Sartre scrisse: “La vergogna, non è il sentimento di essere
questo o quell'oggetto criticabile; ma in generale di essere un oggetto, cioè
di riconoscermi in quell'essere degradato, dipendente e cristallizzato che io
sono per gli altri. La vergogna è il sentimento della caduta originale, non del
fatto che abbia commesso questo o quell'errore, ma semplicemente del fatto che
sono caduto nel mondo, in mezzo alle cose, e che ho bisogno della mediazione
d'altri per essere ciò che sono. Il pudore e, in particolare, il timore di essere
sorpreso in stato di nudità non sono che specificazioni simboliche della
vergogna originale: il corpo simbolizza qui la nostra oggettività senza difesa.
Vestirsi significa dissimulare la propria oggettività, reclamare il diritto di
vedere senza essere visto, cioè di essere puro soggetto. Per questo il simbolo
biologico della caduta, dopo il peccato originale, è il fatto che Adamo ed Eva
capiscono di essere nudi.”.
La parola vergogna dal latino vereor, significa
rispetto, timore, mentre il corrispettivo inglese, shame, si ricollega alla
radice indoeuropea kam, che significa nascondere, coprire; dunque l'uno mette
l'accento sulla motivazione scatenante,positiva:il senso di rispetto, l'altra
sull'azione conseguente, il nascondere, velare.
Dal punto di vista la vergogna viene descritta
come un improvviso e sgradevole senso di nudità, di sentirsi scoperti,
spogliati, smascherati, con il conseguente desiderio di sparire, di
sprofondare, di diventare invisibili, una sorta di profondo turbamento, di
disorientamento e di blocco dell'azione. Quando cade la maschera, ciò con cui
ci si tende a coprire l'immagine di sé, si diventa improvvisamente visibili
all'occhio esterno, alla vista degli altri ma anche alla propria. Ci si
percepisce nudi, esposti allo sguardo, visti per come si è e non si ci si
sarebbe voluti mostrare. Il corpo diventa il supporto da nascondere: la mimica
della vergogna lo esprime bene con i gesti di ripiegamento su se stessi,
l'abbassare gli occhi, il coprirsi la bocca e le altre parti del corpo, prime
fa tutte i genitali.
Il sentimento della vergogna è quindi connesso
non tanto a ciò che si fa o si è fatto, il che rimanderebbe di più alla colpa,
quanto a ciò che si è. A ciò che si è nella propria nudità.
Nel tempo ove il senso di vergogna culminò, il
secolo della regnante Vittoria, nell’immaginario occidentale i “selvaggi”si
presentavano nudi. Due secoli di etnografia e di documentari ci hano mostrato
tuttavia che nessuna popolazione è completamente nuda. Solo i bambini o gli
adulti in determinati contesti possono esserlo, per il resto il corpo non è mai
quello naturale ma sempre è decorato decorato scarnificato, rimodellato ai fini
di celarlo allo sguardo.
Ogni società stabilisce ciò che deve essere
coperto e ciò che può restare senza indumenti, sicuramente nella totalità dei
gruppi umani le parti del corpo da coprire sono gli organi genitali. Tuttavia
questo concetto è estremamente elastico. Se nella cultura occidentale è
considerata buona norma coprirsi il seno poiché correlato alla sfera della sessualità,
in molte culture africane il seno, connesso alla funzione dell'allattamento,
viene mostrato, mentre sono le cosce a dover restare. All’opposto in un'isola
del Gaeltacht (Irlanda), basta essere sorpresi senza calzini per provare un
forte sentimento di vergogna; gli isolani hanno orrore della nudità e per
questa ragione si lavano soltanto la faccia, il collo, le braccia, le mani e le
gambe sotto le ginocchia; molti si rifiutano di farsi visitare durante una
malattia per la paura di doversi spogliare, e persino la nudità degli animali
domestici (cani e gatti) parrebbe essere causa di angustie e imbarazzo,
soprattutto nel periodo dell'eccitamento sessuale.
E’ vero che dal Rinascimento in poi si è sempre
idealisticamente sottolineato il fatto che nella Grecia classica vigesse una
forte libertà nel presentarsi nudi in combattimento e durante le gesta
atletiche. In realtà il senso del pudore non era completamente svincolato dal
concetto di nudità, soltanto che quest'ultima veniva ammessa in determinate occasioni
e assumeva significati del tutto particolari.
