Buongiorno, oggi è il 9 febbraio.
Il 9 febbraio 1619, a Tolosa, il filosofo Giulio Cesare Vanini viene arso sul rogo per ateismo.
Lucilio Vanini, che firmò i suoi lavori sempre come Giulio Cesare, nacque a Taurisano nei pressi di Lecce nel 1585 figlio illegittimo dell’anziano funzionario di origine ligure Giovanni Battista e della nobildonna spagnola Beatrice Lopez de Noguera. Erano gli anni dell’imperatore Carlo V, dominatore anche nell’Italia meridionale spagnola e Taurisano era una città molto povera come tutto il meridione schiacciato dai tributi.
Nel 1599 si iscrive alla facoltà di giurisprudenza di Napoli; tuttavia, dopo la morte del padre (1603) è costretto ad abbandonare gli studi per la mancanza di mezzi di sostentamento ed entra nell’ordine carmelitano con il nome di Fra Gabriele. Nel 1606 si laurea in diritto civile e canonico conseguendo a Napoli il titolo di dottore in utroque iure; egli ora ha già assimilato una grande cultura e parla benissimo il latino.
Nei due anni successivi vive nell’area di Napoli e sistema la sua condizione economica vendendo alcune case di sua proprietà. Nel 1608 viene trasferito in un monastero di Padova ed egli ne approfitta per iscriversi alla facoltà di teologia della località veneta.
L’esperienza padovana fu importantissima per la sua formazione di filosofo ed eretico. Si dedica molto allo studio di Averroè (1126-1189) e di Girolamo Cardano (1501-1576); considera suo maestro il filosofo aristotelico mantovano Pietro Pomponazzi che nel suo famoso “Trattato” negò l’immortalità dell’anima. Padova faceva parte allora della Serenissima Repubblica di Venezia ed in quegli anni infuriava un’aspra polemica tra lo stato veneziano e papa Paolo V, interessato ad assoggettare la repubblica alla propria autorità. Vanini si schiera a favore di Venezia e contro il papa. Inoltre entrò a far parte del gruppo del celebre frate Paolo Sarpi che scatenò il conflitto antipapale, appoggiato dall’ambasciata inglese nella città, e che meditava di far passare Padova alla Riforma.
Nel gennaio 1612, a causa della sua attività antipapale è costretto ad allontanarsi da Padova e rinviato a Napoli nell’attesa di misure disciplinari da parte del generale dell’Ordine carmelitano Enrico Silvio. Vanini invece va a Bologna e trama relazioni segrete con gli ambasciatori inglesi a Venezia per passare in Gran Bretagna. Poco tempo dopo assieme ad un confratello riesce a fuggire in Inghilterra passando attraverso Svizzera, Germania, Olanda e Francia. Giunse infine a Londra e a Lambeth, in cui rimase per due anni nascondendo la propria identità anche all’arcivescovo di Canterbury. Nella chiesa londinese “dei Merciai” o “degli Italiani” alla presenza di Francesco Bacone, Vanini ed il compagno d’ordine e fuga Genocchi ripudiano pubblicamente la fede cattolica per abbracciare quella anglicana.
Ciò non passa inosservato a Roma e alle autorità cattoliche, già messe in guardia dalla possibile fuga di Paolo Sarpi, ormai privo della protezione del Doge, nel Palatinato. La Chiesa era intimorita da una possibile ricostruzione in terra protestante del fronte antipapale veneziano e sollecita il nunzio apostolico di Parigi per sapere qualcosa di più sui due frati rinnegati e fuggiti in Inghilterra.
Tuttavia, mentre l’Inquisizione già prepara un processo contro di loro, i due frati si pentono ed inviano lettere a Roma per ottenere la riammissione nel cattolicesimo, non più come frati ma come sacerdoti. Tra il 1613 e 1614 diventa nota alle autorità inglesi la loro revisione e il loro progetto di fuggire dall’Inghilterra; molte ambasciate straniere si attivano nel favorire la loro fuga suscitando scandalo nel re e nell’arcivescovo. Così Vanini e Genocchi furono arrestati.
In seguito alla fuga dell’amico si acuisce la misura persecutoria contro il filosofo, rinchiuso nella Torre di Londra in cui rimase per 49 giorni mentre gli inglesi preparano il processo contro di lui.
Rientrato in Italia, vive a Genova ed insegna filosofia ai figli di Giacomo Doria. Tuttavia, riprende presto la via dell’esilio quando l’inquisitore genovese fa arrestare l’amico Genocchi e per paura che gli accada la stessa sorte, fugge in Francia.
Nel 1615 è a Lione e in giugno pubblica l’opera “Amphitheatrum aeternae Providentiae Divino-Magicum” (L’anfiteatro divino magico dell’eterna Provvidenza). Scrive quest’opera per difendersi dalle accuse di ateismo ma è ulteriormente accusato, stavolta di panteismo.
L’anno successivo pubblica “De Admirandis naturae reginae deaeque mortalium arcanis” (I meravigliosi segreti della natura regina e dea dei mortali), edita a Parigi con l’appoggio di due teologi della Sorbona che ne autorizzano la pubblicazione.
Questa opera viene bene accolta dalla nobiltà francese perché è il manifesto degli “esprits forts” che guardano con ammirazione alle innovazioni culturali e scientifiche che vengono dall’Italia.
