Buongiorno, oggi è il 10 aprile.
La sera del 10 aprile 1991, presso il porto di Livorno, una nave traghetto con a bordo decine di persone si scontra con una nave petroliera che trasporta ingenti quantità di carburante grezzo: è l’incidente marittimo più grave della storia italiana dal secondo dopoguerra. La nave traghetto in questione è la Moby Prince, a bordo ci sono oltre 140 persone, tra passeggeri e membri dell’equipaggio, che moriranno in seguito alla collisione e all’incendio sviluppatosi immediatamente dopo. Un giovane mozzo è l’unico sopravvissuto al disastro, ma nemmeno la sua testimonianza diretta riuscirà mai a chiarire le reali cause e responsabilità per l’accaduto.
La vicenda della Moby Prince si intreccia con altri misteri riguardanti il nostro passato, come il caso dell’assassinio della giornalista Ilaria Alpi e dell’operatore Miran Hrovatin , avvenuto in Somalia nel 1994, o come l’agguato di mafia in cui Mauro Rostagno rimase ucciso in Sicilia nel 1988. Ciò che accomuna queste vicende, apparentemente tra loro distanti sia dal punto di vista geografico che dal punto di vista temporale, sarebbe la “regia” che c’è dietro.
Quando la Moby Prince salpa da Livorno sono le 22:03 e la situazione nel porto sembra tranquilla, così come dovrebbe essere. Nulla lascia presagire ciò che sta per accadere, anche perché le condizioni climatiche sono ottimali, la visibilità è pertanto buona, eppure nel giro di 22 minuti dalla partenza la Moby Prince va a impattare una nave dell’Agip Abruzzo ferma in sosta, colpendola proprio nel punto in corrispondenza del quale vi è una cisterna contenente centinaia di tonnellate di petrolio non ancora scaricate. La susseguente fuoriuscita di materiale liquido altamente combustibile alimenta le fiamme, che investono la parte anteriore del traghetto, fino ad avvolgerlo: è l’inizio del disastro, sul quale non quadrano (e non quadreranno ancora fino ad oggi) troppe cose.
Innanzitutto appare decisamente assurdo e inspiegabile l’errore di valutazione della rotta da parte del comandante della Moby Prince e dei suoi collaboratori, soprattutto considerando che in questo specifico caso il personale a bordo è composto da professionisti esperti con anni di navigazione alle spalle e, in base ai pareri di alcuni loro colleghi, nemmeno dei principianti sarebbero incappati in una simile, fatale, distrazione. Altro fatto anomalo è che negli stessi istanti in cui si consuma la tragedia vengono registrate comunicazioni in lingua inglese tra due navi (evidentemente militari, è risaputo che in Toscana vi è un’importante base americana nei pressi di Pisa, la Camp Darby, avente attività anche nel porto di Livorno), che assistono al sinistro e che decidono di prendere il largo e sparire dalla scena, ebbene: queste navi statunitensi “ufficialmente” lì non ci dovrebbero essere (tra l’altro, non è affatto escluso che fossero più di due). Poi vi è un inconcepibile ritardo nei soccorsi (inconcepibile specie dopo che si è appurato che la causa di morte degli sfortunati passeggeri è da attribuire in primis all’esalazione del fumo tossico e non alle ustioni): la prima nave a essere raggiunta è quella dell’Agip Abruzzo, la quale si è intanto disincagliata dalla nave traghetto (accendendo i motori e operando una manovra evasiva) e sulla quale per tutta la notte si concentreranno praticamente quasi tutti gli sforzi per limitare i danni, mentre la Moby Prince (nel frattempo allontanatasi alla deriva) viene raggiunta addirittura dopo circa un’ora e mezza da una sola imbarcazione, che trarrà in salvo l’unico superstite, il mozzo Alessio Bertrand (italiano, originario di Napoli), il quale è rimasto tutto il tempo aggrappato al parapetto della poppa. Infine, vi è da far notare l’ingiustificata risolutezza e tempestività da parte del comandante del porto di Livorno (l’Ammiraglio Sergio Albanese) nell’attribuire da subito le cause dell’incidente all’errore umano, tirando fuori l’incongruenza della scarsa visibilità a causa della nebbia, ipotesi poi avallata dall’allora Ministro della Marina Mercantile, Carlo Vizzini. Ma il pretesto delle non buone condizioni atmosferiche è comunque smentito da testimonianze confermate e suffragate da più parti. Le stesse testimonianze parlano, inoltre, dell’avvistamento di un elicottero proprio in quei momenti sul luogo della sciagura, velivolo di cui “ufficialmente” non si saprà mai più nulla, ma che si presume fosse di supporto alle navi statunitensi.
