Buongiorno, oggi è il 28 aprile.
Il 28 aprile 1980 Renato Vallanzasca organizza una fuga di detenuti dal carcere di San Vittore. Verranno tutti riacciuffati quasi subito.
Vallanzasca, "il bel Renè", come veniva chiamato, aveva iniziato ancora ragazzino a entrare e uscire dal Beccaria, il carcere minorile di Milano. Nel luglio del 1969 finì per la prima volta a San Vittore. Da allora è rimasto libero in tutto meno di due anni. Tornato in carcere nel 1972 per una rapina a un supermercato, evase in maniera clamorosa nell’estate del 1976. Non potendo contare su un medico compiacente che redigesse un falso certificato, aveva deciso di procurarsi un’epatite, nutrendosi per settimane con uova marce e iniettandosi la propria urina. Quando finalmente fu trasferito in ospedale, nel giro di pochi giorni riuscì a convincere una delle guardie, offrendogli 3 milioni, a chiudere un occhio per un paio di minuti. Così era sparito nella notte.
Per i sette mesi successivi, fino al febbraio 1977 quando fu riacciuffato a Roma, lui e la sua banda riuscirono a tenere in scacco le forze dell’ordine di mezza Italia, rendendosi responsabili di un’ottantina di rapine, sparatorie e sequestri, tra cui uno, in particolare, che diede origine al “mito” del Bel Renè. Da un giorno all’altro, i giornali trasformarono Vallanzasca in una leggenda della malavita.
Quelle due stagioni di fuoco costarono la vita a quattro poliziotti e ad altre due persone. Morti provocate dalla banda e per le quali Vallanzasca si accollò ogni responsabilità. Fu una scelta – sostiene lui – dettata da un “codice d’onore” a cui il bandito non volle sottrarsi.
Nell'estate del 1987, dopo già dieci anni di carcere, Vallanzasca non aveva ancora smesso di pensare alla fuga. Era stato deciso il trasferimento da Genova al carcere di Nuoro, utilizzando il traghetto Flaminia, pieno di turisti. I carabinieri, fermi davanti alla cabina assegnata, rimasero perplessi solo per un attimo. Era chiaro che la stanza grande, senza aperture ma con cinque brandine, era per loro, mentre quella piccola, con solo due letti e con il bagno interno, doveva andare al detenuto. Il fatto che ci fosse anche un oblò non li preoccupò troppo. Fu un errore, e quella sbadataggine rappresentò l’occasione che Vallanzasca aspettava. Appena fu chiuso nel suo alloggio, svitò i bulloni dell’oblò e dopo un paio di minuti era già sul ponte, mescolato ai passeggeri. Poiché la nave era ancora attraccata, riuscì a sbarcare e a perdersi nella folla. Sarebbe stata la sua ultima, rocambolesca, fuga.
«Sono già passati vent’anni? Che certe parole vengano in mente a un ergastolano potrà sembrare ridicolo, ma non posso fare a meno di dire “come passa il tempo”» scherzava Renato Vallanzasca, che oggi si trova nel carcere di Bollate, vicino a Milano. «In realtà fu una “vacanza” brevissima, solo 20 giorni. Ma tante cose mi sono rimaste impresse: il fatto che esistesse ancora della frutta deliziosa, per dirne una. Bere in un bicchiere di vetro è stata una sensazione piacevolissima. La cosa a cui feci invece fatica ad adattarmi fu il peso delle posate da tavola, visto che in galera si usano solo quelle di plastica. Comunque, al di là del sesso che ebbi finalmente modo di riscoprire, la cosa che più mi ha esaltato è stato correre a perdifiato in un prato alla periferia di Genova, gridando “Sono libero!”. Fu una sensazione travolgente».
Da Genova, infatti, Vallanzasca si fece quasi tutta a piedi la strada per tornare alla sua Milano. Percorrendo di notte i 38 km del passo del Turchino e trovando poi chi gli offrì uno strappo in auto credendolo un operaio dell’autostrada rimasto a piedi. «La cosa che mi colpì di più una volta a Milano fu che non la riconoscevo. Non è che fosse più bella o più brutta, semplicemente non era quella che ricordavo».
