Buongiorno, oggi è il 27 dicembre.
Il 27 dicembre 1997 viene definitivamente chiuso il carcere dell'Asinara.
L’isola dell'Asinara si trova al largo della punta nord - occidentale della Sardegna.
La sua superficie, di 51 chilometri quadrati, è ricoperta di macchia mediterranea.
È la seconda isola sarda per dimensioni dopo Sant'Antioco, e presenta una forma stretta e allungata in senso Nord-Sud.
L’isola dell’Asinara diventa una colonia penale nel 1885, il modello ispiratore fu quello della colonia penale agricola dell’isola di Pianosa, nata nel 1858.
Furono espropriati i terreni e i fabbricati di 500 isolani, per organizzare il carcere in insediamenti residenziali, detti anche “diramazioni”.
A proporre il disegno di legge fu l’allora ministro dell’Interno Agostino De Pretis, che riteneva il carcere un’utilità per il governo e per i detenuti.
Il governo, facendo lavorare i detenuti sull’isola, non avrebbe dovuto inviare del personale per la costruzione del lazzaretto, e i detenuti avrebbero potuto condurre una vita più attiva, secondo le parole di De Pretis: “…si era riconosciuto conveniente l’impianto di una colonia di coatti, dei quali molti si hanno sempre relegati in località in cui manca assolutamente il modo di occuparli al lavoro…e che pure ad essi si ravviserebbe conveniente trovare produttivo impiego”.
Alla fine del 1888 nella colonia dell’Asinara si trovavano 254 detenuti.
Il 25 giugno del 1971 sbarcano all’Asinara 15 presunti mafiosi.
Cominciano gli anni del supercarcere o carcere di massima sicurezza, in cui, per la durezza e la rigidità dei sistemi di controllo dei detenuti, l’Asinara prenderà il nome di “Cajenna del mediterraneo”.
È il ministero di Grazia e Giustizia, che ha la proprietà dell’isola da un punto di vista giuridico - istituzionale, a avviare dunque un processo di rafforzamento del carcere, anche se il comune di Porto Torres, nella cui giurisdizione territoriale ricade l’Asinara, sperava di svincolare l’isola dal ministero rendendola un Parco naturale.
Il comune dovrà invece pagare 750 lire al giorno per ognuno dei detenuti sospettati di appartenere alla mafia.
Gli anni ’70 saranno i peggiori della storia del carcere dell’Asinara.
Il clima di tensione dei detenuti, le violenze tra loro e verso le guardie, portano anche i direttori del carcere a prendere provvedimenti sin troppo drastici.
Nel 1976 l’allora direttore del carcere Luigi Cardullo fece sparare dagli agenti contro un turista svizzero che aveva inavvertitamente oltrepassato il limite dei 500 metri imposto dalla capitaneria.
Cala d’Oliva era una delle principali diramazioni del carcere dell’Asinara.
Oltre a una struttura carceraria, era l’unica parte dell’isola ad essere abitata.
Qui avevano casa, infatti, le famiglie delle guardie carcerarie, e così attorno al carcere gravitava una piccola cittadina.
Il carcere dell’Asinara era diviso in diverse diramazioni per dei motivi precisi. Ciascuna diramazione era una sorta di piccolo carcere, formato da sobri dormitori, alloggi, dalla caserma delle guardie, da locali di servizio e da stalle per gli animali. Ognuna aveva un suo nome e una sua tipologia, sia per quanto riguarda la sicurezza che per il tipo di vita che i detenuti potevano condurre in base alla loro pena.
Fornelli si trova nella punta Sud dell’isola, era, assieme al carcere di Cala d’Oliva quello più sicuro.
Qui venivano rinchiusi i detenuti più pericolosi e, durante gli anni ’70, i mafiosi (Totò Riina fu rinchiuso in un bunker in cima al colle su cui è costruita Cala d’Oliva).
A Fornelli, infatti, c’erano le celle di massima sicurezza e i cortili chiusi anche sopra la testa da una rete metallica.
A Santa Maria, invece, che da lontano, con i due xilos che sbucano dall’apertura interna, sembra una enorme fattoria, stavano i carcerati meno “pericolosi”, che lavoravano la terra e avevano una maggiore libertà di movimento.
Nella isolata diramazione di Tumbarino (quando l’Asinara era una colonia penale serviva ad accogliere solo 15 condannati per il periodo necessario per l’approvvigionamento di legna e carbone, essendo la zona priva di terreni coltivabili) erano rinchiusi i pedofili, lontani da tutte le altre strutture e privi di qualsiasi anche piccola agevolazione.
Gli altri “settori” della struttura carceraria erano Campu perdu, Elighe Mannu, Trabuccato.
