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martedì 12 marzo 2013

Il #corpo non è il corpo ma l'idea del corpo, Enrico #Borla, "Abbecedario critico, #Vergogna", #citazione


Sartre scrisse: “La vergogna, non è il sentimento di essere questo o quell'oggetto criticabile; ma in generale di essere un oggetto, cioè di riconoscermi in quell'essere degradato, dipendente e cristallizzato che io sono per gli altri. La vergogna è il sentimento della caduta originale, non del fatto che abbia commesso questo o quell'errore, ma semplicemente del fatto che sono caduto nel mondo, in mezzo alle cose, e che ho bisogno della mediazione d'altri per essere ciò che sono. Il pudore e, in particolare, il timore di essere sorpreso in stato di nudità non sono che specificazioni simboliche della vergogna originale: il corpo simbolizza qui la nostra oggettività senza difesa. Vestirsi significa dissimulare la propria oggettività, reclamare il diritto di vedere senza essere visto, cioè di essere puro soggetto. Per questo il simbolo biologico della caduta, dopo il peccato originale, è il fatto che Adamo ed Eva capiscono di essere nudi.”. 

La parola vergogna dal latino vereor, significa rispetto, timore, mentre il corrispettivo inglese, shame, si ricollega alla radice indoeuropea kam, che significa nascondere, coprire; dunque l'uno mette l'accento sulla motivazione scatenante,positiva:il senso di rispetto, l'altra sull'azione conseguente, il nascondere, velare.
Dal punto di vista la vergogna viene descritta come un improvviso e sgradevole senso di nudità, di sentirsi scoperti, spogliati, smascherati, con il conseguente desiderio di sparire, di sprofondare, di diventare invisibili, una sorta di profondo turbamento, di disorientamento e di blocco dell'azione. Quando cade la maschera, ciò con cui ci si tende a coprire l'immagine di sé, si diventa improvvisamente visibili all'occhio esterno, alla vista degli altri ma anche alla propria. Ci si percepisce nudi, esposti allo sguardo, visti per come si è e non si ci si sarebbe voluti mostrare. Il corpo diventa il supporto da nascondere: la mimica della vergogna lo esprime bene con i gesti di ripiegamento su se stessi, l'abbassare gli occhi, il coprirsi la bocca e le altre parti del corpo, prime fa tutte i genitali.
Il sentimento della vergogna è quindi connesso non tanto a ciò che si fa o si è fatto, il che rimanderebbe di più alla colpa, quanto a ciò che si è. A ciò che si è nella propria nudità.
Nel tempo ove il senso di vergogna culminò, il secolo della regnante Vittoria, nell’immaginario occidentale i “selvaggi”si presentavano nudi. Due secoli di etnografia e di documentari ci hano mostrato tuttavia che nessuna popolazione è completamente nuda. Solo i bambini o gli adulti in determinati contesti possono esserlo, per il resto il corpo non è mai quello naturale ma sempre è decorato decorato scarnificato, rimodellato ai fini di celarlo allo sguardo. 
Ogni società stabilisce ciò che deve essere coperto e ciò che può restare senza indumenti, sicuramente nella totalità dei gruppi umani le parti del corpo da coprire sono gli organi genitali. Tuttavia questo concetto è estremamente elastico. Se nella cultura occidentale è considerata buona norma coprirsi il seno poiché correlato alla sfera della sessualità, in molte culture africane il seno, connesso alla funzione dell'allattamento, viene mostrato, mentre sono le cosce a dover restare. All’opposto in un'isola del Gaeltacht (Irlanda), basta essere sorpresi senza calzini per provare un forte sentimento di vergogna; gli isolani hanno orrore della nudità e per questa ragione si lavano soltanto la faccia, il collo, le braccia, le mani e le gambe sotto le ginocchia; molti si rifiutano di farsi visitare durante una malattia per la paura di doversi spogliare, e persino la nudità degli animali domestici (cani e gatti) parrebbe essere causa di angustie e imbarazzo, soprattutto nel periodo dell'eccitamento sessuale. 
E’ vero che dal Rinascimento in poi si è sempre idealisticamente sottolineato il fatto che nella Grecia classica vigesse una forte libertà nel presentarsi nudi in combattimento e durante le gesta atletiche. In realtà il senso del pudore non era completamente svincolato dal concetto di nudità, soltanto che quest'ultima veniva ammessa in determinate occasioni e assumeva significati del tutto particolari. 
Ad esempio i greci erano sinceri ammiratori del pene dei fanciulli, purché questo fosse interamente ricoperto dal prepuzio. Durante gli esercizi fisici solevano legarsi il prepuzio sulla parte anteriore, in modo che non scivolasse inavvertitamente all'indietro. Un prepuzio corto era segno di un'eccessiva attività sessuale e la nudità del glande era, secondo il costume e i canoni estetici greci, riprovevole e imbarazzante. Tanto che a partire dall'epoca in cui gli ebrei fecero ingresso nei ginnasi venne emanato un provvedimento secondo il quale potevano partecipare ai giochi olimpici unicamente quelli che si erano fatti nuovamente allungare il prepuzio. 
Di nuovo il corpo non è il corpo ma l’idea del corpo, il corpo nella sua verità rimane tabù a livello sociale, perchè il corpo è innanzitutto un patrimonio sociale.
