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martedì 6 febbraio 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 6 febbraio.
Il 6 febbraio 1958 un incidente aereo si portò via 8 grandi stelle del Manchester United.
Monaco di Baviera, 6 febbraio 1958, ore 16,04: il volo Be 609 della British European Airways ritenta il decollo. La pista è coperta di neve, dalla cabina di controllo sconsigliano la manovra, ma il pilota Rayment insiste e porta l’aereo fino in fondo alla pista dove un’ala va a impattare contro le mura di una casa che in un attimo s’incendia. Un’esplosione pazzesca, quell’aereo va in mille pezzi e con esso una parte dei “Busby Babes” del Manchester United.
Finirono così i figliocci leggendari di sir Matt Busby, lo «scozzese di ferro» che dal 1946 al ’69 avrebbe fatto dello United la sua missione. Un duro dal cuore tenero, che amava lavorare soltanto con il suo staff. Un gruppo di uomini fidati, composto da una “triade pulita”: Jimmy Murphy addetto allo sviluppo di quello che sarebbe diventato il miglior settore giovanile del calcio britannico; Bert Whalley, il coach che recapitava settimanalmente lettere con su scritti i giudizi tecnici ad ogni singolo giocatore della rosa; Tom Curry che aveva il compito di badare alla «crescita spirituale» dei Babes e molti di loro lo seguivano alla Messa nella chiesa cattolica prima di ogni match. Murphy quel 6 febbraio come sempre intendeva seguire la squadra e a salvarlo fu un impegno come visionatore per conto della nazionale.
Whalley e Curry non scamparono invece alla tragedia di Monaco (che fece 23 vittime), ed è importante ricordarli, perché senza il loro prezioso lavoro oggi non esisterebbe il grande Manchester United, un colosso del football, con 50 milioni di tifosi sparsi nel mondo e 4° club più ricco del pianeta calcio. Busby e i tre uomini del suo staff sono stati degli autentici pionieri di una società che appena dopo la Seconda Guerra era ridotta finanziariamente ai minimi termini. Mancavano le divise per scendere in campo e perfino per gli allenamenti era necessario il razionamento delle maglie. Allora non esisteva neppure il mitico stadio di Old Trafford, e così lo United doveva chiedere ospitalità agli “odiati” cugini del Manchester City che gli concessero il loro impianto dietro lauto pagamento dell’affitto stagionale.
Solo nell’agosto del 1949, tre mesi dopo l’infausta tragedia di Superga, dove anche il sogno del Grande Torino andò in frantumi in un aereo, i “Red Devils” poterono tornare alla loro «casa». Da quel momento in poi l’Old Trafford avrebbe alzato il sipario su quello che ormai è diventato «The Theatre of Dreams». Il Teatro dei sogni di quei giovani plasmati alla grinta e al bel gioco, ma soprattutto al rispetto per se stessi e per gli avversari. Il primo comandamento di Busby recitava: «Ciò che importa più di tutte le altre cose è che una partita di calcio deve essere disputata con lo spirito giusto, ovvero con fair play».
Una lezione imparata a memoria dai Babes e che divenne una delle risorse per aprire un’era gloriosa, inaugurata nella stagione 1951-’52 con il titolo di campioni d’Inghilterra. Un successo che allo United mancava da 41 anni e al quale seguirono altri 4 campionati vinti con sir Busby in panchina che chiuse quel ciclo d’oro nel 1968 con la conquista dell’agognata Coppa dei Campioni. Quei talenti, messi insieme formavano un tesoro che all’inizio della luttuosa stagione 1957-58 era stato stimato in 350mila sterline.
E le quotazioni dei Busby Babes erano destinate a lievitare dopo la netta vittoria nei quarti di Coppa dei Campioni sul campo della Stella Rossa di Belgrado. L’ultimo urlo di gioia per 8 di quei ragazzi che fecero piangere Manchester e tutti gli innamorati del football . Il capitano, il “vecchio” Roger Byrne (28 anni) quel 6 febbraio se ne andò senza sapere che aspettava un figlio da sua moglie Joy e appena in tempo per scrivere l’ultimo articolo nella rubrica che teneva dalle pagine del “Manchester Evening News”. «Spero di ritrovare il Real Madrid in semifinale…», scrisse Byrne che pregustava la rivincita dopo la sconfitta subita con gli spagnoli l’anno prima.
