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lunedì 30 settembre 2019

#Almanacco quotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 30 settembre.
Il 30 settembre 1924 nasce Truman Capote.
Giornalista, scrittore, dialoghista, sceneggiatore, drammaturgo, attore: rinchiudere in una sola definizione Truman Capote è praticamente impossibile. Nato il 30 settembre del 1924 a New Orleans, Truman (il cui vero nome è Truman Streckfus Persons) cresce in Alabama, a Monroeville, accudito dai parenti che lo hanno preso in cura dopo il divorzio dei genitori: la madre, scostante e turbolenta, alle prese con numerosi amanti, gli fa visita solo occasionalmente, mentre il padre, sprovveduto e squattrinato, ricomparirà solo quando Capote sarà ricco e famoso.
L'infanzia del piccolo Truman, dunque, è poco felice, e l'unico affetto che lo consola è quello di Harper Lee, sua amica del cuore, che diventerà a sua volta celebre come scrittrice grazie al libro vincitore del Premio Pulitzer "Il buio oltre la siepe" (titolo originale: "To kill a mockingbird"), dove appare anche Truman, nei panni del piccolo Dill.
Anche durante l'adolescenza la vita per Truman non è semplice: a scuola viene preso in giro per i suoi modi effemminati, e trova l'unico sollievo nell'insegnante di inglese del college, unica che sa apprezzare la sua sterminata fantasia, alimentata dalla sua passione per la lettura. Dopo la scuola Truman si trasferisce a New York, dove assume il cognome di Joe Capote, suo patrigno; pur di entrare in contatto con il mondo del giornalismo, il ragazzo trova lavoro come fattorino presso il "New Yorker", celebre rivista letteraria, dal quale però viene licenziato dopo essersi spacciato come inviato in occasione di un convegno letterario.
Nel frattempo, alcuni suoi racconti vengono pubblicati sull'"Harper's Bazaar" e sul "Southern Gothic Novelist". Un successo inaspettato arriva con "Miriam", edito da una rivista femminile, che gli apre le porte dei salotti mondani della Grande Mela. Truman Capote, personaggio dandy e profondo intellettuale, ben presto diventa amico di Ronald Reagan, Tennessee Williams, Jackie Kennedy, Andy Warhol e Humphrey Bogart: è l'inizio di una vita segnata dagli eccessi, aggravata da un carattere difficile e dall'ostentazione della propria omosessualità.
Truman Capote in pochi anni diventa uno scrittore conosciuto in tutto il Paese: dopo "Altre voci, altre stanze", del 1948, è la volta di "Colazione da Tiffany" e del musical "House of flowers", del quale compone sceneggiatura e parole dei brani musicali. Nel 1966 sul "New Yorker" esce a puntate "A sangue freddo", la sua opera più famosa, realizzata dopo un lavoro di indagine durato sei anni.
Poco dopo, però, inizia già la parabola discendente di Capote, che con il romanzo "Preghiere esaudite", peraltro mai completato, prova a condensare tutte le osservazioni derivanti dal suo incontro con il jet set. Pensato come un libro di carattere proustiano, una sorta di ritratto del nulla delle vicende che coinvolgono i divi della Grande Mela, "Preghiere esaudite" fa perdere a Capote tutte le sue amicizie.
Droga e alcol sono sempre più protagonisti della vita dello scrittore, che veste i panni di un moderno Oscar Wilde, dall'esistenza distruttiva ed estetizzante. Il novello Thomas Chatterton, come è stato ribattezzato da James Michener, passa l'ultima parte della sua vita con uomini che mirano unicamente al suo denaro, disinteressandosi di lui. Truman sviluppa, inoltre, una forma pesante di epilessia, dovuta all'abuso di sonniferi. Le sue condizioni di salute peggiorano sempre di più, anche a causa della dipendenza dall'alcol: lasciato dal suo compagno, dal bel mondo che lo aveva osannato e dai divi che rinnegano la sua amicizia, Capote passa intere settimane a bere e a dormire, sul letto di casa propria o in un ospedale di New York.
Due tentativi di disintossicazione non vanno a buon fine, e così, all'età di 59 anni, Truman Capote muore il 25 agosto del 1984 a causa di una cirrosi epatica mentre si trova a Bel Air, Los Angeles, ospite di una delle poche persone amiche che non lo hanno mai lasciato, Joanne Carson.
Tra le altre opere della carriera di Truman Capote, vale la pena di citare la realizzazione dei dialoghi inglesi di "Stazione Termini", film del 1953 di Vittorio De Sica, e le sceneggiature di "Il tesoro dell'Africa", "Laura" e "Suspense". L'artista si è anche cimentato come attore prendendo parte al tredicesimo episodio della prima stagione di "ABC Stage 67", a "The Thanksgiving visitor" e a "Invito a cena con delitto". Maledetto, deluso e deludente, artisticamente creativo e profondamente geniale, vittima dell'alcol, della droga, di se stesso e della propria ingenuità, Truman Capote ha rappresentato una delle personalità più controverse degli anni Sessanta e Settanta, non solo in America ma anche nel resto del mondo.

domenica 29 settembre 2019

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 29 settembre.
Il 29 settembre 1538 avvenne una devastante eruzione nei Campi Flegrei che portò alla nascita di Monte Nuovo.
I Campi Flegrei sono stati definiti da molti esperti del settore il vulcano più pericoloso al mondo. Non ci vuol molto a dimostrarlo, ma sembra che la storia e la scienza non forniscano motivazioni sufficienti a chi ha il dovere di elaborare un piano di evacuazione per più di quattro milioni di persone. Sembra che un vulcano in grado di far nascere Monte Nuovo nel giro di 24 ore non sia considerato abbastanza pericoloso per i tanti abitanti che vivono sulla sua bocca smisurata, facendo finta di no.
Eppure i Campi Flegrei hanno vette di pericolosità elevatissime. Non solo per le dimensioni e le caratteristiche del vulcano, ma anche e soprattutto per la sua imprevedibilità. Vulcani come l’Etna o il Vesuvio, nonostante tra loro siano molto diversi, forniscono elementi utili alla previsione delle relative attività eruttive. I Campi Flegrei no. Sono in tale costante succedersi di eventi, che il momento nel quale questi eventi diventano catastrofici è del tutto insondabile.
La nascita di Monte Nuovo, in questo senso, è emblematica. Dall’età romana all’anno 1000 l’area flegrea si abbassò progressivamente, inabissando nel mare molte strutture portuali romane e arretrando la linea di costa. Improvvisamente, dopo 10 secoli di abbassamento, la terra ricominciò a sollevarsi, fino al 1500 circa.
Già a partire dal 1400 i documenti testimoniano editti con i quali i regnanti assegnano le terre emerse a comuni o istituzioni, segno che le nuove terre che spuntavano dal mare in seguito al risollevarsi del suolo consistevano in aree piuttosto rilevanti. E’ il caso delle “terre che vanno dal Cantarello al mare”, concesse nel 1429 dalla regina Giovanna II di Napoli all’Ospedale dell’Annunziata.
Un fenomeno allarmante? Non per chi sapeva che erano 3000 anni che in zona flegrea non si verificavano eruzioni. Decisamente più allarmanti i fenomeni sismici che cominciarono ad affiancare il sollevamento del suolo e a terrorizzare la popolazione. Due violente scosse si percepirono chiaramente già nel 1456 e nel 1488.
A queste seguirono scosse di minore entità, ma molto frequenti, nell’area di Pozzuoli, tali da causare danni ingenti persino alle solidissime chiese della zona. Particolarmente terribili furono i terremoti del 1507 e del 1511. Tremori di minore intensità continuarono fino al 1536, abituando di fatto la popolazione alla convivenza con questo genere di fenomeni.
Ma nel 1536 la situazione divenne nuovamente critica. Le scosse si fecero frequentissime, anche nell’ordine di una decina al giorno. Interessavano il territorio di Pozzuoli, di Napoli, e dell’intera Terra di Lavoro, ed alcune erano così violente che la popolazione, in preda al terrore, si riversava nelle strade con o senza vestiti, con o senza familiari.
Fino a quando, il 28 Settembre del 1538, cominciarono ad accadere cose davvero strane. La mattina di quel giorno gli abitanti della zona trovarono la costa interamente tappezzata di pesci morti. Il letto del mare era improvvisamente emerso, ricacciando indietro le acque ed allungando la linea di costa di ben 300 metri. “Carrate di pesce” furono ritrovate anche in occasione dell’esplosione del Vesuvio nel 79 d.C.
Il giorno dopo, tra il Monte Barbaro e il Lago Averno cominciò a formarsi una valle, all’interno della quale sgorgarono acque ora fresche e cristalline, ora bollenti e sulfuree. Sempre nella giornata del 29, la stessa valle sembrò produrre al suo interno una specie di bolla, un rigonfiamento, un uovo roccioso che cresceva a vista d’occhio, finché a sera esplose. Cominciava così il processo che portò alla formazione di Monte Nuovo.
Affidiamo la descrizione di quei momenti alla testimonianza diretta di Antonio Russo: “E come fu verso un’ora in due di notte, uscì una bocca di fuoco, vicino al detto Ospedale, (di Tripergole ndr) nel luogo nominato la Fumosa da dentro mare, e menava gran moltitudine di pietre pomici, e di arena, e si sentivano gran tuoni, e lampi; ed in cambio di acqua pioveva arena, e venne detta bocca di fuoco così aperta ad accostarsi al Castello, ed Ospedale di Tripergole, e tutto lo sconquassò, e rovinò, e poi lo empì di arena, e di pietre, e vi fece una montagna nuova in ventiquattro ore, dove infino ad oggi si vede”.
E ora le parole di un altro testimone diretto, che visse l’eruzione di Monte Nuovo fronte popolo: “si sentì per detta Città un gran terremoto, lo quale allo stesso pigliava, e lasciava, e tutta la Città si mise in rivolta, e quasi tutta disabitò, ed andò in Napoli, e per le campagne, chi fuggiva in un luogo, e chi in un altro, e pareva, che il mondo volesse subissare; e le genti fuggivano etiam alla nuda, e tutti piangevano, e gridavano: Misericordia!”
Il giorno successivo a questa prima eruzione, Monte Nuovo era già quale lo vediamo oggi, frutto del materiale sputato dall’uovo e colato o precipitato sui suoi fianchi. Incredibilmente, a questo punto del processo, non si registrò un solo morto a Pozzuoli. I morti arrivarono il 6 ottobre, quando alcuni temerari, pensando il fenomeno ormai ultimato, si recarono sui bordi del cratere, venendo brutalmente investiti da una nuova esplosione. Morirono in 24.
I due laghi di Lucrino e Averno vennero ridimensionati, si interruppe il loro collegamento col mare, ed in generale tutta la costa assunse una nuova conformazione. Tripergole, una piccola località che viveva di attività termali in zona, venne completamente schiacciata. Pozzuoli rasa al suolo. Baia pure. Una catastrofe che la popolazione riuscì ad evitare con una fuga massiccia verso Napoli. Oggi non sarebbe possibile.

sabato 28 settembre 2019

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 28 settembre.
Il 28 settembre 1994 il traghetto Estonia cola a picco provocando la tragedia navale più grave in Europa dopo la seconda guerra mondiale.
Le locandine pubblicitarie ed i biglietti della motonave Estonia (15566 tonnellate di stazza) riportavano una scritta che significava navigherete per una crociera che non è come tutte le altre crociere. Arriverete a Tallinn con il viaggio più emozionante del Baltico.
La motonave Estonia salpò dal porto di Tallinn il 27 settembre 1994 alle ore 19:00 con 989 persone a bordo (803 passeggeri), diretta verso Stoccolma, dove era attesa per l'arrivo alle ore 09:30 del mattino seguente. L’atmosfera a bordo della nave era buona e distesa, nonostante i continui colpi del mare agitato che schiaffeggiavano il traverso di tanto in tanto. La velocità era di 15-18 nodi, piuttosto alta nonostante le condizioni del mare, per arrivare in orario a Stoccolma.
Ma la nave non arrivò mai.
Dopo l’una di notte, mentre la nave si trovava a circa 15 miglia dall’isola finlandese di Utö, alcuni passeggeri raccontano di aver percepito un colpo differente dagli altri. La nave sbandò improvvisamente di 40 gradi a dritta; il portellone di prua, da dove erano entrate le automobili, ebbe un cedimento sotto i colpi del mare e l'acqua iniziò violentemente ad entrare. La nave perse stabilità e si rovesciò in pochissimi minuti.
Si può immaginare cosa accadde a bordo: molte persone non riuscirono a raggiungere i ponti superiori perché ferite dal rovesciamento improvviso o perché in cabina vista la tarda ora.
Delle 989 persone solo 137 sarebbero state tratte in salvo dalle squadre di soccorso. 95 furono i corpi recuperati e 757 furono i dispersi, per un totale di 852 vittime.
Nonostante in quel tratto le acque siano profonde poco più di 70 metri nessuna spedizione ufficiale, se non per accertare le cause del sinistro, sarebbe stata poi organizzata per recuperare i corpi imprigionati all'interno dello scafo. Il naufragio della motonave “Estonia” statisticamente passò alla storia come la tragedia marittima che causò il maggior numero di vittime in Europa, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ad oggi. La tipologia dell’inconveniente che determinò quel disastro fece cambiare per sempre, dal 1995 in poi, il modo di costruire le navi che trasportano veicoli, in tutto il mondo. I portelloni di ingresso al garage infatti non vengono più realizzati a prua, ma a poppa.