Ad esempio i greci erano sinceri ammiratori del
pene dei fanciulli, purché questo fosse interamente ricoperto dal prepuzio.
Durante gli esercizi fisici solevano legarsi il prepuzio sulla parte anteriore,
in modo che non scivolasse inavvertitamente all'indietro. Un prepuzio corto era
segno di un'eccessiva attività sessuale e la nudità del glande era, secondo il
costume e i canoni estetici greci, riprovevole e imbarazzante. Tanto che a
partire dall'epoca in cui gli ebrei fecero ingresso nei ginnasi venne emanato
un provvedimento secondo il quale potevano partecipare ai giochi olimpici
unicamente quelli che si erano fatti nuovamente allungare il prepuzio.
Di nuovo il corpo non è il corpo ma l’idea del
corpo, il corpo nella sua verità rimane tabù a livello sociale, perchè il corpo
è innanzitutto un patrimonio sociale.
Fra i tangba del Benin settentrionale (Africa
occidentale) si fa esplicitamente ricorso alla nudità al fine di segnare
importanti distinzioni sociali.I sacerdoti della terra (boro-te), discendenti
dei clan autoctoni e primi occupanti delle colline sono soliti circolare
seminudi però sempre con l'immancabile pipa e un cappello rotondo di rafia
intrecciata. L’aumento dei vestiti o l’eliminazione dei cappelli e delle pipe
andrebbe incontro a rotture di tabù passabili di condanna a morte.
Gli stessi nudisti ritengono che la nudità sia
asessuale, svincolata dall'erotismo e utile per reprimere i bruti istinti
sessuali. Il nudismo non fu teorizzato come sfida anticonformistica alle
costrizioni della cultura dominante, ma come una pratica in grado di liberare
l'essere umano dai lacci degli istinti, uno strumento per ritrovare un rapporto
sano e naturale fra i due sessi, aspirando a una purezza non turbata
dall'eccitazione sessuale. Pertanto benché i nudisti ritengano che la nudità
sia svincolata dall'erotismo e che la vista reciproca dei corpi nudi inibisca
l'istinto sessuale, nei campi riservati in cui si riuniscono vige una precisa
autodisciplina nelle interazioni fra individui, nei gesti, nelle movenze e
soprattutto nello sguardo reciproco allo scopo di non favorire eccitamenti
sessuali. Occorre, infatti, mantenere lunghi contatti visivi, fissandosi
vicendevolmente nel viso onde evitare che lo sguardo cada sulle parti del corpo
maggiormente connesse alla sessualità. Inoltre, si assumono posizioni
convenienti, in particolare quando si resta seduti, al fine di evitare
sfacciate e imbarazzanti esibizioni. In altre parole si può essere socialmente
nudi a patto che nessuno ti guardi.
La civiltà di un individuo appartenente a una
cultura che non prevede l'uso di abiti risiede nello sfiorare la nudità con lo
sguardo senza soffermarsi e fissare.
Per capire quale sia stato il processo mentale
che ha portato a considerare la nudità assoluta (ben diversa da quella
parziale, mitigata dalla presenza di un perizoma o di altro) come condizione
saliente dell'essere umano, è necessario partire dalla constatazione che il
corpo umano costituisce un messaggio segnico, socialmente decodificabile. Ecco
perché presso i Dogon, essere nudi è essere senza parola: l'essere nudi
equivale a essere muti, cioè privi della possibilità di comunicare, e quindi
inesistenti; chi è nudo non può avere scambi sociali, è fuori dal contesto.
Questa concezione negativa della nudità era
comune anche a molte civiltà del passato. Nell'antico Egitto, il canone di
rappresentazione della figura umana prevedeva la presenza del gonnellino per
motivi tecnici, ma anche simbolici: infatti erano completamente nudi soltanto
gli schiavi e, soprattutto, i nemici.
Miticamente, nel racconto della Genesi, non si
stigmatizzava la nudità in quanto tale, dal momento che Adamo ed Eva vivevano
questa condizione anche prima di aver mangiato il frutto proibito dell'albero della
Conoscenza: la nudità proveniva da Dio e non poteva che avere valore positivo.
