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giovedì 28 maggio 2020

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 28 maggio.
Il 28 maggio del 1974 scoppia una bomba a Brescia, in piazza della Loggia. L’ordigno era stato nascosto dentro un cestino dei rifiuti, poco distante da una manifestazione antifascista indetta dai sindacati. L’esplosione uccide otto persone e ne ferisce centodue.
Non si può giudicare efficacemente la strage di Brescia senza tenere conto del paese in cui eravamo. Erano sì gli anni della strategia della tensione, certo. Ma era forse anche qualcosa in più: persino nei casini di quegli anni, il 1974 non è come il 1973 o il 1975. “Fu un terribile anno per la nostra Repubblica”, scrive Corrado Stajano sul Corriere. La fase dei governi di centrosinistra era in corso di esaurimento: di lì a pochissimo tempo sarebbero iniziati i governi di solidarietà nazionale e il progressivo coinvolgimento del PCI nelle maggioranze parlamentari. Erano quindi anni di grande instabilità politica. Il 12 maggio, due settimane prima della strage, gli italiani avevano bocciato il referendum abrogativo della legge sul divorzio. Il 4 agosto ci sarà la strage sul treno Italicus, in provincia di Bologna: dodici morti. Sempre quell’estate verrà alla luce il tentato golpe della “Rosa dei venti”, e gli stati maggiori di alcuni corpi d’armata saranno trasferiti proprio nel timore che potessero parteciparvi. Poi l’altro tentativo di golpe, quello di Edgardo Sogno.
Dicevamo però del 28 maggio. “La bomba del 28 maggio”, scrive Benedetta Tobagi su Repubblica, “colpì al cuore una manifestazione antifascista indetta per protestare contro una serie di attentati di marca fascista, culminati nella morte del giovanissimo terrorista di destra Silvio Ferrari, ucciso dall’esplosivo che lui stesso stava trasportando in motorino nel centro di Brescia, a Piazza del Mercato”.
Si aprono le indagini e, come spesso accade in questi casi, inizialmente vanno molto rapide. Nel 1979 alcuni esponenti dell’estrema destra bresciana vengono condannati perché considerati responsabili dell’attentato. Vanno in carcere, in attesa della condanna d’appello, ed è in carcere che uno di questi, Ermanno Buzzi, viene ucciso da altri due detenuti vicini all’estrema destra. Lo uccidono male: lo strangolano con i lacci delle scarpe, gli schiacciano gli occhi. Ermanno Buzzi era la figura chiave dell’intero processo, e muore non appena viene trasferito nel carcere speciale di Novara, alla vigilia del processo di appello. Che comincia nel 1981 e un anno dopo assolve gli imputati. Un anno dopo ancora, nel 1983, la Cassazione annulla le assoluzioni. Si fa un nuovo processo di appello, quindi, e gli imputati vengono nuovamente assolti. E stavolta la Cassazione conferma le assoluzioni. Siamo nel 1985.
Un anno prima era stato aperto un nuovo filone delle indagini, a causa delle rivelazioni di alcuni pentiti. Stavolta il principale imputato è Cesare Ferri, estremista di destra del gruppo di Ordine Nuovo e accusato anche dalla testimonianza di un prete che dice di averlo visto nei paraggi di piazza della Loggia il 28 maggio. Poi l’inchiesta si allarga e coinvolge tutta Ordine Nuovo, la stessa organizzazione neofascista che sarà ritenuta responsabile della strage di piazza Fontana, a Milano. Insieme a Ordine Nuovo è coinvolto anche il cosiddetto gruppo della Fenice, altra organizzazione eversiva. Vanno a processo Cesare Ferri e il suo amico Alessandro Stepanoff, che gli aveva fornito un alibi. Saranno entrambi assolti, prima con formula dubitativa e poi, nel 1989, con formula piena in appello e in Cassazione.
