la mattina seguente era stata ritrovata a pochi metri dal corpo.
A condizionare il dibattito sulla morte di Ghisellini, che per decenni si sarebbe sviluppato tra storici, ricercatori e pubblicisti, il reperimento, sulla strada che da Cento conduce a Ferrara, a cinquecento metri dal chilometro 30, sul lato sinistro, di frammenti di vetro che, in seguito, gli inquirenti avrebbero appurato appartenere alla macchina del federale, accanto ai quali era presente una grossa macchia di sangue coagulato. Fatto questo che aveva fatto dedurre che, con tutta probabilità, Ghisellini, si fosse fermato per far salire qualcuno, presumibilmente un uomo in divisa, che li, poi, lo aveva freddato. Non appena a Ferrara giunse la notizia del rinvenimento del cadavere il clima all'interno della federazione del P.F.R. si fece incandescente. Ciro Randi e Alessandro Benea, furono incaricati di partire per Verona per informare il segretario del partito Alessandro Pavolini, già messo a conoscenza della scomparsa del federale, della morte di Ghisellini.
Pavolini comunicò la notizia all'assemblea che l'accolse con un prevedibile scoppio di grida e di incitazioni alla vendetta contro gli antifascisti, già individuati come gli autori dell'omicidio del federale estense.
Egli ordinò che i lavori continuassero, mentre le squadre d'azione di Padova e di Verona e con loro Enrico Vezzalini, futuro capo della provincia estense, avrebbero dovuto recarsi nella città estense per attuare una rappresaglia esemplare. In quella giornata e sino ad alta notte, giunsero a Ferrara alcune delle personalità che, insieme a Vezzalini, che era stato uno dei giudici al processo di Verona dove si era decisa la condanna a morte di Ciano e degli altri gerarchi che avevano tradito Mussolini, meglio seppero interpretare l'anima violenta e vendicatrice della R.S.I. nel tragico biennio 1943-1945: il console Giovan Battista Riggio e il bolognese Franz Pagliani. Per tutta la giornata gli uomini arrivati dall'esterno si consultarono con i fascisti ferraresi per mettere in atto una rappresaglia, secondo le direttive del potere centrale, cosi cruenta da diventare esemplare e da non poter essere dimenticata. Riggio, Pagliani e Vezzalini si scontrarono con forza con il prefetto Berti, in seguito sostituito a Ferrara dallo stesso Vezzalini, che tentava di limitare la portare della strage che si stava organizzando. Secondo numerose testimonianze fu proprio Vezzalini, dopo tante discussioni, ad elaborare l'elenco degli uomini da uccidere, basandosi anche, si diceva, sulle carte che Ghisellini avrebbe dovuto portare con sé a Verona per denunciare i fascisti corrotti.
Sei degli undici civili che la mattina del 15 novembre 1943 vennero tragicamente trucidati di fronte al muretto del castello estense e sulle mura cittadine, Emilio Arlotti, Mario e Vittore Hanau, Arturo Torboli, Gerolamo Savonuzzi e Mario Zanatta vennero prelevati direttamente dalle proprie abitazioni, mentre l'operaio Cinzio Belletti, colpito a morte in via Previati, probabilmente, pagò con la vita la sfortuna di aver assistito casualmente a quanto in quella terribile notte stava accadendo. Gli altri, vennero prelevati dalle carceri, dove erano stati ristretti tra il sette e l'otto ottobre precedente, in seguito all'arresto, richiesto dai fascisti locali appena ritornati al potere. Il direttore del carcere dottor Gusmano, in assenza di un ordine scritto, cercò in tutti i modi di opporsi e per questo venne condotto presso la federazione del P.F.R. dove, dopo essere stato più volte minacciato di morte, lo convinsero alla consegna di Giulio Piazzi, Ugo Teglio, Pasquale Colagrande ed Alberto Vita Finzi.