venerdì 27 settembre 2019

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 27 settembre.
Il 27 settembre 1590 muore Urbano VII, il papa dal pontificato più breve della storia.
Giovanni Battista Castagna nacque a Roma nel 1521, discendente da una nobile famiglia genovese che lo avviò agli studi umanistici ed ecclesiastici.
Nella città natale, in seguito alla laurea in utroque iure, si pose al servizio della Curia come avvocato della Segnatura Apostolica – il supremo tribunale della Santa Sede – e datario della legazione apostolica in Francia: è questa una carica oggi soppressa, che si occupava della riscossione di tributi e di fondi destinati ad opere di misericordia.
Elevato arcivescovo di Rossano nel 1553 per volere di Giulio III, fu da lui definito uomo dotato di «veste sacerdotale, (distinto) per onestà di vita e di costumi, provvido nelle spirituali come nelle temporali faccende»: da qui iniziò una rapida e brillante carriera che lo portò, fra le altre, a divenire Governatore dell’Umbria e Nunzio apostolico in Spagna, ove celebrò il battesimo della primogenita del re Filippo II, fino a ricevere la porpora cardinalizia nel 1583.
Nonostante diverse opposizioni, il 15 settembre 1590 Giambattista Castagna fu elevato al Soglio Pontificio grazie all’appoggio della fazione spagnola. Come i suoi predecessori, Urbano VII non era un prelato appartenente ad una potente famiglia romana, ma un uomo virtuoso dotato di profonda conoscenza teologica e canonica, avvezzo alla vita diplomatica e curiale. Da subito il neo-eletto annunciò di voler proseguire l’opera di riforma della Chiesa avviata dai predecessori e il proposito di continuare nell’attuare le norme del concilio di Trento – di cui era stato uditore nella fase finale –; ma il 27 settembre, colto da febbri malariche, si spense dopo soli 12 giorni di pontificato, celebre perché il più breve della storia della Chiesa.
Ma la fama di Urbano VII resta legata principalmente al suo spirito caritatevole, che ne contraddistinse sempre l’atteggiamento energico e determinato, deciso a contrastare ogni abuso di potere, nominò inoltre quattro cardinali affinché riformassero le finanze della Curia. Sollecito con i poveri, fu anche magnanimo con gli stessi nemici che lo avevano calunniato durante il conclave per evitare che fosse eletto, e perdonò il cardinale Bonelli, suo principale accusatore; inoltre si oppose fermamente alle richieste nepotistiche dei parenti, in modo che nessuno sottraesse pane al popolo.
Dotato di una «mansuetudine più che umana»: così lo descrisse Fulgenzio Micanzio, allievo del grande oppositore della Chiesa cattolica Paolo Sarpi, anch’egli pronto a riconoscere la statura morale di un uomo che avrebbe meritato un pontificato più lungo. E anche dopo la sua morte, i romani beneficiarono ancora una volta del loro Papa: aperto il testamento, si scoprì che Urbano VII aveva destinato ben trentamila scudi del suo patrimonio personale alla confraternita dell’Annunziata, affinché fosse assicurata una dote anche alle giovani ragazze indigenti e permettere loro il riscatto sociale.

giovedì 26 settembre 2019

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 26 settembre.
Il 26 settembre 52 a.C. si combatté la battaglia di Alesia, in cui Cesare sconfisse i Galli e prese prigioniero Vercingetorige.
Tra il 53 e il 52 a.C. Gaio Giulio Cesare dovette affrontare la sollevazione di molte tribù galliche, guidate dal re degli arverni Vercingetorige. La battaglia di Alesia, capolavoro tattico della campagna cesariana, si svolse nel settembre del 52 a.C., nell’ambito della conquista della Gallia da parte di Cesare. Il ricordo delle sue imprese in Gallia fu affidato a un’opera autobiografica, “De bello gallico”, considerato uno dei capolavori della storiografia antica.
Cesare assediò il re nemico Vercingetorige nella fortezza di Alesia. La posizione di Alesia era formidabile: sorgeva sulla sommità di un colle, alla base del quale scorrevano da due parti due fiumi, ed era circondata da altri colli su tre lati. La città sembrava davvero inespugnabile: collocata nel territorio dei Mandubi (l’attuale Auxois, in Borgogna), è identificabile con il Mont Auxois, presso il quale sorge oggi la città di Alise-St.-Reine.
Cesare, uno dei più grandi comandanti della storia, seppe vincere l’importante battaglia di Alesia nonostante un esercito nettamente inferiore, dal punto di vista numerico, a quello del nemico.
I Romani avevano infatti circa 50 mila uomini, mentre i Galli disponevano di 45 mila armati in città e di altri 240 mila che stavano per giungere in soccorso. Cesare fece costruire lungo il crinale dei colli attorno alla città un sistema di fortificazioni doppio, rivolto sia all’esterno sia all’interno. In questo modo, durante l’attacco generale portato dai Galli su più fronti, riuscì a tenere a bada gli attaccanti provenienti dalla città, mentre grazie alle mura e alle torri erette sui colli poté respingere l’urto della moltitudine dei rinforzi esterni.
Vercingetorige venne ad offrirsi come vittima a Cesare nel momento della resa di Alesia, e la Gallia venne definitivamente sottomessa a Roma.
 Il re degli Arverni, Vercingetorige, fu condotto a Roma e imprigionato per cinque anni. Nel 46 a.C. fu trascinato in catene durante la celebrazione del Trionfo di Cesare; subito dopo fu mandato a morte, forse per strangolamento.

mercoledì 25 settembre 2019

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 25 settembre.
Il 25 settembre 1939 la Germania nazista inizia il progetto di realizzazione della bomba atomica.
Hitler era ad un passo dall’ottenere la più bramata tra le sue fantascientifiche ‘Wunderwaffen’: una bomba nucleare con la quale avrebbe ribilanciato le sorti del secondo conflitto mondiale. Secondo il rapporto APO 696, siglato da numerosi agenti dei servizi segreti americani (OSS) e britannici (MI6), e accompagnato dalla testimonianza diretta di quattro esperti tedeschi - due fisici, un chimico e un esperto di missili - gli scienziati nazisti che formalmente non portarono mai a termine il ‘programma nucleare’ da impiegare contro il nemico, avrebbero comunque dimostrato al Führer che un arma nucleare era conseguibile. La dimostrazione avvenne nell’ottobre del 1944 attraverso il test di una ‘testata rudimentale’.
Secondo la dichiarazione del pilota tedesco Hans Zinsser, che era in volo il giorno del test, ‘un fungo atomico’ si levò nel cielo nei pressi di Ludwigslust. Sul suo registro di volo, consegnato ed esaminato dagli investigatori alleati al termine della guerra, si legge distintamente: "I primi di ottobre del 1944 ero in volo a 12-15 km dalla stazione per i test nucleare nei pressi Ludwigslust, sud di Lubecca. Una nube a forma di fungo con sezione fluttuanti accompagnata da turbolenze si leva dal suolo fino ad un altezza di circa 7000 metri senza collegamenti apparenti oltre il punto in cui ha avuto luogo l’esplosione. Forti disturbi all’apparato elettronico rendono impossibile ogni comunicazione radio e impediscono la corretta consultazione della strumentazione di bordo". Questo report è stato recentemente declassificato da ‘top secret’ e proviene dagli archivi nazionali di Washington.
Secondo le stime effettuate la nube, che si sarebbe estesa per oltre 10 km (6,5 miglia), è stata descritta come di 'strane e inconsuete colorazioni’. La manifestazione della singolare nube a fungo fu seguita da un’onda d'urto percepita distintamente sulla barra di pilotaggio del He-111 sul quale Zinseer si trovava. Secondo un altro registro di volo consultato dagli investigatori alleati, un secondo pilota alzatosi in volo un’ora più tardi e decollato anch’esso nell’area nei pressi di Ludwigslust osservò lo stesso fenomeno.
L’archivio custodiva anche la testimonianza del corrispondente italiano Luigi Romersa, inviato da Mussolini per assistere e riferire riguardo la ‘nuova arma dei tedeschi’. Romersa osservò l’esplosione da terra. È ben noto come Hitler perseguisse con tutte le sue risorse l’obiettivo di padroneggiare la tecnologia nucleare per poterla impiegare in maniera offensiva o come deterrenza attraverso i suoi missili balistici: i razzi Vergeltungswaffe V2. Se il Terzo Reich fosse stato capace di lanciare dalla base di Peenemünde anche un solo missile dotato di potenza atomica avrebbe senza dubbio costretto alla resa il Regno Unito sconvolgendo in tal modo le sorti del conflitto.
La testimonianza dei quattro scienziati tedeschi presente nel report declassificato fa inoltre menzione di un incontro top secret avvenuto a Berlino nel 1943 tra il cancelliere Adolf Hitler e il ministro agli armamenti Albert Speer: l’incontro venne riportato come 'vertice nucleare’. Che gli alleati fossero al corrente dei progressi del programma nucleare nazista basato sugli studi della ‘fissione nucleare dell’uranio’ pubblicati nel 1939 dagli scienziati Otto Hahn e Fritz Strassmann - concomitante al Progetto Manhattan condotto negli Stati Uniti da Oppenheimer e Fermi - è ben noto date le numerose operazioni militari che dedicano tra il ’42 e il ’43 al sabotaggio della produzione di ‘acqua pesante’ (deuterio e ossigeno): reagente che veniva impiegato come moderatore chimico per permettere al plutonio 239 di raggiungere la fissione nucleare. Nonostante questo il report redatto dagli investigatori dei servizi segreti alleati si conclude affermando che non si ritiene che i tedeschi sarebbero stati in grado di innescare una reazione nucleare necessaria a provocare un’esplosione nucleare controllata. Queste conclusioni non sono dunque in grado di spiegare quanto accaduto nei cieli sopra Ludwigslust nell’ottobre 1944. Probabilmente gli scienziati tedeschi evacuati durante l’Operazione Paperclip - poi ingaggiati dalla CIA a partire dal 1946 - hanno tirato delle conclusioni più dettagliate a riguardo e, forse, hanno capito che per un pelo non erano arrivati... alla bomba atomica!

