Buongiorno, oggi è il 22 aprile.
Il 22 aprile 1967 Stanley Kubrick e Arthur Clarke cominciano a gettare le basi della sceneggiatura di 2001: odissea nello spazio.
Nel rivedere questo capolavoro assoluto del cinema la prima considerazione che viene in mente è che, a distanza oramai di oltre vent'anni dalla data fatidica citata nel titolo, per quanti progressi l’uomo abbia compiuto in ambito spaziale da quel lontano 1968, anno in cui fu realizzato questo celeberrimo film, è curioso che nulla o quasi si sia verificato nella realtà di quanto descritto nel corso della storia. Si parla ovviamente della parte tecnologica e scientifica, anche se Stanley Kubrick, a detta degli stessi esperti del settore aerospaziale, da perfezionista ai limiti del maniacale, descrive uno scenario assolutamente plausibile, anche nei dettagli.
L’anno seguente, nel 1969, ci fu lo storico sbarco sulla luna al termine di una lunga fase di grande fermento e competizione fra le due superpotenze di allora (USA e URSS) per tagliare per prime quel prestigioso traguardo. Ciò che il film descrive a livello di stazioni orbitanti e viaggi interplanetari che avrebbero dovuto popolare lo spazio nel 2001, è stato infatti nel frattempo enormemente ridimensionato, anche per via dei costi esorbitanti che quelle spedizioni comportano, divenute in pratica insostenibili. Si può pertanto affermare che il film del grande regista britannico disegna uno scenario ottimistico in rapporto a ciò che l’uomo si prefiggeva di raggiungere in quel campo entro fine secolo. È stato enorme comunque l’impatto che ha avuto quest’opera sul genere fantascientifico in particolare, grazie a numerose sequenze di straordinaria suggestione, non solo visiva. Ancora oggi, a distanza di oltre cinquanta anni, esse affascinano e suscitano ammirazione oltreché determinare una sorta di riverenza per questo film in generale, come avviene di solito davanti ad un capolavoro scultoreo, pittorico o di qualsiasi altra forma artistica. Stiamo parlando pertanto di un gioiello della cinematografia mondiale che si staglia nettamente dalla media sia per eleganza formale, che per innovazione e profondità dei temi trattati: un film grandioso, complesso ed ambizioso allo stesso tempo.
A posteriori è impossibile ignorare l’incredibile coincidenza accaduta in quel fatidico 2001, quando l’odissea non si è verificata nello spazio, come prefiguravano gli autori del film e del racconto dal quale è tratto, scritto da Arthur C. Clarke (coautore della sceneggiatura), ma nel nostro pianeta, in un’area compresa fra New York e Washington, laddove Kubrick non poteva di certo supporre. Casualità ha voluto che proprio in quell’anno, con l’attentato alle Torri Gemelle ed al cuore economico e militare degli USA, si sia verificato uno degli eventi che hanno cambiato la storia recente dell’uomo. Con uno spericolato parallelismo, non necessariamente connesso agli eventi immaginari che racconta, si potrebbe addirittura azzardare che 2001: Odissea Nello Spazio contenga casualmente alcune analogie riguardo un imminente cambiamento epocale, nello specifico a seguito della scoperta sulla luna di un oscuro e misterioso monolito, raffigurazione semplice ma geometricamente perfetta di varie entità, sia astratte che concrete.
Come tutti i capolavori, anche 2001: Odissea Nello Spazio non si può ridurre ad un solo piano d’interpretazione. L’attore Rock Hudson ad esempio partecipando alla prima del film pare che ad un certo punto si sia alzato chiedendo: ‘C’è qualcuno in sala che sappia spiegarmi qualcosa?’. In effetti il film, fra strepitose sequenze dal punto di vista spettacolare, soprattutto nella prima e nella quarta parte, in particolare quest’ultima, include una serie di elementi enigmatici, dal punto di vista intellettuale, filosofico e spirituale, sino ad arrivare ad un ermetismo che per molti può apparire come fine a se stesso. Esistono al riguardo numerosi siti Internet dedicati che cercano di fornire le giuste risposte, non di rado in contrapposizione fra loro.