A Milano, però, Vallanzasca non intendeva restare nascosto: «Tanto sarebbe valso restare in galera». Per uno come lui, ribelle e amante della provocazione, fu naturale sfidare le forze dell’ordine esponendosi con un’intervista in diretta a Radio Popolare. «Un giorno ero in radio che conducevo il mio programma, quando un’assistente mi disse che c’era una visita per me» ricorda il giornalista Umberto Gay. «Si fece avanti un signore con una permanente rossiccia e un paio di occhiali azzurrati. “Sì?” gli chiesi. Lui alzò gli occhiali e mi fece l’occhiolino. Santo Dio, era lui!».
«La sfida e una buona dose di incoscienza hanno sempre fatto parte del mio Dna» dice Vallanzasca. «Se una persona si camuffa con qualche piccolo accorgimento diventa pressoché invisibile, nell’indifferenza che regna sovrana tra la gente. Nel mio caso, mi ero tagliato i baffi e mi ero fatto una tinta che, per errore, venne fuori color rosso mogano. Come che sia, a Umberto Gay l’intervista la dovevo. Gliel’avevo promessa». Quell’intervista lasciò sbalordito Achille Serra, allora dirigente alla Squadra mobile di Milano. Era il poliziotto che più di tutti aveva dato la caccia a Vallanzasca.
«Quell’uomo aveva mille risorse» racconta Serra. «Due giorni dopo l’evasione misi un servizio di sorveglianza sotto la casa di una giornalista che, negli ultimi tempi, mi era sembrata subire il fascino nero del boss della Comasina. Lui non venne ma, alla fine, la giornalista si accorse dei pedinamenti e il suo direttore telefonò al questore. Dire che io e i miei collaboratori fummo strapazzati per quell’iniziativa è poco. Fatto sta che seppi poi che Vallanzasca era effettivamente andato a trovarla, ma la sera prima che iniziassimo gli appostamenti».
«Non andò proprio così» ribatte Carla Ferrari, all’epoca giovane cronista giudiziaria di un quotidiano milanese. «In realtà non subivo alcun fascino e non so da che elementi il prefetto Serra possa averlo dedotto. Ero una giornalista che faceva il suo lavoro. Mi occupavo di giudiziaria e mi si chiedevano interviste anche con ergastolani come Vallanzasca. Quella sera arrivò a casa mia, senza preavviso, quell’uomo appena evaso, con tanto di pistola. Non pensai a cattive intenzioni, ma, nonostante fossi in compagnia di un collega, la tensione era davvero alta. Passato lo choc, mi concentrai sul suo racconto pensando di ricavarne un articolo. Tre ore dopo se ne andò facendomi promettere che avrei concordato l’intervista con Umberto Gay di Radio Popolare. Solo il giorno dopo trovai gli agenti della questura sotto casa mia, in un servizio di copertura a dir poco tardivo».
Lo scoop comunque non ci fu perché l’intervista a Radio Popolare la bruciò sul tempo. «Semplicemente, Gay non accettò che il mio articolo uscisse lo stesso giorno della sua intervista alla radio. Ma quando poi fu pubblicato – apparente frutto della conferenza stampa tenuta a Radio Popolare – c’erano molti particolari che testimoniavano invece di una fonte diretta».
Intanto, il mondo stava cambiando. Gran parte dei vecchi amici della banda o non erano più in vita o erano in galera. Anche la “mala” era un’altra: i banditi e i rapinatori come lui avevano fatto il loro tempo, adesso imperava la droga. «Ma che malavita, quella ormai era solo mala vita» dice Vallanzasca. «Per quella gente l’onore era un optional, la parola data non valeva niente e ciò che contava era quasi esclusivamente il dio denaro. Era chiaro che avevo fatto il mio tempo. Mi sentii come un pesce fuor d’acqua».
