Buongiorno, oggi è il 18 aprile.
Il 18 aprile 1942 gli americani compirono il cosiddetto "Raid di Dooliddle" su Tokyo, come risposta all'attacco a Pearl Harbour.
L’8 dicembre 1941 furono sufficienti sei minuti e mezzo al presidente Franklin Delano Roosevelt per pronunciare davanti ai deputati americani uno dei più importanti discorsi della storia.
Poche ore prima – il 7 dicembre, “una data che vivrà nell’infamia” – gli aerei giapponesi avevano attaccato la base americana di Pearl Harbour senza il preavviso di una dichiarazione formale di guerra.
«Non importa quanto impiegheremo a sconfiggere questa invasione premeditata, il popolo americano nella sua giusta potenza prevarrà con una vittoria assoluta»: Roosevelt non aveva dubbi e nemmeno i deputati che approvarono tutti lo stato di guerra, ad eccezione di Jeannette Rankin, repubblicana e pacifista.
I militari furono chiamati a reagire con energia ed immediatezza: il paese era travolto dall’indignazione, ma contemporaneamente pervaso da un senso di impotenza che comprometteva la sua capacità di reazione e la fiducia in se stesso. Occorreva una scossa spettacolare che certificasse agli americani, al Giappone e al Mondo, il risveglio terribile del gigante addormentato.
Tra le tante proposte, quella scelta era contemporaneamente molto rischiosa e al massimo consentiva un successo di immagine: bombardare il Giappone. La portaerei Hornet, scortata dalla Enterprise – miracolosamente sopravvissuta al disastro di Pearl Harbour – e da una piccola flotta, avrebbe condotto una squadriglia di bombardieri a distanza utile per colpire Tokyio e altre città giapponesi.
L’industria aeronautica americana aveva da poco prodotto, vantaggi dell’iniziativa privata, l’NA-40, un velivolo che con le opportune modifiche divenne il bombardiere B-25. Nonostante un sostanziale aumento di autonomia rispetto ad altri modelli, furono necessarie ulteriori migliorie per conferire ai 16 velivoli stipabili su una portaerei come la Hornet, il raggio d’azione necessario a raggiungere il Giappone: mai sufficiente, comunque, a ritornare indietro, per cui fu previsto che gli aerei avrebbero proseguito a ovest atterrando sul continente. Dopo un irremovibile rifiuto sovietico a prestare a questo scopo i propri campi di aviazione in SIberia, la scelta cadde inevitabilmente sulla Cina, vincendo la resistenza di Chiang Kai-shek che temeva ritorsioni da parte giapponese.
I danni materiali provocabili da 16 bombardieri sarebbero stati risibili e meramente dimostrativi, mentre al contrario nell’eventualità di un avvistamento anticipato, il convoglio avrebbe potuto essere completamente distrutto da un contrattaccco giapponese.
Puntualmente, un’imbarcazione nipponica di vedetta intercettò la spedizione e, nonostante venisse immediatamente affondata, riuscì a mettere in guardia via radio il proprio comando. Non rimaneva altro da fare che accelerare i tempi e i bombardieri americani presero il volo 10 ore prima e 320 kilometri più lontano dal Giappone di quanto preventivato, compromettendo la possibilità di atterrare nelle piste predisposte.
Il tenente colonnello James H. Doolittle, comandante della squadriglia, il 18 aprile 1942 fu il primo a decollare dal ponte della Hornet seguito dagli altri, mentre la flotta tornava alle proprie basi abbandonandoli al proprio destino. I giapponesi erano allertati, ma decisero di assumere altre informazioni prima di dare la caccia al convoglio, perdendo in questo modo ogni speranza di intercettarlo.
Giunti sui bersagli previsti, Doolittle e i suoi sganciarono il proprio carico: ne fecero le spese qualche installazione e qualche fabbrica militare e 50 civili, che morirono sotto le bombe. Nessuno dei velivoli americani fu abbattuto dalla contraerea giapponese: si schiantarono tutti quando giunsero in Cina o in Siberia con i serbatoi vuoti, convincendo Doolittle che in patria lo attendeva una corte marziale.
Fortunatamente per lui si sbagliava: la notizia del bombardamento era ciò di cui l’America aveva bisogno e l’entusiasmo popolare salì alle stelle. Promosso e decorato, divenne l’eroe di manifesti che invitavano gli operai ad impegnarsi nel lavoro in suo nome: “Do it for Doolittle!”, ai quali i giapponesi risposero con altri giochi di parole: “Doolittle do little”: Doolittle ha fatto poco.
Ma Doolittle aveva veramente cambiato il corso della guerra. Le Forze armate giapponesi si erano dimostrate incapaci di assolvere il loro più alto compito: proteggere la vita dell’imperatore. Gli americani avevano cavallerescamente deciso che la residenza imperiale, un facile bersaglio al centro di Tokyo, dovesse essere risparmiata, ma era evidente che la vita dell’imperatore era stata a loro disposizione.
Unico modo di proteggerla era quello di allontanare ulteriormente ad est gli americani: il fulcro dell’attenzione nelle strategie giapponesi fu spostato dall’espansione sud orientale, che doveva inserire un cuneo tra gli USA e i suoi alleati anglo-australiani, a un’attacco nel Pacifico centrale, contro Midway, estrema propaggine della potenza americana, la battaglia che avrebbe consegnato il Pacifico alla US Navy e con esso le condizioni per la “vittoria assoluta” prevista da Roosevelt.
In attesa di questa resa dei conti, la vendetta giapponese colpì la Cina, rea di aver “prestato” il proprio suolo al raid di Doolittle: 250.000 cinesi vennero assassinati nelle rappresaglie.
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