Già l’inizio è inquietante ed insolito: sullo schermo completamente buio si sentono in sottofondo alcune note musicali che incutono apprensione ad un volume progressivamente crescente, come se di lì a breve si dovesse aprire il sipario su uno scenario insolito ed inquietante. A seguire, dopo un paio di minuti che sembrano interminabili, le prime immagini che mostrano il perfetto allineamento della luna e della terra rispetto al sole, sulle note di Così Parlò Zarathustra di Richard Strauss, riproposte in seguito altre due volte, a sottolineare momenti di svolta nel corso della storia narrata.
2001: Odissea Nello Spazio è diviso sostanzialmente in quattro capitoli, nettamente distinti fra di loro, seppure legati da un filo logico che si chiarisce meglio durante lo svolgimento. Il primo s’intitola ‘L’Alba Dell’Uomo’ ed è a sua volta suddiviso in sei segmenti. Si tratta di una parte essenzialmente contemplativa, nella quale la colonna sonora è espressa dai rumori provenienti dai luoghi e dagli animali che li frequentano. Apparentemente questo primo capitolo è tematicamente molto differente dagli altri tre, sia per le scene rappresentate che per i toni utilizzati. Ci voleva il colpo di genio di un artista come Stanley Kubrick per realizzare, nel momento di passaggio fra la prima e la seconda parte del film la più strepitosa associazione e stacco d’inquadratura della storia del Cinema: un osso lanciato nel cielo da un ominide che si trasforma magicamente in un’astronave che sta navigando nello spazio. In tale mirabile sintesi si concretizza, nel giro di pochi secondi, il processo evolutivo della scienza e quindi della conoscenza intercorso in alcuni milioni di anni, esaltato dalle note imperiose, riproposte per la seconda volta, dell’oramai noto ‘Così Parlò Zarathustra’.
I sei passaggi relativi a ‘L’Alba Dell’Uomo’ evidenziati da bruschi cambiamenti di scena, raffigurano altrettanti momenti cruciali nello sviluppo evolutivo, sia dal punto di vista sociale che intellettivo, seppure l’uomo stesso sia ancora relegato allo stato scimmiesco. Primo, la vulnerabilità espressa dall’attacco della belva quando gli ominidi, pur vivendo in gruppo, non sono ancora capaci di difendersi sfruttando la forza del loro numero. Secondo, la difesa del territorio, soprattutto della polla d’acqua che è fondamentale per la loro sopravvivenza, dagli attacchi dei gruppi rivali. Terzo, la consapevolezza che l’aggregazione consente di creare forze solidali e più efficienti, capaci di difendere il singolo ma conseguentemente anche il gruppo. Quarto, l’ispirazione generata dal monolito, apparso improvvisamente davanti agli ominidi, che rappresenta una proiezione ed allegoria della maturazione conoscitiva. Quinto, lo sviluppo dell’ingegno e la presa di coscienza della loro forza, sfruttando l’ambiente circostante, espressa dalla scoperta delle ossa utilizzabili come utensili ed armi di difesa/offesa. Sesto, la capacità ed il coraggio di reagire agli attacchi, seguendo l’esempio del capobranco il quale, brandendo un osso, colpisce ripetutamente il più intraprendente fra i rivali, assumendo la leadership del branco. Questo primo capitolo dell’opera è introdotto da alcune sequenze che mostrano in realtà degli scatti fotografici eseguiti in alta definizione, riferiti a panorami e tramonti di struggente bellezza e fascino, ad esaltazione della natura e del contrasto insito in essa rispetto all’asprezza delle sequenze successive le quali sono improntate invece alla lotta per la sopravvivenza ed all’affermazione degli uni sugli altri, ominidi o belve che siano.
La seconda parte inizia con una perfetta simbiosi fra musica (‘Il Danubio Blu’ di Johann Strauss jr.) ed immagini di fantasia nello spazio, ma di eccezionale realismo scenico, che colpiscono ancora oggi a distanza di così tanti anni dall’uscita del film, relative ad un’astronave che si sta dirigendo verso una stazione orbitante muovendosi seguendo un ritmo perfettamente coordinato con le note musicali. Si tratta di un’altra sequenza che è diventata un simbolo di genialità applicata al cinema e quando l’azione si sposta all’interno Kubrick si lascia andare ad alcuni momenti ad effetto, sottolineando la diversità ambientale nella quale l’uomo si trova ad agire nello spazio e mostrando, ad esempio, una penna che ondeggia in assenza di gravità, le vaschette dalle quali gli astronauti assumono cibo con la cannuccia, la hostess che si muove con molta difficoltà ma rotea innaturalmente su se stessa nel passaggio da una capsula all’altra; una videochiamata telefonica fra spazio e terra ad ulteriore testimonianza del livello raggiunto dall’uomo dal punto di vista tecnologico; infine persino un accenno di ironia ed ilarità quando il comandante Floyd, appena giunto dalla terra, legge le note istruttive fuori dalla toilette relative all’utilizzo della stessa in assenza di gravità.