«È vero» conferma Serra: «ormai alla Comasina (un quartiere della periferia nord di Milano) c’era un’altra generazione criminale, lui avrebbe finito per dare fastidio. I primi che se lo sarebbero venduto sarebbero stati proprio loro». Così, lasciò Milano e andò a nascondersi in una pensioncina di Grado (Go) in attesa dell’opportunità di scappare all’estero. Prese il sole e tirò tardi in discoteca, cercando di non sciupare neppure un minuto della ritrovata libertà. Fu solo quando tentò di mettersi in contatto con un’ammiratrice, che gli aveva scritto in carcere, che fu intercettato. Fu fermato a un posto di blocco, con una pistola che decise di non usare. Era rimasto fuori solo 20 giorni.
Oggi, con 52 anni di galera alle spalle, Vallanzasca è il detenuto italiano in carcere da più tempo. «Da una ventina d’anni a questa parte ho sotterrato l’“ascia di guerra”» spiega. «Stando dentro ci si ritrova con più tempo per meditare e ripensare alle proprie scelleratezze, ed è qui che il carcere diventa oltremodo pesante». Dice Serra: «Sì, sta scontando molti anni, ma io sono del parere che debba continuare a scontarli, considerato che tanta gente è stata uccisa e tanti hanno sofferto per causa sua. Certo oggi non lo ritengo più pericoloso, e quando vedo tanti altri lasciare il carcere penso che ci vorrebbe più equità anche nel suo caso. Non fosse altro, per la sua anziana mamma».
Nel 2005 la quasi novantenne mamma di Renato scrisse all’allora presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, chiedendo la grazia per il figlio. «Non ne ho più saputo nulla» dice Vallanzasca. «Mi aspettavo almeno una risposta, anche negativa. È vero però che negli ultimi mesi ho potuto fare visita alla mia adorata e malandata vecchietta per ben due volte, se pure con abbondante scorta. Quando mi sarà data l’opportunità di recarmi in permesso senza una marea di agenti al seguito, potrò dimostrare di essere un detenuto come gli altri. E forse anche i più restii si convinceranno a darmi ancora una chance».
«Come vedo il mio futuro?» conclude Vallanzasca. «Dare una risposta è impossibile. Sono in galera da tanto tempo, da prima ancora che l’uomo andasse sulla Luna. Posso capire chi pensa che per un assassino come me non sarebbero abbastanza neanche cent’anni di prigione. Ma resta il fatto che io possa e debba continuare a sperare».
A partire dall'8 marzo 2010 Renato Vallanzasca ha usufruito del beneficio del lavoro esterno. Gli venne concesso di uscire dal carcere alle 7.30 per lavorare, e rientrarvi alle 19.00. Ha prestato servizio in una pelletteria, che è anche una cooperativa sociale nel milanese, e ha lavorato in un negozio di abbigliamento a Sarnico in provincia di Bergamo. Il 30 maggio 2011 il Tribunale di Milano ha sospeso Vallanzasca dal beneficio del lavoro esterno perché l'ex bandito violava le regole di utilizzo del beneficio, in particolare per incontrarsi segretamente con una donna; inoltre, sempre nel mese di maggio 2011, la Corte di Cassazione ha condannato Vallanzasca a rimborsare allo Stato le spese di mantenimento in carcere. Nel febbraio 2012 ha riottenuto il beneficio di poter lavorare all'esterno del carcere, come magazziniere. Perde dopo poco il lavoro per una protesta popolare che non voleva il bandito così vicino alla famiglia dell'agente Barborini ucciso nello scontro a fuoco di Dalmine. Nel dicembre 2012 ha riottenuto il permesso di lavoro esterno presso una ricevitoria.
Il 13 giugno 2014, intorno alle ore 20, durante il regime di semilibertà concessogli dal carcere di Bollate, tenta di taccheggiare un supermercato di Milano (nel tentativo di appropriarsi di biancheria intima e materiale da giardinaggio), arrestato dai carabinieri, viene processato per direttissima per il reato di rapina impropria.
Per questo fatto il 14 novembre seguente viene condannato a 10 mesi di reclusione più 330 euro di multa con l'accusa di tentata rapina impropria aggravata.
Con questa nuova condanna Vallanzasca non ha più ottenuto benefici durante la detenzione. Nella sua "carriera criminale" è stato condannato, complessivamente, a quattro ergastoli e 295 anni di reclusione.
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un evento così importante dal cinema https://altadefinizioneita.me/anime-cartoon/ per godersi i momenti
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