Le autorità cattoliche, avverse alle innovazioni, attaccano nuovamente Vanini e la sua opera viene revisionata e stavolta condannata al rogo dalla Sorbona come eretica. Inoltre, la Congregazione dell’Indice lo pone nella prima classe degli autori proibiti.
Senza ufficiali misure contro la sua persona, Vanini viene comunque escluso da molti ambienti della società francese a causa della condanna della sua opera. Così vaga per varie località della Francia meridionale, protetto da molti aristocratici amanti degli spiriti forti in cambio dell’insegnamento per i propri figli.
Vaga fino all’arrivo nella fatale Tolosa, in cui viene arrestato il 2 agosto 1618 per sapere quali siano le sue idee in materia di religione e morale. Si tenta di condannarlo a tutti i costi convocando anche molti testimoni senza accertare nulla. Il 9 febbraio 1619 il parlamento di Tolosa condanna Vanini per ateismo e bestemmie contro Dio. Abbandonato da tutti gli amici fedeli ed impossibilitato a difendere il suo passato travagliato affronta con dignità la sua pena, rifiutando l’assistenza di un prete e gli fu attribuita la frase “Morirò come un filosofo”. Gli fu tagliata la lingua poi venne strangolato ed infine il suo corpo fu arso al rogo. Aveva solo 34 anni.
Vanini è considerato come uno dei padri del libertinismo ed il principe dei libertini italiani. Influenzato dall’aristotelismo eterodosso si connette all’idea di naturalità; per questo il filosofo di Taurisano può essere associato ai grandi naturalisti panteisti italiani: Bruno, Telesio, Campanella.
Il movimento libertino nasce dalla pesante situazione creatasi dalla Controriforma e tutti i libertini partono dal considerare le religioni come puri e semplici fatti naturali, da spiegare senza appellarsi ad alcunché di estraneo alla natura.
Partendo da qui i libertini giungono ad una strenua difesa dell’ateismo e a farsi beffa del dogma e della morale cristiana. In questo senso si inserisce l’opera “Amphitheatrum” che solo apparentemente mira a difendere il dogma cattolico; però, a leggerla bene sembra evidente la canzonatura di questo. Vanini espone le sue teorie presentandole non come proprie, ma apprese da un immaginario miscredente; addirittura giunge anche a fingersi scandalizzato nonostante sia ben chiaro che concordi con queste idee.
La sua opera più importante è il “De Admirandis” diviso in quattro libri e costituito da 60 dialoghi (oggi sono 59, in quanto il XXXV è andato perduto). In tutta l’opera si sviluppano le discussioni riguardo alla natura tra lui stesso, nella veste di divulgatore del sapere ed un immaginario Alessandro che si mostra stupito di fronte al grande sapere dell’amico e lo sollecita a spiegare i misteri della natura che insistono sull’uomo.
L’opera costituisce una critica al pensiero degli antichi ed una divulgazione delle nuove teorie scientifiche e religiose. Si ispira all’amato Pomponazzi rifiutando l’immortalità dell’anima e a Machiavelli, da lui definito “principe degli atei” per cui «tutte le cose religiose sono false e sono finte dai principi per istruire l’ingenua plebe affinché, dove non può giungere la ragione, almeno conduca la religione», tesi che Vanini sposa in pieno.
Accetta l’idea di Dio come Essere Supremo ma identifica la divinità con la natura e per questo la legge naturale era quella divina. Non crede nella creazione poiché il mondo è eterno e governato da leggi immutabili. Il rifiuto dell’immortalità dell’anima lo porta all’attacco dei dogmi; della religione (mezzo degli ecclesiastici o dei potenti per criticare la plebe); dei miracoli, che devono essere interpretati razionalmente e sono spesso frutto della fantasia umana.
Cerca di confutare il dogma della volontà di Dio: infatti, se Dio vuole salvare gli uomini, allora il Diavolo vuole che questi si perdano. Dunque, per tutti i peccatori mortali, gli eretici e i miscredenti, essendo persi, si è compiuta la volontà del Diavolo e non quella di Dio.
Criticando il dogma della creazione, giunge ad ipotizzare addirittura una discendenza tra uomini e scimmie.
L’ambiguità del personaggio ha dato vita a molteplici interpretazioni. Per Ludovico Geymonat, ad esempio, gli scritti di Vanini hanno ben scarso valore filosofico e mancano di validità ed efficacia.
Anche altri hanno tentato di sminuire il filosofo cercando di confutare il suo ateismo riportando alla luce un suo scritto in favore del Concilio di Trento, oggi andato perduto.
Gli apologeti invece lo identificano come un precursore dell’Illuminismo, uno strenuo difensore dell’ateismo ed avversario delle superstizioni. Al filosofo pugliese va sicuramente riconosciuto il merito di aver aperto la strada, in Francia, alle teorie critiche della religione che sicuramente furono ritenute preziose dai libertini d’oltralpe come Gassendi e Bayle e contribuirono alla nascita dei Lumi. Il suo pensiero è in ogni caso sintomo di una crisi epocale, quella del Seicento, ancorata tra le teorie dogmatiche imposte dall’Inquisizione e di cui sarà vittima Bruno proprio all’inizio del secolo e di cui dovrà fare le spese anche Galileo ma anche tra oasi di libero pensiero che mise i germi dell’Illuminismo.
Le interpretazioni su Vanini sono comunque ancora aperte, nonostante il personaggio sia purtroppo dimenticato ai più sebbene abbia pagato con la vita, proprio come Bruno, le sue idee.
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