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Il 2 agosto 216 a.C. ebbe luogo la battaglia di Canne, la più grande battaglia della seconda guerra punica, considerata tuttora un capolavoro dell’arte militare, il più riuscito esempio di manovra di accerchiamento compiuta da un esercito numericamente inferiore agli avversari.
Gran parte degli storici identifica il luogo della battaglia vicino a Canne nei pressi del fiume Ofanto, poco distante dalla città di Barletta, in Puglia.
Alcuni esperti, in conformità a recenti studi basati sull’esame dei documenti storici sulla battaglia di Canne e dei rilevamenti archeologici, hanno dimostrato che il luogo della battaglia sia da identificarsi non a Canne bensì più a nord, sulla riva destra del fiume Fortore in località Ischia Rotonda vicino a Carlantino al confine tra Puglia e Molise (dalla parte pugliese), non molto distante da Campobasso.
Altri storici localizzano il luogo della battaglia di Canne nella valle del Celone presso Castelluccio Valmaggiore, un po’ più a sud.
Dopo aver completato l'unificazione dell’Italia peninsulare, i Romani si dovettero confrontare con Cartagine, superiore a loro per ricchezze, organizzazione militare ed esperienza politica. Era in gioco il predominio nel Mediterraneo: Roma poteva trasformarsi in una repubblica imperiale padrona del Mediterraneo occidentale o sparire di scena senza quasi lasciare traccia.
La vittoria della prima guerra punica aveva evitato il pericolo di una caduta e rafforzato la Repubblica oltre ogni previsione del Senato e del popolo romano. La Sicilia era diventata la prima provincia romana e il crollo dell'egemonia cartaginese aveva fatto di Roma la maggiore potenza del mondo antico.
Cartagine, però, non si rassegnava alla sconfitta e per porre rimedio alle perdite subite si volse alla Spagna dove, sulle coste meridionali, i Fenici avevano da secoli le loro più ricche colonie. Aiutata dalla famiglia dei Barcidi, estese la sua egemonia all'interno della penisola iberica fino alla linea del fiume Ebro approfittando del fatto che Roma fosse impegnata su altri fronti. Preoccupata dei successi cartaginesi in Spagna la colonia greca di Marsiglia, nel 225 a.C. convinse i suoi alleati romani a inviare ambasciatori ad Asdrubale. Ne seguì un trattato il cosiddetto “trattato dell’Ebro” per stabilire le rispettive sfere d’influenza nella penisola iberica, secondo il quale Cartagine non avrebbe esteso la sua espansione sul territorio spagnolo oltre il limite segnato dal fiume Ebro e Roma avrebbe mantenuto il controllo del territorio spagnolo nord-orientale, a difesa delle colonie dei Marsigliesi. Roma, però, nello stesso tempo aveva stretto alleanza con Sagunto, città iberica posta a sud dell’Ebro e quindi nella sfera di egemonia cartaginese, e questa sarà la causa scatenante della seconda guerra punica.
Infatti, nel 221 a.C., il comando delle milizie puniche in Spagna passò ad Annibale, contrario agli accordi con Roma. Era convinto, a ragione, che se Cartagine voleva continuare a esistere doveva riprendere il dominio del mare occidentale, e quindi eliminare Roma trascinandola in guerra. Annibale attuò pertanto una decisa politica di aggressione e nel 220 a.C. mise sotto assedio la città di Sagunto che, pur situata a sud dell’Ebro e quindi in una zona d’influenza cartaginese, era anche alleata dei romani. Quando Sagunto cadde e Roma ne pretese I'immediata restituzione, il secco rifiuto cartaginese costrinse Roma a dichiarare guerra alla rivale: nel marzo del 218 a.C. Romani e Punici scendevano in armi per la seconda volta.
Anticipando i Romani che si preparavano a un’offensiva in Africa e in Spagna, Annibale con un imponente esercito di 26 mila uomini, rafforzato dalle eccellenti truppe spagnole ben allenate alla disciplina militare dalle dure campagne condotte nella penisola iberica e da più di trenta elefanti da guerra, passò l'Ebro, superò i Pirenei e si diresse verso le Alpi. Eludendo gli eserciti romani che cercarono di intercettarlo a Marsiglia, varcò le Alpi in appena quindici giorni, probabilmente attraverso il Gran San Bernardo, il Moncenisio e il passo Clapier, con una marcia massacrante in cui andarono perduti uomini e animali, ma riscuotendo l’immediato sostegno dei Boi e degli Insubri. Nell'autunno del 218 a.C. si presentava nella pianura padana portando la guerra nei territori romani di più recente acquisizione.