martedì 24 settembre 2019

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 24 settembre.
Il 24 settembre 1863 la Brigata Estense viene sciolta a Cartigliano.
Brigata Estense era la denominazione assunta dall’esercito del Ducato di Modena che seguì nell’esilio il duca Francesco V d’Este dall’11 giugno 1859, data della definitiva partenza da Modena, al 24 settembre 1863, data dello scioglimento a Cartigliano nel Veneto. Composta inizialmente da circa 3.600 uomini, contava al momento dello scioglimento su 2.722 effettivi.
Sin dalla caduta del Regno italico, il restaurato signore del Ducato di Modena, Francesco IV aveva provveduto ad armare un piccolo esercito, cui non mancarono neppure le cure del successore Francesco V, sul trono dal 1846.
La piccola armata era strettamente legata e dipendente dal corpo di occupazione austriaco nel Lombardo-Veneto, ma da essa poterono emergere alcuni eminenti soldati, fra i quali basterà citare Manfredo Fanti, che ebbe un ruolo importante nella nascita dell’esercito italiano.
L’armata acquisì un forte spirito di corpo ed una solida fedeltà alla casa austro-estense. Tanto che Francesco IV poté portarla con sé in occasione della sua fuga a Mantova del 1831, trascinandosi dietro Ciro Menotti in catene. Il figlio Francesco V poté fare lo stesso nel 1848 eppoi, nel 1849 dopo la battaglia di Novara, condurre la brigata al seguito del d’Aspre all’occupazione del Granducato di Toscana.
Francesco V dovette compiere la terza, ed ultima, fuga da Modena, l’11 giugno 1859, sette giorni dopo Magenta, mentre l’esercito austriaco abbandonava la Lombardia per portarsi sotto le fortezze del Quadrilatero. Il duca si rifugiò, come precedentemente, a Mantova, in attesa degli eventi. Con l’armistizio di Villafranca Francesco V avrebbe potuto rientrare nei propri domini, ma le popolazioni rifiutarono di accettare la consegna e presero ad organizzare tre nuove divisioni, sotto la guida di ufficiali del Regno di Sardegna, con l’efficiente direzione del Fanti.
L’esercito di Francesco V, tuttavia, non si sciolse, e venne ribattezzato Brigata Estense, forte di circa 3600 uomini.
Nei quasi quattro anni di permanenza nella parte del Lombardo-Veneto ancora facente parte dell’Impero austriaco, la Brigata Estense giunse a contare fino a 5.000 effettivi per il sopraggiungere di volontari desiderosi di arruolarsi; giovani dell’ex-Ducato di Modena che preferivano oltrepassare il Po, per porsi al servizio del Duca, piuttosto che rispondere alle chiamate alle armi del neonato Regno d’Italia, ma anche sbandati o appartenenti a famiglie legate alla dinastia da vincoli economici.
Nell’anno 1860 si profilò per questo piccolo esercito la possibilità di essere impiegato al servizio di Pio IX: lo stesso Imperatore Francesco Giuseppe avrebbe caldeggiato questa eventualità rendendo disponibile la flotta austriaca per il trasporto delle truppe in Adriatico. Nello stesso anno però gli eventi precipitarono con la spedizione di Garibaldi, l’occupazione del regno borbonico, l’intervento del Regno di Sardegna con il dispiegamento della flotta di fronte ad Ancona e la discesa dell’esercito nello Stato Pontificio. Il progetto del duca non ebbe attuazione e fu definitivamente accantonato.
Il duca, nella cerimonia di scioglimento avvenuta in Cartigliano (Vicenza) il 24 settembre 1863, decorò i suoi soldati con la cosiddetta medaglia dell’emigrazione coniata in bronzo e raffigurante da un lato la sua effigie e dall’altro l’iscrizione: FIDELITATI ET CONSTANTIAE IN ADVERSIS – MDCCCLXIII.
Nel pomeriggio della stessa giornata in Bassano, il generale Agostino Saccozzi comandante della brigata, molti ufficiali ed un reparto composto da granatieri del 1º e 2º Battaglione di linea si recarono nella casa dove alloggiavano Francesco V e la Duchessa Adelgonda per consegnare nelle mani del Sovrano le bandiere che come disse avrebbe conservato sempre con sé senza perdere la speranza di poterle dispiegare nuovamente un giorno fra i suoi fedeli soldati. Questo fu l’ultimo atto ufficiale dell’esercito del Ducato di Modena.
Ecco la testimonianza di Domenico Panizzi, soldato della brigata: “Le truppe sfilarono al cospetto dei Sovrani commossi da quella scena straziante (…) Fu vinto d’improvviso il ritegno della militare disciplina ed i soldati, rotte le file, si affollarono intorno alla carrozza della regal Duchessa ed appresso al cavallo dell’armato Sovrano, gridando Evviva ed Addio!”.
Nei giorni seguenti si svolsero le incombenze burocratiche relative al trasferimento presso il reparto di destinazione dei militari integrati nell’Armata Imperiale ed al rimpatrio dei congedati, la vendita dei cavalli e di altro materiale e la consegna delle armi negli arsenali austriaci come previsto dagli accordi.
All’atto dello scioglimento, dei 2.722 effettivi ancora arruolati, ben 1.111 (156 ufficiali e 955 militari di truppa) chiesero ed ottennero di entrare a far parte dell’Imperial Regia Armata. Il 5 ottobre 1863 il Tenente Maresciallo Luigi Pokorny li accolse con queste parole: “Quali soldati d’onore avete dato al mondo un raro esempio di forza d’animo, fedeltà ed attaccamento all’Augusto vostro Sovrano. Il destino altrimenti dispose di quanto una tanta fedeltà, eternamente duratura nelle pagine della storia, avrebbe meritato. (…) Dall’Austria i guerrieri di tante nazioni salutandovi, vi chiamano i benvenuti. Io in loro nome vi stringo la mano, e vi consegno la vostra nuova bandiera, pur essa vessillo della legittimità e della religione, ed in cui pure risplende il glorioso stemma estense”.
Le bandiere erano due: la prima in dotazione al I Battaglione di Linea donata da S.A.R. la duchessa Maria Beatrice nell’anno 1820, la seconda in dotazione al II Battaglione di Linea donata da S.A.R. la duchessa Adelgonda nell’anno 1849.

lunedì 23 settembre 2019

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 23 settembre.
Il 23 settembre 1215 nasce Kublai Khan.
Kublai Khan (1215 -1294) era il nipote di quel Gengis Khan che unificò la Cina e pose fine al dominio della dinastia Song meridionale. Divenne il fondatore della dinastia Yuan in Cina con il titolo di Setsen Khan (il Saggio Khan) dell’impero mongolo, il cui territorio si estendeva dall’Asia fino all’Europa orientale. Quando Mongke divenne il Gengis Khan dell’impero mongolo, decise di continuare l’espansione del suo impero. Delegò a Kublai, suo fratello minore, il compito di conquistare e governare la Cina.
A differenza di molti capi mongoli, che sapevano solo come combattere a cavallo, Kublai era affascinato dalla cultura cinese e conosceva la necessità di avere un gruppo di fidati consiglieri confuciani per governare il Paese. Reclutò e strinse amicizia con molti studiosi cinesi, e usò il servizio civile cinese per governare le pianure centrali della Cina.
Il regno di Kublai ebbe vasta popolarità in Cina. Tuttavia i conservatori del popolo mongolo non furono felici della sua inclinazione verso la cultura cinese. Suo fratello Mongke disse che Kublai aveva conquistato i cuori del popolo Han e che nascondesse delle ricchezze.
Un giorno a Kublai venne detto che suo fratello aveva inviato un investigatore sulle pianure centrali per indagare su alcuni funzionari che lavoravano per lui. Centinaia di accuse vennero formalizzate, alcune avrebbero portato alla pena di morte. Kublai Khan fu sia sorpreso che sconvolto dall’azione di suo fratello, ed era preoccupato che i funzionari sotto inchiesta potessero divenire vittime politiche: erano coloro che più stimava. Sapeva che Khan, che da sempre si fidava di lui, doveva essere stato sviato dai suoi rivali politici, che avevano tramato contro di lui.
Uno dei suoi consiglieri cinesi Han suggerì, «Khan è vostro fratello maggiore e anche l’Imperatore. Egli ha potere su di voi, dato che voi siete suo fratello minore e anche un suo subordinato. Vi prego di non avere rancore. Se posso darvi un suggerimento, prendete in considerazione l’idea di portare la vostra famiglia a vivere insieme con la famiglia di Khan nella capitale mongola, in questo modo la vostra fedeltà sarà chiaramente indicata a Gengis Khan, e non sospetterà più voi».
Kublai accolse il consiglio e immediatamente inviò moglie e figli nuovamente nella capitale. Più tardi tornò anch’egli nella capitale per incontrare suo fratello personalmente. Come risultato il fratello riacquistò fiducia in lui e i due ripresero a collaborare come al solito.
Kublai governò a lungo il nord della Cina, dove si vede l’evidente differenza di cultura tra la vita nomade e la vita agricola cinese. La vita mongola è descritta piena di lotte, tiro con l’arco, cavallo, agnello arrosto e latte. La vita cinese vede invece preziose sete, poesie e dipinti, prelibatezze, tasse e mercenari.
Per migliorare la rapida espansione in Cina, comprese molto bene l’importanza di mostrare indulgenza verso i popoli conquistati. Ordinò quindi al suo esercito di non massacrare le popolazioni delle città conquistate. Questo veniva visto da molti aristocratici mongoli come un’azione di sfida contro il vecchio mondo nomade mongolo dove il massacro degli altri Paesi o culture era una normalità; tuttavia ciò venne ampiamente accolto dalle popolazioni conquistate in Cina. Il 5 maggio 1260 d.C., Kublai Khan divenne il successore di Mongke, morto nel 1259 d.C. Nel 1271 fondò la sua dinastia Da Yuan (ovvero dinastia di grande origine). Sconfisse Song meridionale del Sud e unificò tutta la Cina nel 1279 d.C., trasformando i regni periferici intorno alla Cina in regni subordinati.
L’impero Yuan era un Paese aperto ai viaggiatori del mondo. Marco Polo arrivò in Cina in quel periodo, e Kublai Khan gli diede messaggi importanti e lo mandò a visitare molti luoghi in tutto il suo impero. Rispetto ai Paesi europei e dell’Asia occidentale in cui era stato, Marco Polo rimase impressionato dalla vastità e dalla prosperità della Cina. Descrisse Kublai Khan come «il più potente del mondo senza precedenti in quanto a persone, terreni e beni».
Per un breve periodo e sotto il dominio di Kublai Khan, la dinastia Yuan godette di unità, prosperità economica e stabilità sociale. Tuttavia il suo corso venne turbato dalle faide familiari o dalle guerre civili contro i principi mongoli rivali delle steppe, dato che molte famiglie aristocratiche in Mongolia erano restie all’idea di Kublai Khan avesse adottato la cultura cinese Han.
Inoltre, il suo esercito inviato alla conquista del Giappone venne distrutto da una tempesta. Divenuto anziano, soffrì di una malattia molto dolorosa. Le morti della sua amata moglie e di suo figlio aggravarono la sua malattia. Nel 1294 d.C, Kublai Khan, il sovrano onnipotente, scomparve all’età di 80 anni.

