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Il 10 febbraio 1258 l'esercito mongolo conquista Baghdad e pone fine al califfato abbaside.
I Mongoli entrarono a Baghdad il 10 febbraio 1258. La “Città della Pace” venne rasa al suolo. Il saccheggio durò 7 giorni. I morti, secondo le fonti occidentali, arrivarono a 800.000. I cronisti arabi parlarono addirittura di 2 milioni di vittime. Insieme a Baghdad, venne spazzata via anche la dinastia degli Abbasidi, la più duratura del mondo medievale islamico, salita al potere nel 750, meno di 120 anni dopo la morte del profeta Maometto (570-632).
L’evento venne considerato dai musulmani come il più catastrofico nella storia dell’Islam. Cinquecento anni di storia, contrassegnati dal governo di 37 califfi, furono cancellati di colpo. La ferita causata da quegli avvenimenti rimase aperta per secoli.
Tanto che ancora nel 2002 Osama Bin Laden, il terrorista saudita fondatore di al-Qaida, in una registrazione captata dai servizi segreti americani, parlando dell’invasione Usa in Iraq nella prima Guerra del Golfo (1990-1991), paragonò il vicepresidente americano Dick Cheney e il segretario di Stato Colin Powell a Hülagü Khan, il comandante mongolo che nel XIII secolo guidò la devastazione di Baghdad.
Hülagü era uno dei nipoti del mitico Gengis Khan e fratello di Arig Bek, Munke e Kublai Khan.
Munke, Gran Khan dei Mongoli dal 1251 al 1258, gli ordinò di sottomettere tutti i regni musulmani ad ovest del suo impero, “fino ai confini dell’Egitto”.
Hülagü lasciò Qaraqorum nel maggio 1253, alla testa di un esercito imponente. Il più grande che si fosse mai visto: 120.000 soldati. In tutto il grande impero che dal Volga arrivava fino all’Oceano Pacifico, un guerriero ogni dieci, fu obbligato ad unirsi alla spedizione.
La marea di uomini e cavalieri raggiunse Samarcanda nel settembre del 1255. E presto tracimò nelle variegate terre della grande Persia.
Il primo stato a cadere fu il Luristan, scosceso territorio nel sud dell’attuale Iran, duemila chilometri più a est, tra i monti Zagros e la fertile Mesopotamia.
Subito dopo, Hülagü dirottò dodicimila uomini, guidati dal suo generale Kitbuga più a nord, per schiacciare e sottomettere la setta ismailita dei Nizariti, i famigerati “hashishiyyin”. Gli Assassini si erano asserragliati nei loro castelli e respinsero i primi, violentissimi attacchi. Così i Mongoli cambiarono in fretta strategia: occuparono le vie di comunicazione per tagliare i rifornimenti e prendere le munite fortezze per fame.
Hülagü voleva a tutti i costi la resa di Alamut: la fortificazione fu distrutta nel dicembre del 1256. Ma il Khan già pensava a Baghdad: i suoi messaggeri, a più riprese, chiesero al califfo abbaside al-Mustanṣir, di offrire le truppe musulmane ai Mongoli, in segno di sottomissione, per vincere definitivamente la guerra contro gli Assassini.
Il califfo era però convinto di resistere. Non si spaventò. Nicchiò, prese tempo: rispose con altri messaggi, cauti e sprezzanti, nelle quali l’alterigia del sovrano di una grande capitale si alternava all’orgoglio di chi era conscio di rappresentare una dinastia che dominava un mondo ancora potente e vastissimo.
La risposta degli Abbasidi fu affidata alle armi: i soldati del califfo scatenarono un attacco a sorpresa lungo le rive del Tigri ma vennero sconfitti e inseguiti fin sotto le mura di Baghdad.
Pochi giorni dopo l’assedio iniziò. Protetto da mezzo milione di soldati, al-Mustansir si preparò alla battaglia, invocando la collera di Allah contro gli invasori.
