In principio
Ce l'hanno spiegato fin da quando abbiamo cominciato a
mettere in riga le aste.
In principio ci sono i peggiori. Sunto di ogni male, lievito
di ogni violenza. Sui loro peccati si avvita la storia e si misura il passato.
Si chiamino Giuda o Pinochet, sono sempre un dolore necessario. Il profilo
oscuro della vita. Finché accade che ne incroci qualcuno sul tuo cammino. Lo
insegui, annusi le sue parole, ascolti le sue bugie. Alla fine ti accorgi che
il male è materia assai più complessa, senza molte evidenze, senza equazioni
risolte in punta di catechismo. E che, tutto sommato, persino i tiranni sono
personaggi incompiuti, votati alla crudeltà ma grotteschi fino alla bestemmia.
Così, ho pensato che in un tempo dedicato a eroi, poeti e
santi, per una volta valeva la pena raccontare loro, i cattivi ragazzi, gli
aguzzini, gli ultimi della storia. Quelli che hanno masticato il loro tempo
senza fingere mai buoni sentimenti. Li tiene insieme, in questo libro, una
geografia. Che è l'America Latina, ossia la terra più prossima a quella Sicilia
alla quale ogni nostra fantasia finisce disciplinatamente per tornare.
Li unisce anche una presunzione di scrittura. Che non
intende spiegare (chi furono, cosa fecero, quali colpe commisero), ma
semplicemente raccontare: un incontro, un odore, il ribrezzo di un pensiero, il
suono metallico di certe parole, una guapperia... Un libro di suoni smarriti,
di verbi lasciati a metà. Anche questo, in fondo, fa parte del mestiere del
male: mai dire, mai rivelare. Piuttosto, suggerire. Lasciando credere che ogni
cosa accaduta, ogni misfatto, ogni inutile ferocia siano solo brevi fatalità,
un soffio umido di scirocco sulla superficie della storia.
Questo libro è dedicato alla notte in cui Victor Jara non
cantò. La notte in cui gli mozzarono le mani, nella solitudine di baionette e
di cemento dello stadio di Santiago. La notte in cui gli tolsero la vita per
farne dono al generale Pinochet.
Da quel sangue sono trascorsi venticinque anni, un tempo
largo e lento che vale sempre la pena riepilogare. Se una virtù tiene insieme
le storie raccolte in queste pagine, è anzitutto quel nostro vecchio esercizio
chiamato memoria.
Santiago del Cile, estate 1973
E adesso ci si mette anche Isabel. Dura come un mulo,
Isabelita. Dice che non vuole andare via. Ha letto la morte negli occhi di suo
padre quando l'ha visto affacciato a una finestra del palazzo, con il mitra
puntato contro il cielo e l'elmetto di ferro in testa. Come un vecchio che
gioca alla guerra, come uno che ha già perduto. Tocca ad Arturo sottrarre
Isabel dalle braccia del presidente Allende, trascinarla verso la porta,
consegnarla a mani più robuste delle sue. Bisogna fare presto. Cinque minuti, ha
detto Pinochet, il tempo di far uscire le donne. Poi ricominceranno a sparare.
Tocca ad Arturo la contabilità di questa sconfitta. Armare
gli uomini rimasti, dividere i pochi fucili, assegnare a ciascuno lo stipite di
una finestra e un pezzo di cielo spiegando che la morte arriverà da lassù, dal
ventre dei caccia, dal grilletto di un aviatore, e dunque meglio tenere gli
occhi dentro quella striscia d'azzurro, un azzurro vasto come il cielo, pulito
come il cielo, peccato per questo settembre così tiepido, avrebbe saputo
riscaldare il petto, avrebbe addolcito le passioni, peccato che ci si sia messo
di mezzo quel prurito di generali, peccato d'ingenuità aver creduto ai loro
giuramenti, aver prestato ascolto alla loro fedeltà. E adesso tocca a lui,
Arturo Jiron, raccogliere le ultime paure di quei ragazzi che hanno scelto di
restare accanto al presidente, tocca a lui indicare a ogni moschetto il suo
quadrato di cielo.
Mestiere ingrato, quello di ministro della Repubblica nel
Cile di Allende. Ti capita di dover decifrare gli eventi anche per gli altri,
che fingono una speranza, che credono in una rivincita. Eppure basta solo
affacciarsi dal palazzo e raccogliere in uno sguardo la piazza chiusa dai carri
armati per capire che stavolta non sarà solo uno sfoggio di muscoli, un guizzo
di adrenalina come quel giorno in cui fecero marciare l'esercito sotto la
Moneda fino al tramonto. Adesso la piazza è diversa, un recinto di acciaio, un
silenzio che macina il cuore, che lacera gli occhi. È diversa anche l'attesa
che pesa su quel perimetro di uomini, sui fucili puntati in cerca di un ordine,
sui cuori offuscati, le dita ripiegate sull'acciaio del grilletto, una
disciplina di gesti e di odio come se non ci fosse più tempo per dire, per
correggere i rancori, come se nell'epilogo che sta per precipitare ci fosse
l'onesto sollievo di tutti, soldati, miliziani, governanti, comunisti,
colonnelli, figli, amici, generali, tutti uniti nell'ansia di farla finita, di
cercare la morte, di dare la morte e amen, per sempre amen, nei secoli amen,
tanto la storia ci dirà, ingoierà anche la nostra morte, digerirà la nostra
agonia senza un brivido di febbre, ci penserà la storia, signor presidente,
tenderà questi pensieri di fiele come un elastico, si accanirà su ogni parola,
la torcerà fino a spremerle ogni verità, la storia non perdona, signor
presidente, la storia non dimentica.
(Claudio Fava, “La notte in cui Victor non cantò”, ed.
Baldini & Castoldi, 1999, citazione tratta da http://www.wuz.it/archivio/cafeletterario.it/098/cafelib.htm
)
(immagine da http://bellissima893.blogspot.it/2012/08/11-de-septiembre-de-1973-chile.html
, immagini del golpe militare in Cile, 1973)
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