Geoff Bent (25 anni) era allergico ai viaggi aerei: «Mi fanno sanguinare il naso mister Busby», aveva provato a convincerlo. Ma alla fine si era piegato alla volontà del “mister” ed era partito per la sua ultima trasferta. Tommy Taylor (26 anni) stava progettando il matrimonio con la sua fidanzata e al telefono gli disse: «Prepara una bella birra che sto arrivando amore…». Liam Whelan (22 anni) morì con la fede più profonda dell’irlandese cattolico e prima dello schianto c’è chi giura di averlo sentito urlare: «Dio sono pronto…». A Dublino per i suoi funerali si presentarono in 20mila.
Mark Jones (24 anni) lasciò a casa ad aspettarlo invano una giovane moglie e un bambino piccolo. Un’assenza che spaccò il cuore dell’amato Rick, un labrador nero che si lasciò morire qualche giorno dopo la fine prematura del suo padrone. Quella sciagura fu un tiro più mancino di quelli che scagliava in porta l’ala sinistra Eddie Colman (21 anni) che con David Pegg (22 anni) era il più giovane del gruppo dei gioielli .
La gemma più preziosa, la grande speranza d’Inghilterra, era Duncan Edwards, “the Tank”. Volò via per sempre anche lui, a 21 anni. Poco prima della manovra di decollo trovò il tempo di spedire un telegramma alla sua padrona di casa per avvertirla che per problemi atmosferici avrebbe trascorso la notte in Germania.
Il telegramma arrivò a destinazione alle 17 di quel pomeriggio, quando a Monaco Edwards su un letto dell’ospedale Rechts der Isar, affrontava la sua sfida più importante, quella contro la morte. I suoi polmoni d’acciaio capaci di reggere anche quattro partite alla settimana non volevano mollare. Con le costole frantumate, un polmone perforato e la gamba destra spezzata, Duncan sibilò al al dottore: «Quante chance ho di poter giocare in Premier la settimana prossima?». La sua fidanzata Molly gli tenne forte la mano e rimase così, a vegliarlo, fino alla notte del venerdì 21 febbraio quando quella stella di Old Trafford si spense per sempre. Fu una seconda morte per il Manchester. La cittadina di Dudley, nel Midlyne dove Edwards era nato, si strinse tutta intorno a quel figlio adorato al quale gli dedicò una statua e sulle vetrate della chiesa di St Francis è stato dipinto il suo ritratto con la maglia del Manchester e dell’Inghilterra.
Un’Inghilterra che per anni si è chiesta se con i Babes in campo la nazionale dei Tre Leoni non avrebbe conquistato anche i Mondiali del ’58 e del ’62, compiendo il tris iridato con quella Coppa alzata al cielo di Londra nel ’66 da sir Bobby Charlton, «il sopravvissuto di Monaco». Fu lui, il bomber dello United insieme a Dennis Law e al “Pelè bianco” e principe degli irregolari, George Best, a mantenere in vita il mito vincente dei Babes, ma soprattutto a ridare il sorriso a sir Busby. Lui non ha mai smesso un giorno di pensare a quei suoi ragazzi che fino all’ultimo minuto delle loro esistenze amava salutare con un paterno: «hello son», ciao figliolo. Busby ha sempre saputo che quel gruppo straordinario e il loro sogno sarebbe durato in eterno.
E allora l’ultimo atto di questa lunga storia dei Babes forse è stato scritto a Barcellona in una notte magica del 1999. Finale di Coppa di Campioni Manchester-Bayern, la squadra di Monaco. Lo United al 90’ è sotto di un gol, ma nei minuti supplementari sigla la più clamorosa delle vittorie, 2-1. Era la notte del 26 maggio, il giorno del compleanno di sir Busby che se ne era andato cinque anni prima. Ma quella notte a Barcellona, i tifosi del Manchester giurano che Busby e i suoi Babes erano lì con loro, erano tornati giusto il tempo per portare ancora una volta lo United sul tetto d’Europa, perché il sogno di Old Trafford non abbia mai fine.

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