domenica 22 settembre 2019

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 22 settembre.
Il 22 settembre 1965 le Nazioni Unite impongono il cessate il fuoco a India e Pakistan nella guerra del Kashmir.
Perché India e Pakistan si odiano? Se si vuole trovare un momento preciso, il conflitto iniziò alla mezzanotte del 14 agosto 1947. Erano anni in cui, alla fine della Seconda guerra mondiale, l’esausto Impero britannico dovette decidere rapidamente cosa fare del suo vasto impero indiano, la cui popolazione era diventata sempre più irrequieta, politicamente attiva e difficile da controllare. Il Partito del Congresso indiano, guidato dal Mahatma Gandhi, chiedeva la creazione di un grande stato federale che comprendesse tutta l’India, mentre il leader della Lega Musulmana, Muhammad Ali Jinnah, chiedeva che al 30 per cento dei musulmani indiani venisse concessa la creazione di un loro stato indipendente, così da non rischiare di finire oppressi dalla maggioranza indù.
L’ultimo viceré dell’India, Lord Mountbatten, accettò quest’ultima soluzione e divise il subcontinente in tre parti. La gran parte del territorio meridionale, centrale e settentrionale divenne quella che oggi conosciamo come India, mentre le estremità nordoccidentali e nordorientali, separate tra loro da duemila chilometri di India, divennero il Pakistan (la seconda ottenne l’indipendenza negli anni Settanta e divenne il Bangladesh). Quella che passò alla storia come la “Partizione” divenne effettiva alla mezzanotte tra il 14 e il 15 agosto del 1947, il giorno in cui entrambi i paesi festeggiano l’indipendenza (il Pakistan festeggia il 14, l’India il 15).
La Partizione fu un momento traumatico per molti indiani. L’India era, ed è tuttora, un mosaico complesso di culture, lingue e religioni differenti. È impossibile separare le une dalle altre disegnando un confine su una mappa. Così, il giorno dopo l’entrata in vigore degli accordi, 15 milioni di persone si misero in marcia verso il paese che rispecchiava di più le loro credenze e origini, oppure furono costretti a farlo con la violenza. Si calcola che un milione di persone morì in quei giorni. India e Pakistan, sin dal primo giorno della loro esistenza, ospitarono uccisioni e violenze. Guerriglie e guerre vere e proprie, scaramucce e attentati tra le forze dei due paesi sarebbero continuate per tutti i 70 anni successivi.
Il primo di questi conflitti iniziò a pochi mesi dalla Partizione, dopo che gli scontri spontanei tra le diverse comunità si trasformarono in una vera guerra quando gli eserciti delle due nazioni si incontrarono nella valle del Kashmir, una zona montuosa che entrambi i paesi rivendicano come propria. Nel 1965 e nel 1971, India e Pakistan si sono scontrati nuovamente in due conflitti aperti, il secondo dei quali portò all’indipendenza del Bangladesh dal resto del Pakistan. Nel corso degli anni Novanta ci fu un nuovo periodo di tensione, ma questa volta senza un vero conflitto di eserciti. Il Pakistan incoraggiò una serie di movimenti di guerriglia in Kashmir, che insieme alla brutale repressione dell’esercito indiano costò più di 40 mila morti. Nel 1999 un nuovo incidente portò a un breve scontro tra i due eserciti, che si concluse con un cessate il fuoco, quello del 2003, che fino ad oggi è stato rispettato. Il Pakistan, però, continua ad aiutare gruppi sovversivi nel territorio indiano e accusa l’India di fare lo stesso. Dagli anni Novanta, quando entrambe le nazioni si sono dotate di armi nucleari e dei missili necessari a trasportarle sui loro bersagli, un eventuale conflitto tra i due paesi potrebbe potenzialmente coinvolgere tutto il mondo.
Il punto focale del conflitto tra India e Pakistan è la valle del Kashmir, un’area lunga 135 chilometri e larga in media una trentina che si trova nel nordest dell’India, a più di 1.500 metri d’altezza. La storia della valle è sempre stata piuttosto travagliata. Nel 1846 gli inglesi sconfissero l’Impero dei Sikh, che dominava l’area, e annetterono gran parte dei suoi territori. La valle del Kashmir e i territori circostanti, un’area particolarmente ricca e fertile, furono invece venduti a una ricca famiglia di nobili indiani, i Dogra. Così nacque lo stato principesco del Jammu e Kashmir, uno dei 500 domini semi-indipendenti attraverso i quali la corona britannica amministrava i territori indiani non direttamente sottoposti al suo dominio.
A differenza di molti altri di questi domini, in cui i signori feudali erano musulmani e la popolazione a loro sottoposta di religione indù, il Kashmir aveva una situazione speculare: era un’area a maggioranza musulmana con un sovrano induista. Quando nel 1947 arrivò il momento di dividere il paese, sia l’India sia il Pakistan rivendicarono il piccolo stato principesco come proprio sulla base di ragioni religiose e culturali. I pakistani per sostenere le loro pretese inviarono sul posto un esercito di volontari; il signore locale rinunciò all’idea di diventare una nazione autonoma, che aveva considerato per breve tempo, e chiese aiuto all’esercito indiano contro l’arrivo dei pakistani. Il conflitto fu breve e alla fine il Pakistan riuscì a ottenere il controllo soltanto di una piccola fetta della regione mentre gran parte della valle e dei suoi abitanti musulmani rimasero sotto il controllo indiano.
Da allora il Pakistan ha continuato a inviare nella regione volontari e a sostenere gruppi indipendentisti, costringendo l’India a mantenere nella regione una consistente guarnigione. Sono stati i sette milioni di abitanti della valle a pagare il prezzo più alto di questo perenne stato di allerta. Le forze militari indiane hanno compiuto nel corso degli anni migliaia di arresti, perquisizioni e operazioni militari. L’Economist cita un abitante della regione che descrive in termini molto cupi il rapporto degli abitanti con le forze indiane: «Ci trattano come i servitori nella cucina di un bramino, che bisogna picchiare un paio di volte al giorno per tenere in riga». Dalla metà degli anni Ottanta a oggi, guerriglia pakistana e repressione indiana hanno causato più di 40 mila morti.
Eppure, molti abitanti musulmani del Kashmir oramai preferiscono vivere in una democrazia come l’India che passare al Pakistan, un paese molto più instabile che è stato spesso sottoposto a dittature militari. È un dettaglio, questo, che rivela un elemento essenziale di questa storia: e cioè che la questione del Kashmir si è trasformata in una scusa con cui i nazionalisti su entrambi i lati del confine giustificano uno stato di ostilità permanente che serve ai loro fini politici.
La questione del Kashmir è il più visibile dei problemi che hanno tenuto India e Pakistan così divisi e così a lungo, ma non è il solo. La Partizione lasciò all’India i territori più ricchi e fertili, mentre il Pakistan si trovò diviso in due, con quello che poi divenne il Bangladesh separato dal resto della nazione da duemila chilometri che appartenevano all’India. Fin da subito, quindi, il Pakistan cercò alleati forti sullo scenario mondiale. Li trovò negli Stati Uniti, a cui il paese interessava come anello della catena di stati che stavano costruendo per “contenere” l’Unione Sovietica.
Fin dagli anni Cinquanta il Pakistan ricevette armi e finanziamenti dagli Stati Uniti, che aiutarono i generali pakistani a sentirsi sicuri, contribuendo così a formare l’atteggiamento aggressivo adottato nei confronti dell’India. L’esercito pakistano, una forza da sempre molto importante per il paese, merita una parentesi: l’Economist racconta di un modo di dire indiano sulla Partizione, «A noi toccarono i burocrati, a loro i generali». Nel corso dei secoli il Raj, il governo britannico dell’India, reclutò numerosi soldati indiani e li scelse soprattutto tra le cosiddette “razze marziali”, i gruppi etnici ritenuti più adatti alla guerra. Molti di loro erano musulmani o comunque provenivano dalla zona nordoccidentale dell’India. Quindi, quando quella parte del territorio fu assegnata al Pakistan, il paese si ritrovò con una quota sproporzionata dell’originale esercito del Raj. Il primo bilancio del nuovo stato era per tre quarti costituito dalla spesa militare.
Quel livello di spesa non era sostenibile, e seppure negli anni sia diminuito rimane ancora oggi elevato per gli standard di un paese in via di sviluppo come il Pakistan. Per giustificare questo livello di spesa, i militari avevano bisogno di uno scopo. La rivalità con l’India, e la questione del Kashmir in particolare, è diventata la giustificazione che ha permesso ai generali pakistani non solo di mantenere un alto livello di spesa militare, ma di intervenire più volte nella vita del paese, imponendo e rimuovendo governi e, a volte, assumendo direttamente la guida della nazione.
Nel corso degli ultimi anni qualcosa di simile è avvenuto anche in India. Nel 2015 le elezioni sono state vinte a sorpresa dal BJP, un partito nazionalista indiano, guidato dall’attuale primo ministro Narendra Modi. Anche se il BJP non ha una politica esplicitamente ostile al Pakistan, tra i suoi sostenitori ci sono molte organizzazioni di estremisti nazionalisti, ostili ai musulmani che ancora vivono in India e sempre pronti a sospettare intromissioni dei servizi segreti pakistani in qualsiasi evento che accade nel loro paese.
Una caratteristica essenziale degli scontri militari tra India e Pakistan è che, grazie a maggiori risorse e a una popolazione più numerosa, la prima è sempre riuscita a vincere tutti gli scontri militari che ha intrapreso con il suo vicino. Per questo, il Pakistan ha spesso fatto ricorso a mezzi alternativi per controbattere il suo avversario: dalla guerriglia al terrorismo, passando per l’acquisizione di un arsenale nucleare. Negli ultimi 30 anni, l’India è riuscita a battere il Pakistan anche sul piano economico e questo, per il futuro, potrebbe avere conseguenze destabilizzanti.
L’Economist ricorda che per la prima metà della loro settantennale rivalità, è stato il Pakistan a crescere più rapidamente, in parte perché aveva meno industrie e infrastrutture con cui partire, in parte perché l’India è stata a lungo ingessata da una politica autarchica e dirigista, mentre il Pakistan era più aperto agli scambi internazionali. Nell’ultimo trentennio però questo trend si è invertito ed è stata l’India a superare sistematicamente il Pakistan in termini di risultati economici.
A partire dagli anni Ottanta, una serie di governi indiani ha reso l’economia del paese più flessibile, eliminando arcaiche barriere allo sviluppo economico – e a volte arrivando ad esagerare nel senso opposto. All’inizio degli anni Novanta, l’India produceva due milioni di motociclette all’anno. Oggi ne produce più di venti. Il traffico aereo su rotte domestiche è raddoppiato in dieci anni. Il numero di passeggeri è aumentato del 23 per cento soltanto nel 2016, spingendo le compagnie indiane a ordinare un totale di mille nuovi aerei. Le esportazioni di software e alta tecnologia sono quadruplicate in un decennio, mentre nel  febbraio 2017 l’agenzia spaziale indiana ha inviato nello spazio 104 satelliti con il lancio di un unico missile, un record mondiale.
Per fronteggiare questa competizione, il Pakistan ha poca scelta se non quella di cercare forti alleati, come fece con gli Stati Uniti negli anni subito successivi alla Partizione. In questo momento il suo alleato più importante, almeno in campo economico, è la Cina. I due paesi in realtà hanno una lunga storia di amicizia, per il semplice motivo che la Cina è da sempre rivale dell’India, con cui condivide un importante e conteso confine. Ultimamente questa amicizia ha reso il Pakistan il destinatario del più grande piano di investimenti esteri mai progettato dalla Cina. Si tratta del progetto a volte soprannominato la “Nuova via della seta”, che dovrebbe servire a portare le merci cinesi dai confini occidentali del paese attraverso tutta l’Asia.
In pratica, il piano prevede un investimento in Pakistan da 60 miliardi di dollari, concentrato soprattutto in infrastrutture come centrali elettriche, strade, tunnel, porti e aeroporti. Alcuni pakistani, però, sono preoccupati dalle dimensioni e dalle conseguenze di questo piano. Il loro timore è che il paese finisca con il cedere una quantità di sovranità eccessiva agli importanti investitori cinesi. Tra le società che si occuperanno dell’investimento ce ne sono alcune famose per gestire intere città, comprese intere divisioni di paramilitari, nella provincia cinese dello Xinjang, dove una minoranza di musulmani, gli uiguri, subisce continue discriminazioni.
Nella valutazione dell’investimento cinese, la preoccupazione religiosa non è secondaria per molti pakistani. Il piano di investimenti parla di resort e casinò da costruire sulla costa del paese, oggi in gran parte poco sfruttata. I conservatori pakistani, molti dei quali osservanti di versioni più o meno radicali dell’Islam, vedono questi investimenti come una strada verso la decadenza morale. Negli ultimi mesi, il governo pakistano si è affrettato a precisare che non ci saranno casinò e che non ha intenzione di concedere il suo territorio sovrano alle società cinesi.
A 70 anni dall’inizio della loro rivalità, una riconciliazione non è impossibile. I due paesi hanno ancora molto in comune e in passato hanno dimostrato la capacità di raggiungere accordi che hanno portato reciproci benefici, come quelli, particolarmente complessi, che prevedono lo sfruttamento congiunto delle acque del fiume Indo, che si trova al confine tra i due paesi. Ma la definitiva risoluzione dei loro conflitti non sarà un processo breve.
Tutti gli eventi accaduti negli ultimi anni fanno pensare che le cose continueranno a peggiorare, prima di migliorare. Il grande investimento cinese in Pakistan darà probabilmente al paese la sicurezza necessaria a mantenere la sua postura aggressiva nei confronti dell’India. I militari pakistani continuano ad esercitare un’influenza determinante sulla vita del paese e probabilmente continueranno a utilizzare la carta dell’ostilità indiana per mantenerla. In India, l’ascesa dei partiti nazionalisti al governo centrale e in molti di quelli federali alimenterà una retorica aggressiva identica e speculare. Una soluzione sarà possibile solo quando entrambi saranno riusciti a risolvere i loro problemi interni,cioè quando il Pakistan avrà ridotto il potere del suo esercito e quando l’India riuscirà a mettere ordine nella sua politica interna e ad arginare l’influenza dei partiti populisti e nazionalisti.