Si trattò di una strage che colpi profondamente l'animo dei cittadini ferraresi, al punto tale che due dei maggiori artisti contemporanei della città estense, lo scrittore Giorgio Bassani e il regista Florestano Vancini, vollero fermare per sempre quei drammatici frangenti in due opere che restarono tra le più importanti di tutta la loro produzione. Non è difficile comprendere lo sgomento causato negli abitanti di Ferrara dalla vista dei corpi ammassati di fronte al muretto del Castello, lasciati esposti alle offese ed alla malvagità e volgarità delle camicie nere e rimossi solo dopo il pietoso intervento dell'Arcivescovo di Ferrara Monsignor Ruggero Bovelli. Come ricorda uno dei maggiori storici italiani, Claudio Pavone, si trattò del primo eccidio di civili compiuto in Italia dai fascisti e proprio a quell'episodio può essere ricondotto l'inizio della guerra che oppose i fascisti, alleati ai tedeschi, agli italiani che lottavano per la libertà. Per questo motivo, nei decenni successivi il dopoguerra ed ancora oggi, l'attribuzione dell'omicidio di Ghisellini ai fascisti o ai partigiani che si andavano organizzando ha rivestito e riveste un'importanza tanto rilevante.
Alla luce delle ricerche appare impossibile stabilire con certezza chi abbia ucciso il reggente della federazione estense, anche se gli archivi continuano a fornire materiale che rispetto al passato, sembra avvalorare con sempre maggiore forza la presenza, all'interno del P.F.R. estense, sin dai primi mesi della sua fondazione, di scontri pesantissimi che culminarono proprio nell'uccisione dello scomodo gerarca. Sin dai primi anni '90 è noto agli storici, e suffragato da ampia documentazione, il fatto che Ghisellini, con i giovani che lo avevano attorniato nei tre mesi della sua presenza a Ferrara, avevano individuato i numerosi fascisti che, durante il periodo badogliano, avevano lavorato per prepararsi a quando, dopo la fine della guerra, il fascismo sarebbe stato superato. Tra i nomi, e i documenti e gli studi lo provano ampliamente, erano presenti esponenti di spicco delle gerarchie fasciste ferraresi pre 25 luglio: Giulio Divisi, Olao Giaggioli e persino il prefetto Giovanni Dolfin, rimasto in carica durante i '45 giorni" ad occuparsi delle epurazioni dei suoi stessi ex compagni di partito e, quindi, nuovamente approvato al fascismo e alla R.S.I. e in settembre trasferito a Salò quale segretario particolare di Mussolini.
Che all'interno della federazione estense numerosi fossero quelli convinti che Ghisellini era stato ucciso a causa di una faida interna é testimoniato da molteplici documenti nei quali si trova notizia delle denunce che costrinsero le autorità di polizia, ma anche la dirigenza del P.F.R., a mettere in piedi indagini per raccogliere testimonianze sul clima e sui fatti di quei giorni. I dubbi, negli anni, furono avvalorati, inoltre, dal ritrovamento presso l'Archivio Centrale dello Stato di un telegramma in data 24 gennaio 1944 con il quale Benito Mussolini, in tono perentorio, sollecitava Vezzalini a portare avanti le indagini, rilevando che, dopo diverse settimane, non si era ancora ottenuto nessun risultato. Era evidente che lo stesso capo del governo, con grande probabilità sollecitato dalla famiglia del gerarca, che vedeva quanto stava accadendo a Ferrara, dubitasse con forza di quanto si stava facendo in loco per arrivare a determinare gli esecutori e i mandanti dell'assassinio.
La documentazione raccolta nell'ultimo decennio fornisce più di una possibile spiegazione del motivo per cui non si giunse mai ad individuare con certezza i mandanti e gli esecutori dell'omicidio del federale. Lo storico, infatti, non può non restare colpito dai documenti che evidenziano come da una parte la rappresaglia fascista colpi con forza l'ambiente antifascista borghese cittadino, mentre le indagini sia delle autorità di Polizia sia dello stesso P.F.R. andarono tutte nella direzione di cercare gli autori all'interno dello stesso fascismo, cosa che, è evidente, non poteva essere certo pubblicizzata. Un dato di fatto è che la moglie di Ghisellini, Alfonsina Trentini, affermò immediatamente e con risolutezza che a causa del clima politico e dei precedenti avvertimenti era impossibile che il marito avesse accolto in auto uno sconosciuto. Allo stesso modo il milite Edgardo Baresi, che aveva il compito di accompagnare il federale che in quei giorni aveva la macchina in riparazione, raccontò agli inquirenti che Ghisellini era un uomo chiuso e riservato, ma che in quei tragitti, proprio a causa della difficile e confusa situazione che stava vivendo il fascismo, gli aveva dispensato consigli e raccomandazioni circa il modo nel quale avrebbe dovuto comportarsi, evidenziando che si doveva essere molto attenti perché si era circondati da nemici potenti.