Dopo l'inverno del 217 a.C. passato nell'Italia settentrionale, I'esercito cartaginese ruppe le difese dei valichi appenninici e marciò su Perugia, inseguito lungo la sponda del lago Trasimeno dalle legioni del console Gaio Flaminio. Annibale attaccò di sorpresa le truppe del console e le annientò la mattina del 22 giugno, lo stesso Flaminio fu tra le vittime, poi sbaragliò la cavalleria del secondo console, Gneo Servilio, che giunse in ritardo sul campo.
L'esercito cartaginese, ora, minacciava direttamente Roma. Vedendosi in pericolo il Senato soppresse le magistrature ordinarie e nominò dittatore Quinto Fabio Massimo che evitò ogni scontro decisivo con i Cartaginesi, preferendo una tattica di contenimento e di logoramento e quindi accontentandosi di infastidire il nemico e di rendergli impossibile l'approvvigionamento.
Nel 216 a.C., scaduto il suo mandato, il potere fu restituito ai consoli. Furono eletti Lucio Emilio Paolo e Gaio Terenzio Varrone. I due nuovi consoli, per non lasciare ancora a lungo il territorio degli alleati italici in balia dell'esercito cartaginese, decisero di attaccare Annibale in Apulia, dove Varrone diede battaglia campale presso il villaggio di Canne. La sconfitta che i Romani subirono a Canne fu tremenda, la più grave che la storia della Repubblica registri.
La battaglia di Canne si aprì con una serie di schermaglie della cavalleria: sulla sinistra romana, i cavalieri italici non riuscirono ad agganciare gli elusivi Numidi, mentre sulla destra fu la cavalleria celtica e iberica a caricare.
La cavalleria pesante di Annibale a Canne compì un'azione non comune nella storia militare: fece ben tre cariche nell’arco della battaglia, dimostrando di essere non solo sotto controllo, ma eccezionalmente misurata nello sforzo. Innanzitutto sulla sua ala caricò la cavalleria romana che, stretta com'era tra il fiume e la fanteria che stava avanzando, cedette dandosi alla fuga.
Invece di mettersi all'inseguimento dei fuggitivi, si raccolse e, muovendo sul retro della fanteria romana che stava attaccando il centro avanzato dello schieramento cartaginese, con una seconda carica piombò addosso agli Italici ancora impegnati contro i Numidi. Nel frattempo il centro punico aveva già cominciato a indietreggiare lentamente, incalzato dalle pesanti colonne romane, sempre più compresse al centro a causa del progressivo convergere dei legionari all’istintiva ricerca di un contatto con il nemico.
Con il ripiegare lento e continuo di galli e iberici, lo schieramento mantenne la forma ad arco ma passò dall’arco convesso iniziale ad un arco concavo. Era quello che Annibale attendeva e sperava. La fanteria romana si era spinta troppo avanti e, senza la protezione della cavalleria ormai in fuga, si trovò ai lati i veterani africani che chiusero la morsa, con perfetto sincronismo. Operarono un cambio di fronte e caricarono con forza portando scompiglio nelle serrate formazioni romane. La trappola di Canne è chiusa. La cavalleria pesante cartaginese, che aveva avuto la meglio sui cavalieri italici, assesta il colpo mortale ai romani caricandoli alle spalle. I Numidi, intanto, si gettavano ali'inseguimento dei nemici in fuga. La fanteria romana era ormai circondata, costretta a combattere in spazi sempre più ridotti, comincia allora il massacro. Ogni elemento dell'esercito ha fornito un contributo essenziale ed irrinunciabile alla riuscita dell'impresa di Annibale a Canne.
Nonostante la superiorità numerica, a Canne le legioni romane furono letteralmente fatte a pezzi.