sabato 21 settembre 2019

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 21 settembre.
Il 21 settembre 1860 ha luogo la battaglia di Baliqiao nell'ambito della seconda guerra dell'oppio.
Quando, nel 1839, cominciò la prima guerra dell’oppio tra il vacillante Impero Qing e l’Impero britannico, in pochi si resero conto del vero significato di questa guerra. Il conflitto non scoppiò solamente per il rifiuto dell’Impero cinese di importare questa droga, né per sole ragioni commerciali; esso fu un conflitto tra due mondi differenti: una guerra tra un impero mercantilistico ed espansionista in rapida crescita, ed un impero isolato e recluso nel passato, in costante ed irreversibile declino.
L’Impero britannico, che aveva fatto del commercio d’oltreoceano la sua strategia per la supremazia mondiale, dopo essere riuscito a costringere la Cina ad aprirsi alle importazioni, voleva coinvolgere il Celeste Impero in uno dei giri d’affari più pericolosi (ma redditizi) della storia: il commercio dell’oppio. Al contrario dei britannici, i cinesi erano ancora retti da un Imperatore legittimato dal “mandato celeste”, ed al commercio si erano opposti principalmente per ragioni etiche e tradizionali, ma erano stati costretti a cedere di fronte alla forze britannica. Ma, nei tardi anni ‛30, i cinesi sembravano decisi a cacciare lo straniero e i prodotti velenosi che avevano contaminato i loro mercati. Sul piatto della bilancia, quindi, per Londra si presentava uno dei mercati più grandi dell’Asia, mentre per la Cina, che si stava accorgendo sempre di più degli effetti nefasti dell’oppio, l’opposizione al commercio assumeva sempre più i connotati di una lotta contro lo straniero e le sue merci dannose. Come scrisse l’allora giornalista Karl Marx, «mentre i semi-barbari stavano dalla parte del principio di moralità, i civilizzati opponevano il principio del pecunio» (Karl Marx, Storia del commercio dell’oppio, 20 settembre 1858).
Nel 1839, il conflitto scoppiò: l’Imperatore rifiutò di importare l’oppio e lo bandì dal paese, e diede a Lin Zexu l’incarico di “sistemare” le trattative con gli inglese nel porto di Humen. Nel frattempo, cercò però la mediazione, scrivendo addirittura alla Regina Vittoria e spiegandole che le leggi cinesi non potevano tollerare la presenza e la vendita di una tale sostanza nell’Impero. Non riuscendo però a smuovere la situazione per vie diplomatiche, Lin Zexu, governatore del Guangzhou, bruciò pubblicamente 1,15 milioni di chili di oppio confiscato a mercanti britannici ed americani che erano invischiati nel traffico illegale. Preso questo evento come casus belli, tra la fine del 1839 e l’inizio del 1840, l’Impero britannico iniziò una guerra d’aggressione contro la Cina, col pretesto di proteggere i propri diritti commerciali. Non fu difficile per il moderno esercito inglese sconfiggere le truppe cinesi; l’Impero sofferse numerose sconfitte lungo la costa e il saccheggio di varie città. La guerra, il cui esito fin dall’inizio pareva scontato, si concluse il 29 agosto 1842 con la firma del Trattato di Nanchino, che avrebbe avuto enormi conseguenze anche nei secoli a venire.
L’Imperatore Qing, non curandosi del fatto che la popolazione civile e reparti dell’esercito erano ancora determinati a lottare, concluse un’affrettata pace che ridusse il paese in uno stato semi-coloniale. Il Trattato impose la cessione del porto di Hong Kong ai britannici (porto che sarebbe ritornato alla Cina solo nel 1997), l’apertura di cinque porti al commercio dell’oppio (Canton, Xiamen, Fuzhou, Ningbo, Shanghai) e imponenti tributi di guerra da versare ai britannici.
Con la firma del Trattato di Nanchino, la Cina entrò nel periodo detto “secolo delle umiliazioni”: il paese, scosso anche dai tumulti interni (sopra tutti la ribellione dei Taiping iniziata nel 1850), subì diverse aggressioni che non riuscì a fronteggiare. A causa della sua arretratezza, non poté evitare di perderle tutte, concedendo sempre più ampie fette del proprio territorio e sempre più grossi privilegi ai commercianti stranieri. Il simbolo estremo di questo periodo di umiliazione nazionale è rappresentato dai “trattati ineguali”: trattati, commerciali o territoriali, letteralmente imposti alla Cina da altri paesi, a volte nemmeno scaturiti da guerre vere e proprie. Il primo di questi trattati fu, nel 1844, quello di Whampoa, che garantiva enormi privilegi alla Francia, e poi il trattato di Wangxia con gli Stati Uniti, altrettanto sbilanciato nei confronti degli statunitensi. Proprio questi due trattati diedero il via alla Seconda Guerra dell’oppio (1856-1860): l’Impero britannico, che voleva ora ulteriori concessioni (quali erano state imposte alla Cina da Francia e USA), chiese ai cinesi di rinegoziare il Trattato di Nanchino. Ora la Cina avrebbe dovuto aprire tutti i porti al commercio degli oppiacei, ridurre ulteriormente tasse e dazi sulle importazioni britanniche. Il casus belli per questa nuova guerra, fu l’arresto, da parte delle autorità cinesi, della nave Arrow, accusata di pirateria e battente bandiera britannica: Londra minacciò il bombardamento di Canton, se l’equipaggio non fosse stato rilasciato, ma, nonostante il rilascio, la città fu attaccata. Ai britannici si unirono i francesi, poi gli USA e la Russia, nella speranza di ottenere le migliori concessioni possibili. I russi si accontentarono del Trattato di Ainu (1858), che imponeva alla Cina la cessione di gran parte della Manciuria, ma la guerra con le altre tre potenze terminò solo nel 1860, con la conquista e il saccheggio di Pechino da parte degli anglo-francesi. L’Impero dei Qing era ora costretto a cedere Kowloon, una penisola a sud di Hong Kong, ai britannici, oltre a nuove garanzie commerciali, firmando l’ineguale Convenzione di Tianjin.
Ma il “secolo delle umiliazioni” non era destinato a chiudersi con il trattato ineguale del 1860: il Celeste Impero sarebbe stato costretto a cedere le Isole Daoyu al Giappone, col Trattato ineguale di Shimonoseki (1895), a cedere il Jiazhou alla Germania (1898), a cedere ulteriori parti della Cina alla Russia (Mongolia Interna e Liaodong), e varie altre concessioni ad altre potenze, fino a crollare, nel XX secolo, di fronte al militarismo giapponese.

venerdì 20 settembre 2019

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 20 settembre.
Il 20 settembre 1902 nasce a Palermo Nunzio Filogamo.
Iscritto alla facoltà di giurisprudenza all'università di Torino dove è cresciuto e ha vissuto per tutta la vita, salvo un breve periodo di studi a Losanna e alla Sorbona di Parigi, fra gli anni 20 e 30 muove i primi passi nell'ambiente artistico, ribadendo la propria vocazione per il teatro dimostrata sin da ragazzo nelle recite scolastiche.
Entrato a far parte della filodrammatica diretta da Elvira Vaccaneo, ricopre piccoli ruoli in commedie come "La nemica" e "Addio giovinezza", messe dignitosamente in scena dalla ex attrice al Carignano e all'Alfieri di Torino, partecipando anche a vari spettacolini di beneficienza organizzati da Virginia Agnelli.
Quindi ricopre ruoli, ancora marginali, nella Compagnia delle Sorelle Grammatica.
Nel 1934, ormai laureato in legge supera un provino all'EIAR, che cercava un attore per "I quattro moschettieri", nuovo programma di Nizza e Morbelli già in fase di allestimento.
Gli viene affidato il ruolo di Aramis che nelle intenzioni degli autori doveva essere un personaggio marginale contrapposto al duro Porthos.
Non rassegnandosi alla particina, caratterizza a tal punto il suo minuscolo eroe da farne il prototipo di un gagà dell'epoca, con tanto di erre moscia, monocolo e presenza costante nei salotti mondani:
un vero esempio insomma di leggerezza e svaporata comicità.
La trasmissione andata in onda per la prima volta alle ore 13,05 di Giovedi 18 Ottobre 1934, riscuote talmente successo che viene spostata alla Domenica alle ore 13,15 e dalle previste sei puntate iniziali va avanti per cinque lunghi anni.
Sull'onda di una popolarità così travolgente, viene richiesto ovunque e si prova anche a cantare intonando, con una vocina aerea e quasi inesistente, ma anche dissacratoria per l'epoca,  ammiccanti canzoncine tipo
Tutto va bene, Madama la Marchesa,
Qualcosa in Perù,
Povero cagnolino Pechinese.
Divenuto il primo vero divo della radio, la sua carriera non avrà praticamente più ostacoli sino all'avvento della televisione.
Scritturato nel 1951 in esclusiva dalla RAI tiene a battesimo il primo Festival della canzone italiana di Sanremo, rinnovando i fasti della sua già enorme popolarità.
L'anno seguente indispettito dal pubblico in sala, intento più alla cena che non alle canzoni, conia il suo famoso saluto …
"...Miei cari amici vicini e lontani buonasera ovunque voi siate…" Salutando con tanta enfasi gli "amici lontani" aveva inteso polemizzare, anche se con grande garbo e ironia, proprio con quelli a lui così vicini, ma immensamente assenti e distratti.
L'espressione, oltre che biglietto da visita del personaggio diviene ben presto un luogo comune tanto che circa 50 anni più tardi verrà utilizzata da Renzo Arbore per un programma televisivo in commemorazione dei 60 anni della radio.
Nunzio Filogamo presenterà ancora le edizioni del Festival di Sanremo del 1953, 1954 e 1957 e il Festival di Napoli del 1952 e 1954.
Tuttavia voci sempre più insistenti sulla sua omosessualità (alle quali faceva esplicito riferimento nelle movenze il grande imitatore Alighiero Noschese) misero ben presto in agitazione i vertici della Rai, tanto pii e cattolici da mal tollerare la presenza di un presunto gay alla guida del Festival. Così con l'arrivo della televisione venne messo definitivamente da parte con la frettolosa scusa di una scarsa telegenia.
Sul finire degli anni 60 rallenta la propria attività, partecipando comunque ancora a molti programmi rievocativi della radio e della TV come nel 1974 ad una mitica puntata di Milleluci accanto a Mina e Raffaella Carrà, proprio dedicata agli anni ruggenti della radio.
Scompare ormai quasi centenario all'inizio del secolo dopo aver passato gli ultimi anni della sua vita in una casa di riposo per anziani proprio vicino alla città che più di tutte lo ha amato: Sanremo.