Era stato ancora il federale a specificare che era assolutamente necessario vigilare perché, soprattutto di notte, nessuno si avvicinasse alla federazione, diffidando di chiunque indossasse una divisa sia italiana sia tedesca, visto che dopo l'8 settembre era molto più semplice procurarsele. Il federale, che aveva consigliato a Baiesi di cambiare tragitto ogni volta che lo accompagnava, quindi, era ben conscio della situazione che stava vivendo e appare certo che mai quella notte si sarebbe fermato all'alt di un militare. I documenti più recenti, inoltre, ci hanno permesso di ricostruire perché, proprio quella sera, Ghisellini fosse solo.
Secondo la testimonianza del milite Baiesi, infatti, quella sera, poco prima dell'ora di cena, egli era stato invitato in federazione dove aveva trovato lo stesso reggente, Benea e Borellini e proprio quest'ultimo gli aveva consegnato due biglietti da recapitare urgentemente a Calura e a Ghilardoni, rispettivamente a Cassana e a San Bartolomeo. Questi particolari rendono assolutamente impossibile credere alle versioni che volevano che il federale fosse stato ucciso dai partigiani in divisa fascista, dopo essere stato fermato mentre percorreva la strada verso Cento, dove, per altro, è stato stabilito non era atteso. Data la situazione descritta e la ormai accertata circospezione della vittima, ben più complessa ed articolata avrebbe dovuto essere, per avere successo, un'azione condotta dai partigiani. Anche volendo tralasciare il non ancora elevato, sia a Ferrara sia a Bologna, livello di organizzazione dei partigiani, risulta difficile giustificare il fatto che gli antifascisti fossero a conoscenza che proprio quella sera il reggente si sarebbe mosso da solo, se non ipotizzando il non certo impossibile contatto tra questi ultimi e qualcuno che, all'interno del fascismo, avesse interesse all'eliminazione di Ghisellini.
Che gli stessi fascisti dubitassero dell'accaduto, oltre che dalla tragica vicenda di Carlo Govoni, il giovane che fu mandato a morire a Dachau perché non si stancò mai di denunciare i fascisti che secondo lui erano responsabili dell'omicidio di Ghisellini, appare evidente anche dalle indagini interne al partito che fecero emergere grossi dubbi proprio sulla figura di Cesare Borellini, l'uomo che aveva dato a Baiesi i biglietti da consegnare a Calura e Ghilardoni e a causa dei quali il federale era rimasto senza scorta. Borellini la sera del delitto era stato accompagnato a casa da Alessandro Benea, perché aveva detto di essere febbricitante: in realtà, proprio in quei frangenti, secondo alcune deposizioni di compagni di partito, la moglie lo aveva cercato in federazione. Dove fosse non si seppe anche se, alcuni testimoni concordavano nel dire che, il giorno successivo, sul suo volto erano evidenti i segni di un graffio. Di grande interesse, a proposito, il fatto che Borellini, Ghilardoni e Calura, dopo i tragici fatti del novembre 1943, scomparirono dalla scena politica della R.S.I..
Ancora oggi non è possibile stabilire con certezza chi abbia ucciso Ghisellini, ma la mole crescente di documenti permettono ormai di descrivere con grande precisione la situazione esistente all'interno del fascismo repubblicano nei primi mesi della R.S.I. dove gli scontri e le contrapposizioni erano all'ordine del giorno.
Quello che è evidente è che si trattò di un episodio fondamentale per comprendere le linee strategiche e politiche della R.S.I. su tutto il territorio che ne fu interessato. Infatti, dopo la terribile strage di civili, venne coniato il motto 'Ferrarizzare l'Italia" che dimostrava come i fascisti tornati al potere non si facessero certo scrupolo, pur senza avere nessuna sicurezza sugli esecutori dell'omicidio ed anzi ben sapendo che esisteva la possibilità di pesanti coinvolgimenti di esponenti del P.F.R., ad addossare all'antifascismo le responsabilità dell'accaduto, uccidendo, al solo scopo di creare terrore e asservimento, persone che avevano quale unico torto quello di essere contrari al fascismo ed alla dittatura.
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