Nel frattempo, allo sterminato esercito di Hülagü si erano aggiunti almeno altri ventimila uomini. Cristiani e vassalli del Khan. Erano guidati dal re armeno di Cilicia, da molti nobili del regno di Georgia e dai cavalieri franchi del principato di Antiochia.
Hülagü dislocò i soldati tutto intorno alle mura, sia sulla riva occidentale che su quella orientale del Tigri per tenere sotto pressione la città in ogni suo lato.
Kuo Kan, il generale cinese dei Mongoli, fece costruire un ampio fossato e un’alta palizzata, sotto la quale quasi mille artiglieri e genieri spinsero macchine d’assedio e catapulte capaci di scagliare sostanze incendiarie a grande distanza.
Le dighe che regolavano le acque del fiume e l’approvvigionamento idrico vennero distrutte. I canali di irrigazione furono smantellati. Nuvole di fumo e centinaia di migliaia di frecce incendiarie oscurarono il cielo sopra la grande città.
I Mongoli riuscirono ad aprire una breccia e occuparono un largo tratto di mura. Baghdad capitolò dopo altri cinque giorni di ininterrotti e furiosi combattimenti, il 10 febbraio 1258. Per la famiglia dell’ultimo califfo abbaside, non ci fu nessuna pietà: mogli e figli furono trucidati. Sopravvisse solo un bambino, mandato come ostaggio in Mongolia e una ragazza che il capo dei Mongoli volle come schiava nel suo harem.
Ma passarono alcuni giorni prima che al-Mustansir venisse giustiziato. Hülagü, come tutti i Mongoli, era infatti convinto che spargere sul terreno il sangue di un capo nobile, anche se straniero, fosse un affronto insostenibile per la Terra, madre della vita.
La Terra, in quel caso, come spiegò lo storico René Grousset nel fondamentale libro “L’impero delle steppe, Attila, Gengis Khan, Tamerlano” poteva vendicarsi dell’insulto degli uomini scatenando lutti e calamità.
Un dotto persiano, Nassireddin Tuossi, suggerì al Khan la soluzione: il “sostituto del Profeta” venne avvolto in un tappeto su cui vennero fatti passare, a più riprese, cavalieri al galoppo.
Il sangue del califfo non macchiò la terra. L’onore del Khan fu salvo. Ma altro sangue grondò per le strade di Baghdad.
Munke, il Gran Khan, aveva ordinato di uccidere solo chi avesse fatto resistenza e di risparmiare chi invece si arrendeva. Hülagü però ignorò la raccomandazione e lasciò alle truppe la libertà di saccheggio.
Per sette giorni, bruciarono palazzi e interi quartieri. Centinaia di migliaia di persone vennero uccise. La strage non risparmiò le donne e i bambini.
Molti dei cristiani che vivevano a Baghdad scamparono all’eccidio grazie a un provvidenziale intervento: quello di Doquz Khatun, la moglie di Hülagü.
La principessa, la cui famiglia si vantava di discendere da uno dei Re Magi, era una cristiana nestoriana. La dottrina, poi condannata nel concilio di Efeso, negava “l’unione ipostatica” tra la figura umana e quella divina di Cristo. Per il patriarca di Costantinopoli Nestorio, in Cristo convivevano infatti due nature e due persone.
Del resto, anche Hülagü fu educato da un prete nestoriano. Come pure suo fratello Qubilay, il Kublai Khan di Marco Polo.
La madre stessa dei due principi mongoli era una cristiana. Si chiamava Siurkukitibeighi e apparteneva al popolo di lingua turca dei Karaiti, originario della Crimea, convertito in massa, intorno all’anno Mille, alla fede cristiano-nestoriana.
Doquz Khatun, moglie del conquistatore di Baghdad, era la vedova di Tolui, padre di Hülägü e figlio di Gengis Khan. Il capo dei Mongoli sposò la sua giovane matrigna proprio durante la spedizione militare in Persia.
