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martedì 12 marzo 2013

Le #opere d'arte più belle sono di aspetto sereno, indecifrabile spietato - Joseph #Roth, La mia vita di uomo, #citazione


Nel secondo semestre di quel - non ci sono altre parole per dirlo; se puzza di soap opera non è per caso - di quell'anno fatale, mi chiesero di insegnare, oltre al mio programma abituale, anche al corso serale di «scrittura creativa» nella sede distaccata dell'università giú in centro, un'unica sessione di tre ore consecutive ogni lunedí sera, per uno stipendio di duecentocinquanta dollari al semestre. Mi parve un'altra manna dal cielo: una traversata andata e ritorno a tariffa turistica sul transatlantico Rotterdam. Quanto agli studenti, erano a malapena al corrente delle regole della sintassi e dell'ortografia, e di conseguenza, scoprii, non capirono un acca del discorso introduttivo alla cui preparazione, con la mia tipica scrupolosità, avevo dedicato un'intera settimana in vista del nostro primo incontro. 


Col titolo "Strategie e intenzioni della narrativa", era pieno di lunghe e (pensavo) «salienti» citazioni dalla Poetica di Aristotele, dalla corrispondenza di Flaubert, dai diari di Dostoevskij e dalle prefazioni critiche di James... Citavo solo dai maestri, mi riferivo solo a monumenti: "Moby Dick", "Anna Karenina", "Delitto e castigo", "Gli ambasciatori", "Madame Bovary", "Ritratto dell'artista da giovane", "L'urlo e il furore".

“Quello che nell'Arte mi sembra il piú alto e difficoltoso conseguimento non è suscitare in noi riso o lacrime, rabbia o lussuria, ma fare quel che fa la natura: vale a dire colmarci di stupefazione. Le opere piú belle hanno in effetti tale qualità. Sono di aspetto sereno, indecifrabili... spietate”.

Flaubert in una lettera a Louise Colet («1853, - spiegai loro in responsabile tono erudito, - da un anno stava scrivendo Madame Bovary»).

“La casa della narrativa in breve non ha una sola finestra ma un milione... ognuna delle quali è stata aperta, o è ancora apribile, sulla sua vasta fronte, dalla necessità della visione e dalla pressione della volontà individuale”.

James, la prefazione a "Ritratto di signora". Conclusi con una lunga lettura dalla fondamentale introduzione di Conrad al "Negro del «Narcissus» " (1897):

“L'artista scende dentro di sé, e nella solitudine di questa regione di travagli e lotte, se ne è degno e se ne ha la fortuna, egli scopre i termini del suo richiamo. È un richiamo rivolto alle nostre facoltà meno palesi: a quella parte della nostra natura che, per lo stato di guerra dell'esistenza, è mestiere tenere nascosta dentro a qualità piú dure e resistenti - come il corpo vulnerabile in un'armatura d'acciaio. Il suo richiamo è meno altisonante, piú profondo, meno preciso, piú toccante - e piú rapidamente dimenticato.

Eppure il suo effetto è eterno. La sapienza in continuo mutamento delle generazioni che si susseguono scarta idee, contesta fatti, demolisce teorie. Ma l'artista si richiama a quella parte dell'esser nostro che non dipende da sapienza; a ciò che in noi è dono e non cosa acquisita - piú durevole, quindi, e permanente. Egli parla alla nostra facoltà di gioia e di meraviglia, al senso del mistero che circonda le nostre vite; al senso della pietà, della bellezza, e del dolore; al sentimento latente di comunanza col resto del creato - e all'elusiva ma invincibile fede in una solidarietà che unisce la solitudine di cuori innumerevoli, a quella solidarietà nei sogni, nella gioia, nel dolore, nelle aspirazioni, nelle illusioni, nella speranza, nella paura, che lega gli uomini l'uno all'altro, che lega tutta insieme l'umanità - i morti ai vivi e i vivi a coloro che verranno...”

Quando terminai di leggere le mie venticinque pagine e chiesi se c'erano domande, con mia sorpresa e delusione ce ne fu solo una; dato che la persona con la mano alzata era l'unica nera della classe, mi domandai se, dopo tutto quel che avevo detto, lei avesse intenzione di spiegarmi che era stata offesa dal titolo del romanzo di Conrad. Stavo già preparandomi una risposta che prendesse spunto dalla sua suscettibilità per affrontare il tema della franchezza nella narrativa - della narrativa come smascheramento dei segreti e dei tabú - quando quella donna magra di mezza età in severo abito scuro e berretto senza tesa si alzò in piedi mettendosi sull'attenti in segno di rispetto: - Professore, so che quando si scrive una lettera amichevole a un bambino, sulla busta si scrive «Signorino». Ma se si scrive una lettera amichevole a una bambina? Si scrive «Signorina»... o cosa si deve scrivere?

(Joseph Roth, “La mia vita di uomo”, Torino, Einaudi, 2011, p. 69 ss.)

(nell’immagine, Alan Rankle & Kirsten Reynolds – “Contagious Magic Study” - 2010 - olio e acrilico su tela, dahttp://emanuelebeluffi.wordpress.com/category/pittura/page/3/ )

1 commento:

  1. «La mia vita di uomo» qui ampiamente citata, è un libro di *Philip* Roth, non di *Joseph* Roth. Sempre attenzione alle citazioni pescate in giro per l'internet… :-)

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