giovedì 19 settembre 2019

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 19 settembre.
Il 19 settembre 1926 viene inaugurato lo stadio di San Siro, in un derby meneghino che vide vincere i nerazzurri sul Milan per 6 a 3.
Il più importante impianto sportivo di Milano è noto a tutti i milanesi come Stadio di San Siro. Questo nome deriva da una antica chiesetta, poi incorporata in una successiva villa padronale, che si trovava non distante all’abitato della frazione di Lampugnano ed ai margini dell’antico comune di Trenno, comune che fu accorpato all’interno del Comune di Milano con decorrenza dal 1 gennaio 1924 nell’ambito dell’ allargamento del comune principale col territorio di una serie di comuni minori limitrofi nell’ambito del progetto mussoliniano della Grande Milano.
Anche se per i milanesi il nome del loro stadio è e resta San Siro, oggi il suo nome ufficiale è Stadio Giuseppe Meazza, per ricordare forse la più grande figura di sportivo milanese purosangue di sempre, che giocò gran parte della sua carriera nell’allora Ambrosiana (il nome imposto dal regime all’Internazionale), ma anche due stagioni nel Milano (nome italianizzato del Milan) ed una nella Juventus, ed il cui nome è legato ai successi mondiali della nazionale di Vittorio Pozzo negli anni ’30 del XX secolo. A questo grande atleta è stato dedicato il 3 marzo 1980 lo stadio in cui egli giocò nei derby di casa rossonera e nelle due stagioni in cui giocò con il Milan.
La costruzione fu realizzata in un tempo oggi incredibilmente rapido per un opera pubblica: solo 13 mesi e mezzo fra la posa della prima pietra (1 agosto 1925) e l’inaugurazione, che ebbe luogo il 19 settembre 1926 con l’incontro fra le due squadre più importanti del calcio meneghino: quel derby amichevole si concluse con un rotondo 6-3 dell’Inter sul Milan. In poco più di un anno, fu eretto un impianto capace di ospitare ben 35.000 spettatori. Dall’origine e fino quasi alla fine degli anni ’40 del XX secolo lo stadio di San Siro fu utilizzato esclusivamente per le partite casalinghe del F.C. Milan (poi, dal 1936 A.S. Milan, dal 1939 A.C. Milano ed infine A.C. Milan dopo la Liberazione). L’Inter (rectius Internazionale, poi Ambrosiana, poi Ambrosiana-Inter ed infine ancora Internazionale) in quel periodo giocava all’Arena Civica di Milano al Parco Sempione, opera dell’architetto neoclassico Luigi Canonica, un complesso monumentale adattato ad impianto sportivo polifunzionale inaugurato il 18 agosto 1807 (dal 2002 l’Arena Civica è stata intitolata a Gianni Brera) in pieno centro di Milano, idoneo ad ospitare incontri di calcio e attività di atletica.
La struttura del primo San Siro era simile a quella tipica degli stadi inglesi, e fu realizzata su progetto dell’ ingegner Alberto Cugini, con quattro tribune indipendenti in cemento armato (di cui una coperta con pensilina in ferro ed eternit) per 35000-40000 spettatori.
Costruzione abbastanza modesta, ma destinata, come ben si sa, a trasformarsi e a crescere continuamente su se stessa, l’impianto era caratterizzato dal profilo spezzato delle tribune a diversa altezza corrispondenti alla tipologia cosiddetta “a segmento”, prima cioè delle parti di raccordo che configuravano l’immagine canonica della cavea racchiusa fra le linee tese ed ininterrotte degli spalti e che ne determinavano la peculiare forma compatta, autonoma e comprensibile ad un’unica occhiata.
Era questo, del resto – scriveva Giuseppe De Finetti – il dato più caratterizzante e ricco di possibilità espressive nell’architettura dello stadio, mentre San Siro rappresentava piuttosto la risposta a programmi semplificati e prudenti, non consapevoli delle potenzialità di attrazione di uno sport in rapidissima ascesa.
E’ d’altronde significativo che, nello stesso impianto, le necessità del calcio si incrociassero con quelle degli adiacenti ippodromi, adibendo gli spazi ricavati sotto gli spalti non solo a spogliatoi, docce, uffici direttivi, sala per gli arbitri e così via, ma anche a scuderie per cavalli, fienili, magazzini di foraggio, in rapporto diretto e quasi a sussidio di quelle attività che per prime avevano segnato il destino sportivo della zona.
Campo da football attento ai bisogni dell’ippica, San Siro venne ufficialmente inaugurato il 19 settembre 1926; nel 1927 ospitò la prima partita internazionale mentre nel 1934 fu teatro della semifinale dei Campionati del Mondo tra Italia ed Austria (col risultato di 1-0), raggiungendo la capienza massima di 40000 persone e confermandosi quindi come lo spazio cittadino di maggior richiamo popolare dello spettacolo sportivo.
Bisogna tuttavia sottolineare come negli stessi anni la casistica dell’architettura dello sport in Italia si fosse decisamente arricchita ed avesse sollecitato un’attenta riflessione progettuale testimoniata dal crescere di articoli a carattere generale e specialistico e dal maggiore spazio che il tema andava acquisendo sui manuali di architettura italiani e stranieri, da realizzazioni decisamente innovative (si pensi solo allo Stadio Berta di Firenze di Pierluigi Nervi). Tutto questo in contemporanea con la progressiva importanza acquisita dalle attività sportive non solo come occasione di spettacolo e di evasione, ma anche di “ortopedia” sociale, di rigenerazione fisica e morale e costruzione del consenso.
Sebbene San Siro, destinato a decine di migliaia di spettatori “non praticanti”, rientrasse meno di altre attrezzature nella mistica sportiva del regime, l’indubbio successo di pubblico, la rinomanza delle squadre ambrosiane e le previsioni urbanistiche per la zona fecero si che nel 1935 esso venisse acquistato dal Comune di Milano entrando a far parte della gamma di impianti sportivi ad interesse civico.
L’afflusso di pubblico al limite della tollerabilità, in occasione della già citata semifinale fra Italia ed Austria, aveva tuttavia segnalato come San Siro abbisognasse di lavori per aumentarne la capienza. Al 10 settembre 1937 risale la delibera comunale per l’approvazione dell’ampliamento progettato dall’ingegner Giuseppe Bertera e dall’architetto Perlasca dell’Ufficio Tecnico Comunale; essi prevedevano sostanzialmente la sopraelevazione delle tribune di testa fino al livello delle tribune principali e la costruzione di quattro nuove tribune curve di raccordo fino a raggiungere la capienza di 60000-65000 persone.
Risistemato il parterre, costruiti ex novo i servizi per gli atleti, aumentati e razionalizzati gli accessi, il cantiere del nuovo stadio iniziava nel 1938 in periodo autarchico, tra le difficoltà dell’approvvigionamento di materiali, ma riusciva a concludersi l’anno seguente per l’appuntamento con la partita inaugurale con l’Inghilterra, terminata con un’onorevole pareggio: 2-2.
Fin dall’origine, San Siro fu uno stadio concepito e realizzato esclusivamente per il gioco del calcio: infatti è del tutto privo di altri spazi aggiuntivi o ausiliari – tipo pista di atletica o zone destinate ai lanci – predisposti per ospitare altri sport olimpici, e non è possibile utilizzarlo per altri sport di squadra all’aperto tipo il rugby o il baseball. Il pubblico può arrivare praticamente a ridosso del campo di gioco – originariamente non era nemmeno prevista una solida struttura che suddividesse fisicamente gli spettatori dal terreno di gara ma un semplice cordone divisorio facilmente valicabile – e questa carenza di spazio fra le tribune ed il campo renderà sempre impossibile ogni ipotesi di ristrutturazione rivolta ad un utilizzo polisportivo.
Ciò fu un tema forte in ogni successiva discussione riguardante le ristrutturazioni e l’ampliamento dell’impianto, in quanto si porrà sempre forte l’alternativa fra ristrutturazione in ampliamento oppure costruzione ex novo di uno stadio dotato di strutture idonee agli sport atletici. Inoltre, pur avendo al suo interno strutture all’avanguardia per il confort, l’assistenza sanitaria e la preparazione dei calciatori, lo stadio fu concepito come privo di una palestra interna idonea ad ospitare eventi sportivi, azzerando ogni possibilità di utilizzo polisportivo del complesso.
Finita la guerra, e con la ripresa dell’attività sportiva, si assistette ad un’esplosione dell’interesse per il calcio. In particolare, grazie all’attività di Umberto Trabattoni il Milan, dopo decenni di mediocrità, ritornò ad essere una squadra di vertice. Giovandosi dell’opera dirigenziale di Trabattoni e del suo staff, che si appoggiava per la parte relativa alla conduzione tecnica sul genero del presidente Antonio Busini, il Milan tornò nel 1951 a vincere il Campionato Italiano, alloro che gli sfuggiva dal lontano 1907.
Con il ridestarsi dell’interesse del calcio cittadino, che si giovava sulla presenza di due squadre ai vertici nazionali e che trovava il suo apice nel derby – la sfida stracittadina per eccellenza fra Inter e Milan – ormai tornato sia per l’andata che per il ritorno a San Siro, tornò a proporsi il problema della ridotta capienza dello stadio.
Il problema cominciò ad essere dibattuto dalle Amministrazioni Comunali a partire dal 1948, e la discussione si trascinò fino al 1953, dibattendosi fra le tre ipotesi di ampliamento dello Stadio San Siro, di quello della centralissima e monumentale Arena Civica e quella della costruzione di un nuovo stadio in cui fosse possibile prevedere un’impiantistica idonea alla disputa anche di discipline atletiche in vista di una possibile candidatura olimpica di Milano. L’ipotesi della costruzione di un nuovo stadio, a sua volta, presentava le ulteriori alternative della costruzione di un nuovo stadio a breve distanza dallo stadio esistente e quella di una locazione in zona completamente diversa.
L’ipotesi dell’ampliamento di San Siro fu caldeggiata principalmente dalle amministrazioni in carica, mentre le opposizioni di sinistra propendevano per un impianto totalmente nuovo. Diversa fu la posizione delle società calcistiche del Milan e dell’Inter, che avevano in Consiglio Comunale il citato direttore sportivo del Milan Antonio Busini, che si fece portavoce nel corso del dibattito del loro orientamento favorevole ad una ristrutturazione radicale dell’antica, monumentale ma centralissima Arena Civica.
Alla fine, in ottemperanza del mandato ricevuto dal Consiglio Comunale, la Giunta, con deliberazione del 17 aprile 1953, provvide all’acquisto del progetto Calzolari-Ronca, Società Anonima Fondiaria Imprese Edili, per la cifra complessiva di 750.000.000 di lire pagabili in rate bimestrali dilazionate nel periodo di otto anni ed in relazione allo stato di avanzamento dei lavori. A conseguenza di tutto ciò, nel 1954-1955 un secondo ampliamento operò una trasformazione radicale, con l’innalzamento di un secondo anello di tribune sovrastante le tribune originarie.
Il progetto di ampliamento – studiato appunto dall’architetto Armando Ronca e dall’ingegner Ferruccio Calzolari per conto della Società Anonima Fondiaria Imprese Edili – sfruttava le strutture preesistenti che sostenevano un sistema di gradinate a sbalzo e una serie di rampe di accesso esterno.
In pratica, intorno al corpo dello stadio preesistente fu aggiunta una struttura elicoidale portante esterna al vecchio impianto, su cui vennero costruite a sbalzo le nuove gradinate che andavano così ad essere sovrapposte alle tribune esistenti, che venivano parzialmente coperte dalla balconata della tribuna sovrastante.
La nuova balconata andò a costituire il settore “Popolari”, il cui accesso aveva un prezzo inferiore del sottostante settore “Distinti” e della “Tribuna centrale numerata” che, contrariamente agli altri due settori il cui tagliando dava diritto al solo accesso e non ad uno specifico posto, aveva comodi posti riservati e dava la possibilità agli spettatori disposti a spendere di più di arrivare anche all’ultimo momento senza essere relegati agli ultimi posti disponibili, normalmente quelli con la peggiore visibilità sul campo, corrispondenti alle curve.
Furono inoltre previste una Tribuna d’Onore ed una adeguata Tribuna Stampa.
Così facendo, la parte nuova dello stadio venne a costituire una sorta di scatola-sarcofago che racchiuse la parte più vecchia, che però mantenne per intero la propria autonoma struttura e funzionalità.
Le rampe elicoidali di accesso alle nuove tribune rinnovarono così totalmente l’immagine architettonica dell’impianto, la cui capienza salì di nuovo a 100.000 spettatori; successivi provvedimenti ridussero la capienza massima a 80.000 spettatori circa, ma tale dato comprende anche i posti in piedi: in realtà si può calcolare il numero dei posti a sedere in circa 60.000.
Nel frattempo furono curati maggiormente i collegamenti con i mezzi pubblici, vero collo di bottiglia dell’impianto in quanto servito da una sola linea tranviaria, cui si pose rimedio creando nell’area antistante, insieme ad un grande parcheggio per le auto, un’area per il concentramento e l’attesa delle vetture tranviarie che, al termine della partita, avrebbero consentito un rapido sgombero dei tifosi. Un ulteriore aiuto ai collegamenti con i mezzi pubblici venne poi dalla Metropolitana Milanese, inaugurata il 1 novembre 1964, che con la sua fermata di Piazzale Lotto (che serviva e serve più direttamente anche gli altri impianti sportivi del Lido e del Palalido), consentiva ai tifosi di accedere allo stadio percorrendo a piedi Viale Caprilli che, come d’altra parte tutta la zona, nelle giornate di gara veniva chiuso al traffico veicolare.
Il primo impianto d’illuminazione dello Stadio San Siro è datato 1957, e fu il primo di questo genere in Italia a consentire di giocare partite anche in ore serali e notturne.
Su tale argomento c’è da dire che, mentre l’Internazionale non mostrò un particolare interesse alla possibilità di godere di un impianto di illuminazione, fu il Milan che si assunse l’onere di finanziare la costruzione dell’impianto anticipando la spesa di complessive lire 33.217.550 presso la ditta Buini & Grandi di Bologna installatrice e realizzatrice dell’impianto; tale somma fu progressivamente rimborsata all’AC Milan per il tramite dell’esenzione del pagamento dei diritti dovuti al Comune per le partite notturne fino ad avvenuta compensazione, mentre all’Internazionale per le partite notturne fu richiesto un sovrapprezzo pari al 3% dell’incasso. L’impianto di illuminazione fu inaugurato il 28 agosto 1957 nell’amichevole di lusso tra Milan (Campione d’Italia in carica) e Fiorentina (Campione d’Italia l’anno precedente), finita 4-0 per i padroni di casa. Nel 1967 venne invece montato il primo tabellone elettronico per la segnalazione di tempi e punteggio.
Nel 1986 il primo anello è stato interamente numerato con seggiolini colorati: rossi in tribuna centrale, arancio sul rettilineo opposto, verdi sotto la curva nord, blu sotto quella abitualmente occupata dagli ultrà milanisti (lato sud). In occasione della Coppa del Mondo del 1990, tenutosi in Italia e che comportò una ventata di lavori di ammodernamento degli stadi italiani, il Comune di Milano decise di dare inizio ad un ulteriore profondo rinnovamento dello stadio “Meazza”, dopo aver accantonato l’idea della costruzione di un nuovo impianto per motivi di costi e dei tempi ristretti a disposizione.
Il primo pensiero si rivolse alla progettazione di una soluzione avveniristica e architettonicamente sbalorditiva: la costruzione del terzo anello e della copertura di tutti i posti a sedere. Il progetto firmato dall’Architetto Giancarlo Ragazzi, dall’Architetto Enrico Hoffer e dall’Ingegnere Leo Finzi prevedeva sostegni autonomi, su cui appoggiare il nuovo anello, disposti attorno allo stadio esistente. Vengono così realizzate allo scopo, undici torri cilindriche in cemento armato che danno accesso alle gradinate, quattro di queste fungono da sostegno anche alle travi reticolari di copertura.
Ancora una volta il nuovo stadio venne concepito come una scatola sovrapposta alla struttura precedente. Una sorta di matrioska contenente, l’uno dentro l’altro, i due stadi precedenti, caratteristica pressoché unica nel panorama degli impianti sportivi mondiali e curioso esempio di riuso dell’esistente. Attualmente si vede chiaramente la vecchia struttura portante il secondo anello sottostante alla struttura ad undici pilastri che sorregge il terzo anello. La struttura del primo stadio (quello realizzato nel 1938-39), altrettanto, è tuttora visibile guardando verso l’interno dalla struttura elicoidale di accesso al secondo anello.
Per garantire il massimo del comfort agli spettatori tutti i seggiolini che vengono installati sono ergonomici, numerati e suddivisi cromaticamente in quattro settori. Gli 85.700 posti a sedere che ne risultano sono tutti coperti da lastre in policarbonato che garantiscono un maggior comfort agli spettatori. Venne realizzato un nuovo impianto di illuminazione ed un sistema di riscaldamento del manto erboso per tenere controllata costantemente la temperatura del terreno impedendo la formazione di ghiaccio. Tuttavia la tenuta del manto erboso, minato da un microclima risultato assolutamente non adatto al corretto attecchimento ed alla crescita dell’erba, sarà uno dei punti deboli dell’impianto nella sua ultima versione in quanto il campo sarà soggetto a fenomeni di rapida usura, e quindi risulterà molto spesso sconnesso rendendo necessarie continue rizollature del terreno.
L’8 giugno 1990, lo Stadio Meazza ospitò la partita di apertura dei Campionati del Mondo con Argentina-Camerun. Da allora, la “Scala del calcio” milanese ha ospitato e ospita, ogni domenica, le passioni di migliaia di tifosi. Nell’estate 2008, in seguito ai lavori di riqualificazione dello stadio per l’adeguamento della struttura agli standard Uefa, la capienza dello stadio è passata a 80.065 posti.
Attualmente lo stadio è costituito da 3 anelli. Ogni anello è diviso in 4 zone di diverso colore (colore dei seggiolini): arancione e rosso per i rettilinei, verde e blu per le curve. Unica eccezione è il terzo anello (quello più alto) nel quale manca il rettilineo arancione. La capienza dei 3 anelli è la seguente: 1° anello 28.124 posti, 2° anello 32.412posti, 3° anello 19.529 posti per un totale di 80.065 posti.