Nel 1258, grazie a Doquz Khatun il patriarca nestoriano Makika potè trasformare una delle residenze del califfo di Baghdad. Anche in seguito, in tutti i territori conquistati da Hülägü Khan furono costruite edifici sacri. Addirittura, una chiesa mobile, con tanto di campane, venne eretta nel cuore del campo mongolo per tutto il periodo delle spedizioni militari di Hülägü.
La presa di Baghdad e la morte del Califfo al-Musta’sim, padre spirituale dei musulmani, fu accolta con giubilo in occidente.
Papa Alessandro IV salutò Hülägü come “pincipe alleato dei cristiani” e inviò missionari in Asia con lettere di congratulazioni da presentare al Khan.
Ma appena pochi giorni dopo l’imbarco dei religiosi alla volta della Mesopotamia, arrivò la ferale notizia delle devastazioni perpetrate dalle orde mongole intorno alle rive del Niester e del Danubio.
Il sogno di una alleanza con il popolo delle steppe presto si tramutò in un incubo. Messe e digiuni, processioni e preghiere si moltiplicarono nelle chiese d’Europa per scongiurare la catastrofica minaccia. E alle “Litanie dei santi” venne aggiunta un’altra invocazione, destinata a durare per lungo tempo: “Dall’invasione dei Mongoli, liberaci o Signore!”.
A Baghdad, il saccheggio colpì, in modo irrimediabile anche la Bayt al-Hikma, che all’epoca era la più grande biblioteca del mondo. Un vero e proprio tempio della lettura, fondato nell’anno 832 da Hārūn al-Rashīd (766-809) quinto califfo della dinastia.
Nella “Casa della Sapienza” c’erano tutti i testi conosciuti dell’antichità, raccolti e tradotti da 3.000 studiosi, stipendiati dal governo abbaside. Opere di matematica, filosofia, astronomia, medicina e poesia, in lingua ebraica, greca, copta, siriaca, medio-persiana e sanscrita.
Hunain (808-873) medico e scienziato di lingua aramaica, figlio di un cristiano nestoriano, spiegò, con orgoglio, la filosofia della grande istituzione culturale: ”Non dobbiamo vergognarci di conoscere la verità e la scienza, da qualunque fonte essa giunge a noi, anche se arriva da molteplici culture straniere”.
La fama della Bayt al-Hikma e delle altre biblioteche cittadine era talmente diffusa che fu anche all’origine di un famoso detto mediorientale: “Gli egiziani scrivono libri, i libanesi li commerciano, ma è a Baghdad che vengono letti”.
La grande biblioteca, già dall’anno 832 era diventata il primo policlinico della storia: più di 200 medici curavano e operavano i malati e, allo stesso tempo, insegnavano medicina a 1000 studenti che venivano retribuiti dallo stato per compiere il loro percorso scolastico. Tutti i pazienti, di ogni sesso e razza, avevano l’accesso gratuito alle cure.
Nel giro di qualche ora, la “Casa della Cultura” si svuotò e morì, come il potere degli Abbasidi.
Le drammatiche cronache di quel febbraio 1258 ricordano che migliaia e migliaia di preziosi volumi vennero gettati nel Tigri. Tanto che da una sponda e l’altra del grande fiume si formò quasi una diga di carta. E l’acqua chiara diventò nera per l’inchiostro che colava dalle righe dei fogli bagnati.
Insieme agli antichi manoscritti annegò anche un mondo. E ne nacquero altri, più aridi e desolati. Come quello di polvere e sabbia, cresciuto tutto intorno alle fertili terre della Baghdad medievale.
Un deserto esteso, dovuto alla progressiva salinazione del terreno, combinata alla distruzione capillare, per mano mongola, dei tanti canali e sistemi di irrigazione. Riparati, in minima parte, soltanto nella seconda metà del XX secolo.
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