Le inchieste e le condanne sono complicate perché praticamente si basano solo su parole, testimonianze. Che possono essere contraddittorie, che possono essere ritrattate, che possono sparire. Di prove fattuali ce ne sono pochissime, e non per caso. Per fare l’esempio più clamoroso: due ore dopo la strage qualcuno -- qualcuno che non si riesce a scoprire chi -- impartisce ai pompieri l’ordine di ripulire con le autopompe il luogo dell’esplosione, cancellando tutto. Impronte, oggetti, reperti: tutto. Spariscono dall’ospedale anche i reperti prelevati dai corpi dei morti e dei feriti, che avrebbero potuto dire molto sulla fattura dell’ordigno. Poi c’è il ruolo di Maurizio Tramonte, giovane militante del Movimento Sociale Italiano e di Ordine Nuovo che faceva da informatore per i servizi segreti (lo chiamavano “fonte Tritone”). Le sue rivelazioni e le sue informazioni passate ai servizi segreti saranno fondamentali per l’apertura del terzo processo, anche se finirà lui stesso accusato di aver partecipato alla strage. Il giudice istruttore dirà che questi elementi sono l’ulteriore ”riprova, se mai ve ne fosse bisogno, dell’esistenza e costante operatività di una rete di protezione pronta a scattare in qualunque momento e in qualunque luogo”.
Nel 2008 si apre un terzo processo. Il primo grado si è concluso con l’assoluzione per tutti gli imputati: questo vuol dire che comunque non è ancora finita, e ci sarà il ricorso in appello. Gli imputati stavolta sono Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi, Maurizio Tramonte, Pino Rauti, Francesco Delfino, Giovanni Maifredi. Di Maurizio Tramonte abbiamo detto: insieme a Maggi e Zorzi facevano parte di Ordine Nuovo, di cui Rauti era il fondatore. Delfino è un ex generale dei carabinieri, responsabile del nucleo investigativo ai tempi della strage. Giovanni Maifredi all’epoca della strage era un collaboratore dell’allora ministro degli interni Paolo Emilio Taviani. I procuratori avevano chiesto l’ergastolo per tutti gli imputati, con l’accusa di concorso in strage, eccetto che per Pino Rauti, per il quale era stata chiesta l’assoluzione per insufficienza di prove. Sono stati assolti tutti con formula dubitativa, una volta si diceva “insufficienza di prove”. L’impianto accusatorio salta anche perché quattro anni prima uno dei tre pentiti su cui si basava l’indagine, Carlo Digilio, muore a causa di un ictus. E perché l’altro, il Maurizio Tramonte di cui sopra, si rimangia tutto. Nelle veline che lui girava ai servizi segreti si parlava del coinvolgimento di Ordine Nuovo e dei militanti di estrema destra del Veneto, nella strage di Brescia. Il terzo pentito, Maurizio Siciliano, dirà cose molto contraddittorie.
Uno degli imputati, Delfo Zorzi, non vive più in Italia proprio dal 1974, poco dopo la strage di Brescia. Vive in Giappone, fa l’imprenditore, nel 1989 ha ottenuto la cittadinanza e ha cambiato nome. Oggi si chiama Hagen Roi e in ragione della sua cittadinanza giapponese non è estradabile. Durante i processi il suo avvocato è stato Gaetano Pecorella, giurista, deputato, consigliere e noto alleato di Silvio Berlusconi. Nel 2002 Gaetano Pecorella è accusato dalla procura di Brescia di aver pagato Maurizio Siciliano per ottenere una sua ritrattazione. A un certo punto, nel 2005, durante un’indagine che non ha niente a che fare con la strage di Brescia ma riguarda invece la compravendita dei diritti televisivi di Fininvest, i pm di Milano trovano tracce del pagamento di una piccola somma, eseguito da una società riconducibile a Fininvest e diretto a Martino Siciliano. Alla fine, però, i pm non riusciranno a provare l’esistenza di un tentativo di corruzione da parte di Pecorella, che nel 2009 sarà prosciolto dall’accusa.
Il 14 aprile 2012 la Corte d'Appello conferma l'assoluzione per tutti gli imputati, condannando le parti civili al rimborso delle spese processuali.
Il 21 febbraio 2014 la Corte di Cassazione annulla le assoluzioni di Maggi e Tramonte e conferma quelle di Zorzi e Delfino. Viene così istruito un nuovo processo d'appello contro Tramonti e Maggi.
Il 22 luglio 2015 Maurizio Tramonte e Carlo Maria Maggi vengono condannati, in appello, all'ergastolo.
Il 20 giugno 2017 la Corte di Cassazione conferma in via definitiva la condanna all'ergastolo inflitta a Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte. Dopo la condanna Tramonte ha cercato rifugio in Portogallo, ma è stato estradato in Italia.


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