Ma la struttura centrale era Cala Reale, chiamata così perché ospitava l’approdo e le strutture di accoglienza dei Savoia.
Da qui partivano tutti gli ordini e si eseguivano tutte le operazioni di routine, compreso quella di smistare la posta per i detenuti.
Nel 1997 il ministero per i beni culturali e amministrativi riconosceva per l’Asinara il vincolo paesaggistico dovuto alle sue bellezze naturali.
L’Asinara era dunque da una parte un luogo ameno di bellezza e dall’altro la sede di una delle carceri più dure d’Italia. “…il “lager di Stato” dove i detenuti e anche le guardie vi sono tenute in condizioni subumane” (La Nuova Sardegna, 1980).
Negli anni ’80 il carcere si “normalizza”.
I 450 detenuti lavorano e hanno delle condizioni migliori rispetto ai periodi precedenti.
Il 27 dicembre 1997 il carcere viene chiuso e l’Asinara è proclamata ufficialmente Parco naturale.
L’ultimo detenuto ha lasciato l’isola il 28 febbraio 1998.
I detenuti che hanno cercato di fuggire dal carcere dell’Asinara sono stati tanti.
La vicinanza dell’isola alla punta della Sardegna dava l’impressione che fosse facile, una volta riusciti ad eludere le guardie costiere, scappare a nuoto.
In realtà non era né tanto semplice sfuggire alle guardie, perché i controlli avvenivano sia di giorno che di notte su tutta la costa, né poi era semplice buttarsi a mare e sbracciare sino alle coste sarde.
C’erano infatti le correnti, violente e inarrestabili, che impedivano una tranquilla nuotata verso la libertà.
Sono stati tanti i carcerati trovati morti annegati, recuperati giorni dopo la scoperta della loro fuga.
È stato trovato morto anche un detenuto che cercava di raggiungere la Sardegna con una barchetta a remi.
Dopo giorni e giorni in balia delle correnti, era morto di inedia.
Solo uno, un bandito sardo, riuscì a organizzare una fuga intelligente e meditata.
Si nascose in una grotta nell’isola. Aveva con sé viveri e una barca, nascosta.
Rimase un mese dentro la grotta, aspettando di poter scappare con la barca, guardie e correnti permettendo. Lo trovarono scorgendo nel terreno vicino alla grotta delle orme. Le sue.
La fuga più nota, però, è quella riuscita, l’unica.
È la fuga di Matteo Boe, che assomiglia tanto all’impresa di “Papillon”, avvenuta il 1° settembre 1986.
Boe, 28 anni, originario di Lula, era detenuto per il sequestro di Sara Niccoli, avrebbe finito di scontare la pena nel 2002.
La permanenza all’Asinara doveva stargli stretta, e così decise di evadere dal carcere con Salvatore Duras, in carcere per furto.
Studiano un piano a tavolino che poi risulterà perfetto.
Dopo aver tramortito una guardia, i due riescono a raggiungere la costa in una cala dove una donna li aspetta nascosta a bordo di un gommone.
La ragazza, Laura Manfredi, emiliana, aveva conosciuto Matteo Boe all’università.
Duras fu trovato poco tempo dopo.
Boe, invece, riuscì a restare latitante, nascondendosi in Corsica, per sei anni.
Da latitante viene indicato come uno degli artefici del sequestro del piccolo Farouk Kassam. Il 13 ottobre 1992 viene arrestato, su indicazione delle Questure di Nuoro e Sassari, dalla polizia francese a Porto Vecchio in Corsica, dove stava trascorrendo qualche giorno assieme alla compagna Laura Manfredi e ai due figli Luisa e Andrea. Trasferito in carcere a Marsiglia, sotto accusa per possesso d'armi e dichiarazione di false generalità, viene formalmente indicato dalla magistratura italiana come uno dei mandanti e degli esecutori materiali del sequestro Kassam, motivo per il quale viene formulata la richiesta di estradizione.
Nel 1995 viene estradato per il processo relativo al sequestro Kassam, a seguito del quale sarà condannato nel 1996 a venti anni di carcere. Il 25 novembre del 2003 venne uccisa in un agguato la figlia primogenita Luisa Manfredi, di soli 14 anni. L'obiettivo della scarica di pallettoni, che la ferì mortalmente alla tempia mentre per stendere i panni si affacciava al balcone della casa di Lula, secondo gli inquirenti era forse la madre Laura Manfredi, data la notevole somiglianza tra madre e figlia.
A due anni dalla morte, visto il clima di omertà che impediva di dare una svolta alle indagini, Laura Manfredi ha voluto far trasferire la salma di Luisa nel cimitero di Castelvetro di Modena, sua città natale, in Emilia-Romagna, trasferendosi lì insieme agli altri due figli avuti con Matteo Boe.
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