Fin qui la ricostruzione degli eventi, fatta in base a riscontri oggettivi (che sembrerebbero più plausibili di quelli “ufficiali”), mentre dai risultati delle indagini della magistratura non sarà possibile arrivare a una verità certa. Infatti, la procura di Livorno apre subito un fascicolo di inchiesta per omissione di soccorso e omicidio colposo e nel 1997 il primo processo in merito si concluderà con la sentenza di assoluzione di tutti gli imputati <<perché il reato non sussiste>>, sentenza parzialmente riveduta in appello. In seguito, la terza sezione penale di Firenze dichiarerà di non poter procedere per intervenuta prescrizione di reato. Un altro filone d’inchiesta, aperto dalla procura di Livorno nel 2006, non porterà a nessuna conclusione utile.
Della tragedia del Moby Prince rimangono le 140 vittime (sarebbe questo l’esatto numero accertato) e l’inconsolabile dolore dei loro familiari, i quali continuano a combattere per la verità e la giustizia; ma rimangono anche altri inquietanti interrogativi, che continuano a gettare ombra sulla vicenda, come la confessione del nostromo Ciro Di Lauro rilasciata durante un’udienza, nella quale si autoaccusa di aver tentato invano di manomettere il timone della Moby Prince (senza appunto riuscirvi, a causa dell’integrità del meccanismo compromessa dall’incendio), probabilmente per cercare di corroborare la mai comprovata tesi dell’errore umano, oppure come la vicenda che vede protagonista Fabio Piselli, ex parà, militare esperto con molti anni di servizio in delicate operazioni di intelligence in giro per il mondo. Fabio Piselli è tra i primi soccorritori dopo la sciagura, nei giorni successivi all’incidente lavora sulla Moby Prince. Nel novembre 2007 subisce un’efferata aggressione, proprio prima di recarsi all’incontro con l’avvocato dei parenti delle vittime del disastro, al quale avrebbe potuto fornire verità scomode. Dopo essere stato neutralizzato con la forza, l’ex parà militare viene chiuso nella propria auto, la vettura viene data alle fiamme, Fabio Piselli riesce a tirarsi fuori dall’abitacolo e a salvarsi per miracolo. Racconterà alla stampa quanto occorsogli, naturalmente i tg nazionali danno grande risalto alla vicenda. In base alle sue teorie, sulla Moby Prince avrebbero agito dei dirottatori preparati e avvezzi a questo tipo di operazioni, con l’intento di creare un diversivo per distogliere l’attenzione da (o forse intralciare) qualcos’altro, ma gli stessi sabotatori non avrebbero previsto un simile epilogo, rimanendo a loro volta coinvolti nel disastro. Per questo motivo permarrebbero dubbi anche sul reale numero delle vittime.
Come già accennato, quella sera nel porto di Livorno c’era una grande attività di navi “non registrate”, pare che il tutto sia da collegare al traffico d’armi (in cambio di rifiuti tossici, tra l’Africa e l’Occidente) gestito “dall’alto”, quindi da ambienti legati alla massoneria, ai servizi segreti “deviati”, alla politica “corrotta”, alla mafia. Proprio questa ipotesi complottista (ma non per questo meno attendibile di altre comunque mai dimostrate) è ciò che accomuna le storie di Mauro Rostagno, Ilaria Alpi e la tragedia del Moby Prince. Recentemente i familiari delle vittime hanno chiesto l’intervento dell'allora presidente statunitense Barack Obama, ma gli USA hanno sempre negato l’accesso alle informazioni satellitari in loro possesso: eventuali importanti immagini della zona dell’incidente potrebbero essere state registrate in quella maledetta sera del 10 aprile 1991.
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