Partendo dal cordiale ma formale incontro di Floyd con una delegazione sovietica (la qual cosa suggerisce, fra l’altro, che sia stata superata nel frattempo la ‘guerra fredda’ fra i due blocchi) che si svolge in un punto di snodo della stazione orbitante i cui arredi anticipano lo stile avveniristico di Arancia Meccanica, il film rientra temporaneamente nei canoni tipici della fantascienza, raccontando la complessa gestione da parte delle autorità governative americane della sconcertante scoperta avvenuta per caso sulla luna di un monolito che risulta sepolto da oltre 4 milioni di anni e che emette un unico fortissimo segnale radio verso Giove. La sua origine, la semplicità e la perfezione della forma non possono avere che due spiegazioni, entrambe sbalorditive: è opera di Dio, oppure di una forma di vita nell’universo ben più evoluta dell’uomo. In ogni caso l’annuncio del ritrovamento deve essere gestito con cautela, per non provocare uno choc nella popolazione terrestre e per tale ragione è stato deciso di simulare un’epidemia nella stazione Clavius che possa tacitare i sospetti dell’URSS riguardo le strane manovre in atto e l’interdizione decisa unilateralmente dagli USA ad alcune zone dello spazio. Il mistero s’infittisce ulteriormente quando Floyd e gli altri componenti la stazione orbitante effettuano un sopralluogo dove è stato rinvenuto il monolito e proprio mentre stanno scattando le foto di rito l’allineamento fra il monolito stesso ed il sole provoca un rumore insopportabile per gli astronauti, nonostante la protezione del casco.
Nel nuovo cambio repentino di scena, si salta in avanti di diciotto mesi, per assistere ad un episodio intitolato ‘Missione a Giove’. In questa parte, che è interlocutoria rispetto a quella finale, ma non meno importante per gli argomenti che tratta, Kubrick concentra l’attenzione sul super computer Hal 9000 (HAL sono le lettere dell’alfabeto che precedono rispettivamente IBM, brand storico in ambito informatico), la cui capacità di memoria, definibile anche come intelligenza artificiale e di interazione con i membri dell’equipaggio sembra tale da giustificare il sospetto che egli possa provare anche delle vere e proprie emozioni. Naturalmente Hal è stato programmato in tal senso per meglio dialogare con gli uomini, come fosse uno di loro, seppure viene trattato in pratica come un servo, tacito esecutore pure del più piccolo ed insignificante ordine. Eppure Hal 9000 controlla tutti gli apparati vitali dell’astronave diretta su Giove, dove il governo ritiene possibile trovare le risposte relative al monolito ritrovato. La sua importanza è strategica quindi, considerando oltretutto che per la lunghezza del viaggio alcuni membri dell’equipaggio sono stati ibernati, così da averli utili e perfettamente conservati al momento opportuno ed anche le loro funzioni vitali sono totalmente controllate da Hal.