mercoledì 18 settembre 2019

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 18 settembre.
Il 18 settembre 1873 ebbe inizio il cosiddetto "Panico del 1873".
Il panico del 1873, noto anche come la Depressione del 1873, è stato un grande evento economico che ha colpito gli Stati Uniti e molti altri paesi in Europa, come la Germania, la Gran Bretagna e anche l’Austria. Questa crisi è durata per circa 6 anni (1873 – 1879). Ci sono diversi fattori che hanno portato a questo evento, primo dei quali la bancarotta dell'azienda "Jay Cooke and Company" .
Prima di andare sulle cause e il suo impatto in dettaglio, vediamo una sintesi in modo da avere un’idea di quello che è accaduto in realtà. Gli Stati Uniti si erano appena ripresi dalla guerra civile e il paese era ormai impegnato nella costruzione di grandi ferrovie. Negli anni tra il 1866 al 1873, erano stati posate circa 35.000 miglia di binari in tutto il continente. La situazione economica in USA era forte e nessuno si aspettava una crisi come questa. Queste  ferrovie furono costruite con denaro preso in prestito da diverse banche e industrie e tutti credevano che avrebbero realmente prosperato, visto che  questo era considerato come il settore non agricolo più importante finanziariamente. Ma i problemi sono sorti quando il mercato azionario di Vienna andò in crisi e una delle principali banche degli Stati Uniti, la Jay Cooke and Company di New York, fallì. I primi paesi ad essere colpiti da questa crisi sono stati l’Austria e gli Stati Uniti. L’attività delle ferrovie negli Stati Uniti, che era in piena espansione, ebbe un arresto, e metà delle attività di trasporto degli Stati Uniti venne colpita. Le persone erano senza lavoro, le aziende hanno iniziato a chiudere, l’istruzione ne soffrì e  il passaggio del governo dalle mani dei repubblicani a quelle dei democratici, sogno di riforma sociale degli afro-americani, divenne un'utopia.
Ci sono diversi fattori che hanno portato a questo disastro. Alcuni di questi fattori sono già stati discussi in precedenza in breve. Vediamo ora ciascuno di loro in dettaglio.
Nel mese di settembre 1873, la Jay Cooke & Company, che era un componente importante dell'establishment bancario in America, si trovò con milioni di dollari in titoli Northern Pacific Railway col valore azzerato a causa del suo fallimento, e questo a sua volta ha portato a una serie di questioni economiche. Il New York Stock Exchange (NYSE, la Borsa di New York) rimase chiusa per quasi 10 giorni. Diverse fabbriche chiusero a loro volta e la disoccupazione divenne un grosso problema. Infine il 18 settembre, la Jay Cooke stessa venne dichiarata fallita.
Un’altra causa è stata la legge sulla coniatura. L’impero tedesco, nel 1871, decise di cessare il conio dei Talleri, monete d’argento. Questo a sua volta ha portato ad una diminuzione della domanda di monete d’argento e a una conseguente pressione sul  valore di questo elemento prezioso. Una grande quantità di argento veniva estratta in USA e un calo della domanda di argento ovviamente influenzò la situazione economica. Da ciò venne introdotta  la legge sulla coniatura e questo atto ha cambiato la politica del paese verso l’argento.
Prima di introdurre questa legge, l’America coniava sia monete d'oro che d'argento, ma l’approvazione della legge ha fatto sì che l’America potesse solo coniare monete d’oro. Di conseguenza, il prezzo dell'argento scese a spirale verso il basso influenzando gli interessi dei minatori occidentali. Essi etichettarono la legge come Il crimine del 73. Venne ridotta l’offerta di moneta, che a sua volta colpì i contadini e tutti coloro che erano in debito, e alcuni investitori iniziarono a fuggire dalle obbligazioni a lungo termine.
Oltre agli Stati Uniti, ci furono altri paesi europei profondamente colpiti dalla crisi. Prima che la società Jay Cooke fallisse, nel mese di giugno 1873, il mercato azionario di Vienna si bloccò e questo portò ad una serie di ricadute nei mercati di Germania, Gran Bretagna e nel resto d’Europa. Negli Stati Uniti, oltre alla Jay Cooke, diverse altre banche e fabbriche cominciarono a chiudere. I salari si ridussero, i lavoratori vennero licenziati dai loro posti di lavoro, molte persone divennero disoccupate, un gran numero di compagnie ferroviarie andarono in bancarotta e si ebbe persino un calo del mercato  immobiliare. I sindacati delle ferrovie americane entrarono in sciopero nel 1877 (il grande sciopero delle Ferrovie) e i treni si fermarono ovunque.
La crisi economica portò la gente a rivoltarsi contro il governo repubblicano, che a quel tempo era guidato dal presidente Ulysses S. Grant. Si rivolsero ai democratici per chiedere aiuto. I neri del Sud furono quelli che hanno sofferto di più. I nordisti, preoccupati della propria condizione economica, ebbero meno a cuore i diritti degli afro americani. Le organizzazioni soppresse come il Ku Klux Klan, ripresero le loro campagne di terrore contro gli  afro-americani. A causa della crisi, i bianchi del Sud stavano già riprendendo il controllo.
La crisi ha prevalso per circa 6 anni, fino al 1879. Poi, con grande difficoltà il popolo d’America e quello europeo vennero fuori da questa depressione.

martedì 17 settembre 2019

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 17 settembre.
Il 17 settembre 1920 viene fondata la National Football League, o NFL.
Il football americano, la versione del rugby a stelle e strisce, nasce nel New Jersey, ufficialmente, il 6 novembre 1869, nella città di New Brunswick, quando ha luogo il primo match ufficiale di football. Le squadre sono due rappresentative universitarie: Rutgers e Princeton, e ad applaudirli, secondo le cronache dell’epoca, ci sono appena cento spettatori, unici testimoni oculari di un evento sportivo che assumerà una rilevanza storica.
Si tratta, in pratica, del primo di una serie di tre incontri tra le due squadre universitarie, che però non fu mai portato a termine. La prima partita venne vinta da Rutgers per 6-4, la seconda venne vinta da Princeton la quale poi, per il rifiuto degli avversari di disputare la cosiddetta “bella”, ossia la terza gara, si aggiudicò anche la vittoria della serie e, dunque, del minitorneo.
Ciò che gli americani ereditarono dalla London Football Association, sfruttandone alcune regole e facendo da sé per molte altre, fu solo un lontano parente del football americano moderno. Vero è che, dopo quelle due partite, questa nuova disciplina sportiva, seppur in modo disorganico, si diffuse ampiamente, sempre esclusivamente nei college statunitensi, soprattutto del circondario di Boston. Le prime vere riunioni tra allenatori, giocatori e dirigenti avvennero intorno al 1873, con il fine di studiare un testo unico che avesse un regolamento dettagliato e preciso.
Con tutta probabilità, sebbene il rugby o, quanto meno, una versione ancora primitiva di questo sport si praticasse già a livello dilettantistico in molti college americani, sin dagli anni ’20 e ’30 dell’Ottocento, va a Princeton il merito di aver posto le basi del futuro football americano. Fu un gruppo di studenti di questa università infatti, a far diffondere di campus in campus un gioco semplice ed efficace, consistente nel fare avanzare la palla oltre gli avversari, tanto con le mani che con i piedi, con tanto di corpo a corpo, in uno scontro di forza basato essenzialmente sul gioco di squadra. Le regole, in breve, erano sostanzialmente queste.
La palla, il primo esemplare moderno, per così dire, realizzato sulla forma di un grosso uovo, compare e si diffonde grazie agli studenti di Harvard e al lancio di quella che diventerà una vera e propria tradizione: ogni primo lunedì di ogni anno accademico, le matricole e i veterani dell’università si scontrano in una partita quasi all’ultimo sangue, tanto che l’evento è diventato una sorta di macabro appuntamento fisso, fino da farsi conoscere anche fuori dai confini accademici con l’irriguardosa espressione del “Lunedì di sangue”. Anche a Boston, questa pratica cominciò a diffondersi, prendendo piede a partire dal 1860.
Finita la Guerra Civile americana, dal 1865 in poi, molti college hanno preso ad organizzare partite interne di football, favorendone la diffusione. Princeton, ancora una volta, ha aperto la strada, fissando le prime, basilari, regole di gioco.
La prima storica partita, come detto tra Princeton e Rutgers, si tenne in un campo di gioco nettamente differente, per dimensioni, da quelli sanciti successivamente dai regolamenti federali, e fissati sulle 100 yards di lunghezza e 53,5 di larghezza. Il match si giocò su un campo lungo 120 yards e largo 75, dunque ben più grande. D’altronde, i giocatori in campo all’inizio erano 50, ben 25 contro 25. Ogni segnatura dava un punto di punteggio e ogni volta che si faceva meta, bisognava invertire il campo. Si vinceva al meglio dei 10 punti (chiamati “game”) e, cosa che dimostra ancor di più quanto fosse rudimentale all’inizio il football, la stessa palla poteva essere colpita con piedi, mani o testa.
I giocatori poi, non conoscevano falli e placcaggi regolari o meno: tutto, nella pratica, era possibile. Si trattava, in un certo senso, di una sorta di sintesi primitiva del rugby e del calcio europei, in una versione tutta americana, privilegiando soprattutto l’aspetto aggressivo, fisico, corporale.
Per quasi dieci anni questa riduzione, per così dire, continuò ad essere praticata, finché gli americani, e i loro college, non scelsero definitivamente di accostarsi al rugby, di fatto facendo fuori il calcio. Anche le regole, da quel momento, divennero più chiare e meglio assimilate a quelle dell’altro antico sport nato in Inghilterra, anch’esso praticato con la cosiddetta palla ovale.
Il 1873 è un altro anno cardine nella storia di questo sport tanto amato dagli americani, il quale verso la fine del XX secolo diventerà il primo sport degli States, quello più seguito e spettacolarizzato tramite i mezzi di informazione, in grado di mobilitare stelle dello spettacolo e di incollare davanti gli schermi televisivi, per una finale, milioni e milioni di persone in tutto il mondo.
Ad ogni modo, accade che quell’anno i rappresentanti di Columbia, Rutgers, Princeton e Yale decidano di incontrarsi a New York City, con il fine di mettere definitivamente nero su bianco una serie di regole ben codificate, oltre che per stabilire un vero e proprio campionato intercollegiale di football. Queste quattro squadre pertanto, hanno finito per istituire un’associazione, la “Intercollegiate Football”, fissando a 15 giocatori, come nel rugby europeo, il numero massimo di elementi ammessi per team durante una partita.
A dare una svolta importantissima, facendo in modo che il football americano si distaccasse definitivamente dal rugby europeo, fu Walter Camp, un allenatore di stanza a Yale, il quale dal 1880 introdusse la regola dello schieramento, detto “scrimmage”, fondamentale per iniziare ogni azione di gioco. Tre anni dopo, il distacco fu completo, con la riduzione del numero di 11 giocatori per ogni squadra.
Intanto, già dall’anno prima, molte squadre di molti stati americani avevano dato vita alle prime società professionistiche di football, data la popolarità che il nuovo sport andava acquisendo tra la gente. In questo stesso periodo, si ebbe anche il primo, vero campione di football: Jim Thorpe, il quale era noto al grande pubblico sportivo anche per essere stato un pluricampione olimpico di atletica e un grande giocatore di baseball.
Sarà proprio lui, il 17 settembre 1920, a fondare la moderna National Football League (N.F.L.), fissando le ultime regole di gioco (come la possibilità di lanciare la palla in avanti, una delle regole maggiormente vietate nel rugby e che segnano la grande differenza tra questi due sport), con il fine di ridurre gli aspetti violenti di questa nuova disciplina sportiva, la quale solo nel 1905 portò alla morte di ben 18 atleti e al ferimento di altri 150, con tanto di denuncia da parte del Congresso del Governo americano, il quale chiamò in causa direttamente il Presidente Roosevelt.
A partire dal 1903 infine, si ebbero i primi veri stadi, con la costruzione dell’impianto di Harvard, ancora oggi tra i più grandi d’America e uno dei primi ad essere eretto per poter ospitare migliaia di tifosi. La capienza di molti altri stadi, sulla scia di Harvard, da quel momento cominciò ad aggirarsi stabilmente sui cento mila posti.