È Adamo che ne determinò la connotazione negativa nel momento stesso in cui
prese coscienza di essere nudo e se ne vergognò, misurando tutta la distanza
che lo separava, lui essere creato, dal suo Creatore nello scoprirsi nudo,
ovverosia limitato e caduco. Contemporaneamente la sua nudità fu origine della
riproduzione sessuale a cui entrambi i “progenitori” vennero condannati da Dio
stesso.
Il nudismo praticato intorno agli anni Trenta,
in Germania e in Inghilterra, ispirato alla liberazione dell'uomo fu
incorniciato dalle ideologie totalitaristiche le quali crearono un ideale
maschile che aveva sì le sue radici nel concetto greco di bellezza, ma si
colorava di rigidità morali e intransigenze razziali. D’altronde già nel 1816
per F.L. Jahn, uno dei teorici della ginnastica moderna, i patrioti tedeschi
dovevano essere "casti, puri, abili, impavidi, sinceri e pronti a
impugnare le armi". Solo in quell’ottica era concesso praticare il nudismo
come forma di affermazione dell’arianesimo inscindibile dalla castità o dallo
scopo riproduttivo al fine di propagare la razza.
Al contrario nella seconda parte del Novecento
dove la nudità sembra divenire più comune come esibizione estetica priva
d’intenti riproduttivi e genetici l’immagine trasmessa si orienta verso una
dissoluzione della figura umana nella rappresentazione del disfacimento
organico, dalla body art fino alla nascita del corpo postorganico che nulla
conserva del corpo nudo nella sua integrità. Al massimo il corpo nudo diviene
bidimensionale esposizione di perfezione plastica, priva di reale organicità
attraverso foto, cartelloni pubblicitari, carta patinata o video sfavillanti.
La corporeità del terzo millennio oscilla fra il
grottesco del pornografico e la plastificazione narcisistica.
Più che animale malato, per dirla alla Hegel,
l’uomo appare dunque animale mimetico in quanto unico animale che ha
abbandonato la sua natura in quanto troppo debole. Sprovvisto di mezzi propri l’uomo
ha provveduto ha imitare gli animali al fine di dominarli. L’imitazione, atto
culturale diviene così nell’uomo gesto fondante. Essere originali, essere nudi
è tornare ad uno stato animalesco, ma di animale privo di difese e pertanto
impaurito, nel senso primigenio di vergogna
I Rgveda vanno anche oltre, ipotizzando nei
tardi Satapatha Brahmana che l’uomo venne scorticato dagli dèi. Mitico testo di
tempi ancestrali i Rgveda, ribaltano completamente lo sguardo ed il rapporto
uomo animale. “Gli dèi dissero: la vacca sostiene tutto quaggiù, su mettiamo
sulla vacca quella pelle che sta sull’uomo, e così sarà in grado di sostenere
la pioggia e il freddo e il caldo. Di conseguenza, dopo aver scorticato l’uomo,
posero la sua pelle sulla vacca. Così l’uomo venne scorticato, perciò quando
anche un filo d’erba o qualcos’altro lo taglia, il sangue sgorga. Allora posero
quella pelle, la veste, su di lui e per questa ragione soltanto l’uomo indossa
una veste, perché gli è stata messa addosso come una pelle. Perciò occorre fare
attenzione a essere vestiti bene, in modo da poter essere totalmente rivestiti
di pelle. Perciò la gente ama vedere anche una persona brutta vestita bene,
perché è rivestita della propria pelle”.
Con icastica ferocia gli antichi vedici, avevano
smascherato il gioco. L’uomo è “naturale” quando è vestito, solo quando è
vestito, altrimenti è scorticato. Anche l’uomo brutto diviene visibile solo se
ben vestito. Altrimenti è uno scorticato pezzo dicarne come negli atlanti
cinquecenteschi che si aprono all’orrore anatomico.