Un inaspettato errore di diagnosi riguardo il previsto guasto di un apparato esterno all’astronave costringe i due membri attivi dell’equipaggio, David (Keir Dullea) e Frank (Gary Lockwood), ad isolarsi per discutere il delicato ruolo di Hal, sino ad ipotizzarne la disattivazione nel caso dovesse rivelarsi non più affidabile al cento per cento. La reazione di Hal, il quale seguendo il movimento delle loro labbra ha compreso il suo destino, è quella di chi, dotato di emotività e discernimento, viene colpito nell’orgoglio e posto nella condizione di reagire per assicurarsi la sua stessa sopravvivenza. Egli ritiene sostanzialmente di poter ‘vivere’ autonomamente e di poter fare a meno dell’uomo che in effetti dipende totalmente da lui. Dopo aver causato la morte di Frank mentre si trova all’esterno dell’astronave e, ancora più facilmente, degli stessi membri ibernati, Hal tenta la stessa operazione con David, uscito dall’astronave con una navicella per recuperare il corpo del collega, disobbedendo poi ai suoi comandi per consentirgli di rientrare. David, dopo varie peripezie ed un’operazione molto rischiosa ma positivamente conclusa, riesce comunque a rientrare sfruttando i comandi manuali ed a procedere alla disattivazione di Hal, in un sequenza che è diventata storica, nella quale il super computer tenta in vari modi di convincere David a recedere dai suoi propositi, sino a regredire allo stadio infantile, mano a mano che gli slot di memoria vengono disabilitati (‘David ho paura… la mia mente se ne va, lo sento, lo sento, lo sento…’), per canticchiare infine una celebre filastrocca. Poco prima della completa rimozione della memoria di Hal parte però una registrazione d’emergenza in audio-video la quale rivela anche a David che diciotto mesi prima è stata trovata la prima testimonianza di vita intelligente sulla luna. Un’informazione sconosciuta all’equipaggio nel corso della missione in direzione Giove ma della quale invece Hal era al corrente. L’intera sequenza che vede protagonista David, all’esterno ed all’interno dell’astronave, è scandita soltanto dal rumore del suo respiro affannoso oppure da momenti di assoluto silenzio, se si escludono i brevi scambi di battute fra lui e Hal, con una sensazione di angosciante tensione degna del miglior thriller.
In effetti Kubrick evidenzia in questa parte la natura contraddittoria del rapporto uomo-computer e uomo-tecnologia, soprattutto in un ambiente come lo spazio a noi ostile dove ci muoviamo con difficoltà, cercando di replicare alla meno peggio le nostre abitudini e necessità terrene (le partite a scacchi con Hal, le corsette e gli esercizi per tenersi in forma, persino l’abbronzatura artificiale). Anche solo per respirare l’uomo ha bisogno di elementi di supporto come quando si trova sott'’acqua, mentre il computer invece richiede solo energia che egli stesso è in grado di procurarsi gestendo i pannelli solari dell’astronave, per il resto essendo in grado di auto gestirsi, senza l’ausilio dei membri dell’equipaggio. Da lì a ritenere che possa presuntuosamente sostituirsi all’uomo stesso che l’ha creato il passo è breve, ma la macchina non ha tenuto conto però dell’inventiva di quest’ultimo, capace di uscire dagli schemi preordinati, a differenza di un computer per quanto super evoluto, per trovare soluzioni di rimedio alternative, anche in condizioni di inferiorità ambientale.
Siamo arrivati quindi alla quarta ed ultima parte del film, intitolata ‘Giove e Oltre l’Infinito’. Si parte un’altra volta dal buio completo dello schermo che dura oltre due minuti e sulle note ossessive e quasi del tutto mono tono della musica di Ligeti da lui stesso definita ‘micropolifonica’, che trova la sua massima espressione in ‘Atmosphéres’, una composizione usata proprio in questa occasione da Kubrick e misconosciuta dal musicista che intentò persino una causa nei confronti del regista accusandolo di averla manipolata senza il suo assenso. Quando tornano le immagini vediamo il monolito che fluttua nello spazio in direzione del più grande pianeta del sistema solare. Va detto che questa è la parte che ha suscitato le maggiori discussioni e perplessità fra i critici, gli studiosi e gli stessi addetti ai lavori. Nell’allineamento dei pianeti con il monolito, David, che si sta dirigendo nella medesima direzione con la sua astronave verso un destino segnato, non potendo più contare sull’aiuto fondamentale di Hal, precipita non solo fisicamente dentro una sequenza onirica di grande e conturbante impatto visivo. Un’incubo, un viaggio nel tempo e nello spazio, dentro un’altra dimensione: ogni ipotesi a questo punto è possibile. Una sorta di corsa, simile a quella dello spermatozoo dentro l’uovo per fecondarlo che si svolge però negli spazi infiniti ed i misteri del cosmo e della vita, mentre appaiono e scompaiono nebulose, albe boreali, esplosioni cosmiche, dal più grande al più piccolo e viceversa. Una colata