lunedì 16 settembre 2019

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 16 settembre.
Il 16 settembre 1599 viene bruciato sul rogo, a Roma in Campo de' Fiori, Fra Celestino.
Figlio di Lattanzio Arrigoni da Verona, il suo vero nome era Giovanni Antonio. Non conosciamo né la data di nascita né quella del suo ingresso nell'Ordine francescano dei frati minori cappuccini. Sappiamo soltanto che fu chierico professo e suddiacono; cioè non raggiunse che gli ordini minori.
Nel 1587 subì il primo processo per causa di eresia davanti al tribunale dell'Inquisizione romana e abiurò "de vehementi" (il 17 febbraio) le opinioni che aveva professato e di cui era stato accusato: opinioni intorno alle quali non abbiamo però alcuna notizia. Qualche anno dopo, per una "pretensa reincidentia in haereses", fu arrestato e incarcerato, probabilmente a Verona; quindi venne sottoposto a un nuovo procedimento da parte del S. Uffizio di Venezia. Nella prigione di S. Domenico di Castello, dove restò incarcerato a disposizione dell'inquisitore all'incirca dal settembre del 1592 fino al successivo mese di settembre del 1593, incontrò Giordano Bruno ed ebbe modo di conversare con lui in materia di religione.
Dopo che la Congregazione romana del S. Uffizio, visti gli atti definitivi del processo veneziano cui era stato sottoposto, gli decretò il soggiorno obbligato in un convento del suo Ordine posto nel territorio dello Stato della Chiesa, Celestino presentò una particolareggiata denuncia delle opinioni religiose espresse dal Bruno durante la comune detenzione veneziana.
Sembra che sospettasse (o accusasse) il suo compagno di prigionia di una delazione calunniosa e volle perciò mettere per iscritto il proprio resoconto del punto di vista del Bruno sulle dottrine cattoliche. Ma è evidentemente del tutto improbabile che il Bruno abbia denunciato Celestino. Nell'andamento della vicenda si riconosce infatti piuttosto chiaramente l'uso di uno dei principali stratagemmi inquisitoriali al fine di estorcere delle notizie più dettagliate su di un imputato il quale non "collaborava" con i giudici nella ricerca della "verità". Il frate citò anche, come testimoni oculari, tre persone che erano state presenti alle loro conversazioni perché detenute contemporaneamente insieme a lui e al Bruno a Venezia. Su questa nuova base offertagli dal frate l'inquisitore veneziano - che si trovava ormai di fronte a una fase di stallo del processo bruniano, non avendo trovato elementi concreti per farlo proseguire malgrado la espressa necessità "romana" di doverlo continuare - fu costretto a procedere agli interrogatori dei testimoni citati e a verificare la fondatezza delle rivelazioni di frate Celestino, che fece aprire così un'altra fase dell'inchiesta giudiziaria a carico del Bruno. Da notare che il memoriale presentato al S. Uffizio, pur facendo esclusivo riferimento a delle conversazioni in materia di fede tra due interlocutori, non riporta mai l'opinione religiosa o la posizione dottrinale tenuta da Celestino. Non abbiamo quindi alcuna possibilità di ricostruire i termini reali dell'eterodossia del frate cappuccino, che sembra aver steso il documento come se non vi fosse stato coinvolto.
Nell'anno 1599 Celestino risulta essere a San Severino Marche, cioè ancora presente nel territorio ecclesiastico. Di qui inviò, il 6 maggio, una autodenuncia alla Congregazione del S. Ufficio e chiese di poter essere convocato dal tribunale romano.
Si tratta di un'azione clamorosa (di cui però non si riesce a decifrare le determinazioni e a ricostruire i contorni) che acquista un senso solo se letta insieme all'andamento del processo bruniano giunto alla sua fase conclusiva. La difficoltà di orientamento è poi ulteriormente accresciuta dal fatto che il contenuto di questo secondo memoriale ci è rimasto ignoto. Sappiamo soltanto che i cardinali preposti all'Inquisizione risposero, con una lettera datata il 3 di giugno, "quod veniat ad sanctum officium et deponat quae sibi occurrunt".
Nel frattempo l'inquisitore veneziano ricevette un'epistola anonima (scritta il 20 giugno) e ne trasmise una copia a Roma. Clemente VIII in persona, dubitando che sotto l'anonimato si potesse celare lo stesso Celestino, intervenne nella questione che si era aperta ordinando una perizia calligrafica sull'originale (comparatio scripturae) usando gli archivi dell'Ordine cappuccino e quelli dell'Inquisizione per appurare l'esattezza del sospetto.
Tra il 9 e l'11 luglio del 1599 Celestino, che si era recato a Roma su convocazione dell'Inquisizione, subì i primi due interrogatori. Il giorno 15 i costituti vennero letti per extensum ai membri della Congregazione del S. Uffizio romano, ai quali il pontefice ordinò il più rigoroso silenzio intorno a tutta la questione che coinvolgeva il frate. Il 5 agosto Clemente VIII comandò che venisse preparata la sentenza definitiva che venne conclusa il giorno 17 dello stesso mese. Il 19 Celestino presentò - così come prescriveva il formulario inquisitoriale - le proprie difese, che però non servirono a nulla (e non potevano servire a nulla) essendo egli "caduto" nell'eresia ormai due volte. Venne infatti condannato come "relapsus". Ma quello che importa maggiormente è il fatto che la sentenza aggiunge: "Impoenitens et pertinax haereticus". Il che significherebbe che egli non si era "piegato" all'abiura, ma aveva rivendicato come propria l'opinione della quale si era accusato.
La più assoluta mancanza di pubblicità, ordinata dal pontefice, fece perfino infrangere alcune tradizionali regole di comportamento relative al supplizio. Emanata infatti la sentenza ufficiale il 24 di agosto, essa non venne letta davanti a tutto il popolo radunato come di consueto, ma fu pronunciata in gran segreto all'interno della sede del tribunale. Il condannato poi non venne consegnato, infrangendo un'altra norma della tradizione, nelle mani del potere secolare, cioè al governatore della città, e nemmeno venne incarcerato in Tor di Nona. Fu lasciato invece nel palmo dell'Inquisizione, dove alcuni teologi esperti dell'arte di far abiurare (cappuccini, domenicani, gesuiti) compirono numerosi tentativi al fine di ottenere una riduzione in extremis alla fede cattolica.
Infine, portato direttamente "ad locum iustitiae", non essendosi concluso nulla di positivo nel tentativo di conversione del "relapsus", Celestino fu bruciato vivo, nella notte (o "a punto su l'alba") del 16 settembre 1599, "legato a un palo, ignudo", e restò "ostinatissimo" fino alla fine, secondo quanto recitano gli atti dei "confortatori" della Compagnia di S. Giovanni decollato.
L'unica informazione sull'eresia di frate Celestino trapelata all'esterno del tribunale proviene da una lettera dell'ambasciatore mediceo residente a Roma, Francesco Maria Vialardi, che scrisse al granduca di Toscana un breve resoconto dell'avvenimento con un messaggio del 27 settembre. Risulterebbe che questo "huomo scelleratissimo" sosteneva l'dea che Gesù Cristo "non ha redento il genere humano". Si tratta di una tesi radicale che era ampiamente circolata negli ambienti più eterodossi della diaspora ereticale italiana in Svizzera fin dai tempi di Bernardino Ochino ed era confluita - con diverse motivazioni dottrinali e diversi esiti pratici - sia nella teologia sociniana che in quella bruniana. Secondo lo Spini, che ha notato la vicinanza con questa ultima posizione, potrebbe trattarsi di dottrine di "sapore anticristiano" non del tutto dissimili da quelle imputate al Bruno. Dagli altri due "avvisi" diplomatici, che ci sono noti attraverso le ricerche archivistiche dell'Amabile, non si ricavano ulteriori informazioni sulla cristologia di Celestino. I dispacci ritrovati si limitano infatti a segnalare semplicemente che il suo "peccato" era quello di essere - "heretico formale ostinato" oppure a dire, ancor più genericamente, che egli era "perfido heretico". Insistono ambedue solo sul fatto (che non si sa bene come valutare) che Celestino non sarebbe stato veramente un religioso regolare ma un travestito: "Se bene non era religioso da sé si haveva preso il detto abito"; "Fingendosi religioso era perfido heretico". Interessante poi la notizia secondo la quale Celestino "fu abbruggiato così di notte perché l'ambasciatore francese non vuole che avanti al suo palazzo si faccino simili giustitie, non perché non voglia che si castigano gli heretici, come dicono suoi malevoli, ma per non sentir né veder quello horrore".
L'Amabile (1882) propose, con cautela, di identificare frate Celestino con quell'anonimo "fuggitivo hebraizante" che a Padova disputò "de fide" con Tommaso Campanella e venne poi incarcerato a Verona. Il Mercati ritenne di poter dare maggiore fondamento storico a questa ipotesi accogliendola nella sua ricerca. Ma il Firpo ha fatto definitivamente cadere la tesi proposta dall'Amabile e difesa dal Mercati con l'argomento che la disputa padovana del Campanella avvenne quando già frate Celestino era prigioniero dell'Inquisizione veneziana ed era quindi nella più assoluta impossibilità di parteciparvi.

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