La battaglia di Canne fu la peggiore disfatta della storia di Roma, cadde il console Emilio Paolo; cadde il console dell'anno precedente, Gneo Servilio; cadde l’ex maestro dei cavalieri Minucio Rufo; e con essi, tra la folla dei morti anonimi, perirono entrambi i questori, ventinove tribuni militari, cioè quasi tutta l'ufficialità legionaria, ottanta senatori e un numero imprecisato di cavalieri. La grande armata romana, inviata a Canne per distruggere l'esercito di Annibale, è stata annientata: anche ad accettare non le cifre, spaventose e forse eccessive di Polibio, che parla di ben 70.000 morti, ma quelle più contenute di Tito Livio, Roma lascia sul campo della battaglia di Canne 47.500 fanti e 2.700 cavalieri, mentre 19.000 sono i prigionieri. Solo a 15.000 dei suoi uomini è possibile fuggire, tra cui il console Terenzio Varrone, responsabile del disastroso piano di battaglia.
Annibale a Canne perse 6.000 Galli, 1.500 Spagnoli e Africani e 200 cavalieri: aveva ottenuto la più brillante vittoria della sua carriera di generale e si consacrava uno dei più grandi condottieri della storia.
Roma assorbì il colpo della terribile sconfitta a Canne con insospettata energia. La sua immutata supremazia sul mare impediva che da Cartagine e dalla Spagna affluissero all'esercito di Annibale rifornimenti e truppe fresche, il conflitto, dopo Canne, si trasformò in una guerra di esaurimento.
Naturalmente la schiacciante vittoria cartaginese a Canne favorì alcune defezioni: Capua aprì le porte ad Annibale, Bruzi e Lucani abbandonarono Roma, come Siracusa. L’Italia centrale però restò fedele alla Repubblica e il ritorno alla strategia attendista di Fabio Massimo permise a Roma di riguadagnare gradualmente le posizioni perdute nel sud Italia.
Mentre Annibale si trovò in difficoltà, non riuscendo ad ottenere nuovi alleati e rinforzi per il suo esercito, Roma, con enorme sforzo, dopo la disfatta di Canne, riuscì a ricostruire il suo esercito fino ad avere ben 25 legioni.
Nel 214 a.C. Siracusa passò ad Annibale e contemporaneamente il re Filippo V di Macedonia si alleò con i cartaginesi contro Roma, ma nel 211 a.C. il console Claudio Marcello riconquistò Siracusa e l’intervento di Filippo V fu neutralizzato sul piano diplomatico.
Nel 210 a.C. il giovane generale Publio Cornelio Scipione, figlio del console che nel 218 a.C. era stato battuto sul Ticino, passò al contrattacco in Spagna, tra il 209 a.C. e il 208 a.C. batté ripetutamente ben tre eserciti cartaginesi.
Nel 207 a.C. Asdrubale, battuto da Scipione, riuscì ad attraversare le Alpi e a presentarsi nella pianura padana, con l’intenzione di unirsi al fratello Annibale. Ma i consoli in carica Caio Claudio Nerone e Marco Livio Salinatore, riuscirono nella valle del Metauro a sbaragliarlo. Annibale non poteva più contare sui rinforzi dalla Spagna e disperando di ottenere soccorsi dalla madrepatria, si vide costretto a ritirarsi nel Bruzio.
Roma comprese che, se voleva costringere Annibale ad abbandonare l'Italia, doveva spostare la guerra in Africa. Così nel 204 a.C. Scipione, riprendendo il progetto fallito cinquant’anni prima ad Attilio Regolo, minacciò Cartagine direttamente in Africa. Guadagnatosi l'alleanza del principe Massinissa di Numidia, per tutto l'anno 203 a.C. vinse ripetutamente gli improvvisati eserciti cartaginesi. La città fenicia, subiti i primi scacchi, richiamò Annibale in patria.
Finalmente il 29 ottobre del 202 a.C. Annibale e Scipione si affrontarono a Zama che, diversamente da Canne, segnò la definitiva sconfitta di Cartagine.
Il trattato di pace imposto da Roma era durissimo, anche se non tale da annientare del tutto Cartagine: le clausole fondamentali prevedevano la consegna di tutta la flotta, tranne dieci navi e il pagamento di una fortissima indennità; Cartagine inoltre doveva rinunciare a tutti i suoi possedimenti al di fuori dell’Africa e riconoscere ai suoi confini un potente regno di Numidia governato da Massinissa, una sorta di gendarme di Roma in Africa; ai Cartaginesi inoltre non era concesso dichiarare guerra senza il permesso di Roma.
Da quel momento Roma poteva guardare al di fuori d'Italia non più come una delle potenze del Mediterraneo, ma come la potenza egemone del mare interno. Di lì a poco altre sfide, con gli eredi ellenistici del grande Alessandro aspettavano la Repubblica: la via dell'Impero era segnata.
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