L’essere totalmente nudi ci getta nella nostra
animalità originaria, animalità inguardabile. Non c’è cultura che permetta
nudità completa se non hai bambini o a situazioni contingentate dove l’eros può
essere controllato. Infatti, l’unico stato che permette la presenza della
nudità, dello stato originale è quello che contempla l’eros. La presenza del
dio della voluttà sospende l’orrore permettendo la congiunzione dei corpi e
l’eccitazione a questo gesto collegata. Ma l’eros anzi la copula è gesto
primigenio che accomuna con gli animali.
L’uomo nudo, completamente nudo è imbarazzato, è
vergognoso. Egli è disarmato, non ha una pelle per difendersi e anche un filo
d’erba può farlo sanguinare. Solo lo stato di eccitazione, la follia dell’eccitazione
può permettergli di apparire scorticato senza provare la paura connessa alla
vergogna.
Ma questa è la follia dell’eros. La medesima
follia che spinge il soldato ad affrontare i proiettili con voluttà, così come
il giovane spregiudicato che affronta il pericolo nel gesto sportivo affermando
così la propria baldanza erotica. E’ follia dell’incoscienza, è l’assenza di
consapevolezza, è la cecità di chi accecato non crede di esser visto e pertanto
non prova timore né vergogna.
Tuttavia la nudità è possibile anche nella
consapevolezza, nella pienezza della propria mente, senza sentirsi né
diminuito, né svergognato. Anzi lo stato di scorticamento è ricercato come atto
terminale e decisivo. E’ l’unica eccezione ma forse è anche la follia più
grande. Questo stato è permesso dallo sguardo della persona amata. Nello stato
dell’amore, che è differente dall’oblio dei sensi dato dalla concupiscenza, noi
possiamo stare nudi, dobbiamo essere nudi. Perché lo stato dettato dall’amore
perdona anzi desidera il nostro scorticamento.
La nudità è fonte di tale vergogna che anche
davanti al nostro stesso sguardo ci ritraiamo. Pochi sono coloro che scelgono
nella solitudine la nudità. Lo sguardo proveniente dal nostro occhio non è
benevolo, l’orrore del nostro corpo scorticato, è accettabile in pochi contesti
rituali: il bagno, il cambio d’abito, stati di transizione a cui siamo a mala
voglia soggetti. La carne esultante è permessa solo dalla follia dello sguardo
di chi ci ama, così come il nostro occhio può scrutare con lucida benevolenza
solo il corpo amato.
La nudità diviene allora offerta, sacrificio
all’amato, all’amata. Nudità sacrificale che implica l’assenza di ogni
ornamento, di qualsiasi copertura anche se pur minima. Nudità consacrata
dall’amore che diviene atto trasformativo che ci strappa, nella sua immensa
pietà, dallo stato animalesco alla vertigine della divinità. Si può essere
presi da bramosia dei sensi infagottati dalle vesti, impossibile è svelarsi
all’amata con gesto di devozione senza aver rinunciato ad ogni velo.
Cosa succede però se il corpo è stato
modificato? Se una protesi sotto cutanea ha modificato lo scorticato. Se il
naso, il seno, le grandi labbra, se i glutei, l’addome, non sono più carne ma
silice, meccanica protesi che veste lo scorticato? Lo sguardo si opacizza, o
meglio lo sguardo si posa su delle vesti, che simulano la carne ma che in
verità la rivestono, la coprono, la nascondono. Il sacrificio non avviene più,
l’ostensione si è velata. La chirurgia plastica nata per atto di pudore,
vestito che copre la bruttezza, diviene impedimento allo sguardo d’amore. La
trasformazione del corpo sotto la lama del bisturi cuce addosso un vestito
ineliminabile. Il corpo si cela e la pelle nuda diviene cotenna e cuoio come
quella donata alle vacche. Che permette di non tagliarsi con il semplice filo
d’erba dello sguardo altrui ma che forse impedisce la totale svestizione
sacrificale davanti all’oggetto amato. La scomparsa della vergogna del corpo
plastificato ha un prezzo: l’impossibilità della trasfigurazione del corpo che
opera lo sguardo di chi ci ama.
(Enrico Borla, testo inviatoci direttamente dall’autore –
Video di Ennio Foppiani, su http://www.youtube.com/watch?v=WmWoIIbYEgY )
(Immagine da agviaggi.it/viaggio.cfm?id=756
)
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