lavica di immagini, colori e suoni che dilatano le pupille allucinate di David, sottoposto ad una sorta di ipnosi, in un volo d’angelo fra crateri, canyon virati in negativo e colori cangianti di continuo in tonalità e brillantezza, ed eruzioni di magma che scorre veloce come provenisse dalle viscere della vita. Quando infine l’occhio di David, ripreso a tutto campo, torna alla normalità, egli si trova come calato in un sogno assurdo, con la sua stessa navicella all’interno di una stanza finemente arredata in uno stile d’epoca, ma di glaciale freddezza, in contraddizione rispetto alla tuta d’astronauta che indossa lo stesso David, di uno sgargiante e contrastante colore rosso. Egli è come se fosse appena atterrato in un pianeta sconosciuto e familiare allo stesso tempo, nel quale appare improvvisamente invecchiato e dove cammina con esitazione su un pavimento bianco luminoso all’interno di un appartamento lussuoso, ma che sembra disabitato. Egli vede se stesso riflesso allo specchio e si rende conto del tempo che è trascorso osservando le rughe del viso. Dietro David si scorge una stanza dentro la quale c’è un vecchio seduto di spalle che sta pranzando da solo. Il movimento delle posate è l’unico rumore udibile, oltre al respiro ansioso dell’astronauta che attira l’attenzione del vecchio il quale interrompe il suo frugale pasto per voltarsi e quindi alzarsi per verificarne la provenienza. Il vecchio e l’astronauta sono la stessa persona che si ritrova poco dopo in una camera da letto nella quale domina il colore bianco: lo stesso al quale siamo soliti associare l’aldilà. Il vecchio riprende il suo pranzo ma inavvertitamente sposta un bicchiere frantumandolo per terra. Mentre ne osserva stupito i resti, sente il respiro di un vecchio sdraiato sul letto che sembra in punto di morte. È ancora lui, ulteriormente invecchiato. David sta assistendo, come se qualcuno avesse premuto un ipotetico bottone dell’avanti veloce in un recorder, alla conclusione in rapida sequenza della sua vita. Di fronte a lui, ai piedi del letto, c’è il monolito che lui stesso indica con un dito nel più assoluto ed impressionante silenzio, come se ne avesse finalmente compreso il significato. Nel letto ora al posto del vecchio morente c’è un feto dentro un involucro simile ad una placenta. Sulle note di ‘Così Parlò Zarathustra’ per l’ultima volta, si conclude la storia dell’uomo nella struttura circolare immaginata da Stanley Kubrick, il quale, sulla visione affiancata del pianeta terra e del nascituro di natura cosmica si può azzardare che supponga la speranza di una evoluzione dell’uomo più in armonia con il resto dell’universo.
La lunga descrizione di quest’ultima parte di 2001: Odissea Nello Spazio è utile per evidenziare la difficoltà nel fissarne un significato preciso sul quale ancora oggi, dopo molti anni, s’intrecciano opinioni e disquisizioni. A tirarci fuori d’impiccio ci sono due frasi pronunciate in merito dallo stesso Kubrick: la prima ‘Se qualcuno ha capito qualcosa, ciò significa che io ho sbagliato tutto…’ che sembra quasi una risposta diretta al quesito posto da Rock Hudson all’inizio. La seconda è un po’ più circostanziata: ‘Ognuno è libero di speculare a suo gusto sul significato filosofico del film, io ho tentato di rappresentare un’esperienza visiva, che aggiri la comprensione per penetrare con il suo contenuto emotivo direttamente nell’inconscio.’. Al di là della facile battuta riguardo il fatto che il celebre regista potesse essere sotto l’effetto di qualche allucinogeno quando ha pensato e girato questa lunga sequenza, si può affermare che rappresenta una sfida indirizzata ad ogni spettatore, il quale, secondo sensibilità e cultura, può appunto interpretarla e considerarla diversamente e liberamente. La stessa reazione insomma che può provare ogni singola persona posta di fronte, ad esempio, ad un dipinto dal grande valore espressivo ma che è, proprio per questo, anche soggettivamente interpretabile. Nel caso del film in oggetto ognuno può trovarvi di volta in volta un messaggio mistico, un viaggio affascinante dentro la cognizione di spazio e tempo, oppure semplicemente un caleidoscopio d’immagini, colori, effetti speciali fini a loro stessi. Molti si sono chiesti ad esempio il ruolo ed il significato del monolito al quale sono state attribuite diverse interpretazioni: un’allegoria di Dio stesso, una rappresentazione dell’illuminazione e della conoscenza, una sfida di natura scientifica nei riguardi dell’uomo che tenta d’interpretarla, risalendone alle origini. Di certo ad ogni sua apparizione si verifica un momento di svolta: per gli ominidi che imparano a difendersi ed usare le ossa come armi, per David che è guidato dal monolito stesso lungo il viaggio allucinante in direzione Giove e dentro i segreti della vita ed infine dal vecchio morente per comprendere quella che in fondo è una banalità: l’infinita ripetitività del ciclo della vita.
2001: Odissea Nello Spazio è di sicuro un’esperienza indimenticabile, sia che si tenti di comprenderne ogni sfumatura filosofica oppure che ci si accontenti di assistere ad uno spettacolo unico ed insuperato per la grandiosità delle immagini, l’eleganza, la qualità e la perfezione tecnica, fotografica e del montaggio. Stanley Kubrick si rivela proprio a partire da quest’opera un talento fra i maggiori della storia del cinema, ahimè prematuramente scomparso, maniacale al limite dell’ossessione. Egli ha realizzato pochissimi film nel corso della sua carriera, tutti però sono diventati degli eventi e dei punti di riferimento nel loro genere. In ognuno di essi il regista britannico ha impiegato mesi, chiuso nella sua villa di campagna a Hertfordshire in Inghilterra, per rivederne i contenuti e le scene da inserire o escludere, prima di rilasciare la versione finale da presentare nelle sale.
Probabilmente non esiste un altro film che abbini in maniera altrettanto elegante, armoniosa e complementare musica classica ed immagini, peraltro di contrastante impronta avveniristica. Alcuni dei brani utilizzati di Richard e Johann Strauss, Gyorgy Ligeti e Aram Kachaturian sono rimasti indelebilmente associati a questo film, anche in contesti diversi dal cinema, a testimonianza dell’influenza che hanno avuto le immagini e la musica di quest’opera. D’altronde quasi tutto in questo film è divenuto proverbiale ed un punto di riferimento per alcuni specifici argomenti. Dalle numerose sequenze, anche singoli fotogrammi che sono divenuti sfondi per poster o destinazioni di vario genere, ad alcuni momenti topici che appartengono oramai all’iconografia cinematografica, ma anche non soltanto legate strettamente al cinema. Gli stessi collaboratori di Kubrick, dal premio Oscar per gli effetti speciali Douglas Trumball, ai direttori della fotografia Geoffrey Unsworth e John Alcott, al montatore Ray Lovejoy sono rimasti inevitabilmente e con pieno merito segnati da quest’opera prestigiosa. Lo stesso Stanley Kubrick ne è regista, produttore, co-sceneggiatore ed ha partecipato alla realizzazione degli effetti speciali; per ironia della sorte, ma soprattutto per la scarsa considerazione (oltrechè per incompetenza e poca lungimiranza dei votanti), è stato premiato con l’Oscar nel 1969 proprio solo per questi ultimi ed appena ‘nominato’, bontà loro, per la regia e la sceneggiatura.
2001: Odissea Nello Spazio per la rilevanza estetica, culturale e storica è stato inserito nella lista dei film preservati nel National Film Registry della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti. Anche se è difficile che lo spettatore medio possa ritenere necessario farlo prima ed anche dopo la visione, è un’opera che per essere meglio affrontata, compresa e valutata necessita di una adeguata preparazione e documentazione. Un pò come quando si entra in un museo e ci si trova davanti ad un quadro famoso, ad esempio, di Van Gogh, Monet o Velasquez: è facile rimanere impressionati dal nome dell’autore ed apprezzare comunque superficialmente la tecnica e la bellezza della sua opera, ma è evidente la differenza di approccio, di comprensione e valutazione che può raggiungere invece chi ha acquisito in precedenza conoscenze più approfondite riguardo la genesi ed il significato di quel dipinto.
Siamo in definitiva di fronte, non sembri una battuta, ad una di quelle rare opere che bisognerebbe spedire nello spazio perché qualche altra forma di vita possa un giorno riceverla ed apprezzarla come mirabile esempio d’arte sviluppato dal genere umano.
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