Fra i tangba del Benin settentrionale (Africa occidentale) si fa esplicitamente ricorso alla nudità al fine di segnare importanti distinzioni sociali.I sacerdoti della terra (boro-te), discendenti dei clan autoctoni e primi occupanti delle colline sono soliti circolare seminudi però sempre con l'immancabile pipa e un cappello rotondo di rafia intrecciata. L’aumento dei vestiti o l’eliminazione dei cappelli e delle pipe andrebbe incontro a rotture di tabù passabili di condanna a morte.
Gli stessi nudisti ritengono che la nudità sia asessuale, svincolata dall'erotismo e utile per reprimere i bruti istinti sessuali. Il nudismo non fu teorizzato come sfida anticonformistica alle costrizioni della cultura dominante, ma come una pratica in grado di liberare l'essere umano dai lacci degli istinti, uno strumento per ritrovare un rapporto sano e naturale fra i due sessi, aspirando a una purezza non turbata dall'eccitazione sessuale. Pertanto benché i nudisti ritengano che la nudità sia svincolata dall'erotismo e che la vista reciproca dei corpi nudi inibisca l'istinto sessuale, nei campi riservati in cui si riuniscono vige una precisa autodisciplina nelle interazioni fra individui, nei gesti, nelle movenze e soprattutto nello sguardo reciproco allo scopo di non favorire eccitamenti sessuali. Occorre, infatti, mantenere lunghi contatti visivi, fissandosi vicendevolmente nel viso onde evitare che lo sguardo cada sulle parti del corpo maggiormente connesse alla sessualità. Inoltre, si assumono posizioni convenienti, in particolare quando si resta seduti, al fine di evitare sfacciate e imbarazzanti esibizioni. In altre parole si può essere socialmente nudi a patto che nessuno ti guardi.
La civiltà di un individuo appartenente a una cultura che non prevede l'uso di abiti risiede nello sfiorare la nudità con lo sguardo senza soffermarsi e fissare. 
Per capire quale sia stato il processo mentale che ha portato a considerare la nudità assoluta (ben diversa da quella parziale, mitigata dalla presenza di un perizoma o di altro) come condizione saliente dell'essere umano, è necessario partire dalla constatazione che il corpo umano costituisce un messaggio segnico, socialmente decodificabile. Ecco perché presso i Dogon, essere nudi è essere senza parola: l'essere nudi equivale a essere muti, cioè privi della possibilità di comunicare, e quindi inesistenti; chi è nudo non può avere scambi sociali, è fuori dal contesto. 
Questa concezione negativa della nudità era comune anche a molte civiltà del passato. Nell'antico Egitto, il canone di rappresentazione della figura umana prevedeva la presenza del gonnellino per motivi tecnici, ma anche simbolici: infatti erano completamente nudi soltanto gli schiavi e, soprattutto, i nemici.
Miticamente, nel racconto della Genesi, non si stigmatizzava la nudità in quanto tale, dal momento che Adamo ed Eva vivevano questa condizione anche prima di aver mangiato il frutto proibito dell'albero della Conoscenza: la nudità proveniva da Dio e non poteva che avere valore positivo. È Adamo che ne determinò la connotazione negativa nel momento stesso in cui prese coscienza di essere nudo e se ne vergognò, misurando tutta la distanza che lo separava, lui essere creato, dal suo Creatore nello scoprirsi nudo, ovverosia limitato e caduco. Contemporaneamente la sua nudità fu origine della riproduzione sessuale a cui entrambi i “progenitori” vennero condannati da Dio stesso.
Il nudismo praticato intorno agli anni Trenta, in Germania e in Inghilterra, ispirato alla liberazione dell'uomo fu incorniciato dalle ideologie totalitaristiche le quali crearono un ideale maschile che aveva sì le sue radici nel concetto greco di bellezza, ma si colorava di rigidità morali e intransigenze razziali. D’altronde già nel 1816 per F.L. Jahn, uno dei teorici della ginnastica moderna, i patrioti tedeschi dovevano essere "casti, puri, abili, impavidi, sinceri e pronti a impugnare le armi". Solo in quell’ottica era concesso praticare il nudismo come forma di affermazione dell’arianesimo inscindibile dalla castità o dallo scopo riproduttivo al fine di propagare la razza. 
Al contrario nella seconda parte del Novecento dove la nudità sembra divenire più comune come esibizione estetica priva d’intenti riproduttivi e genetici l’immagine trasmessa si orienta verso una dissoluzione della figura umana nella rappresentazione del disfacimento organico, dalla body art fino alla nascita del corpo postorganico che nulla conserva del corpo nudo nella sua integrità. Al massimo il corpo nudo diviene bidimensionale esposizione di perfezione plastica, priva di reale organicità attraverso foto, cartelloni pubblicitari, carta patinata o video sfavillanti.
La corporeità del terzo millennio oscilla fra il grottesco del pornografico e la plastificazione narcisistica.
Più che animale malato, per dirla alla Hegel, l’uomo appare dunque animale mimetico in quanto unico animale che ha abbandonato la sua natura in quanto troppo debole. Sprovvisto di mezzi propri l’uomo ha provveduto ha imitare gli animali al fine di dominarli. L’imitazione, atto culturale diviene così nell’uomo gesto fondante. Essere originali, essere nudi è tornare ad uno stato animalesco, ma di animale privo di difese e pertanto impaurito, nel senso primigenio di vergogna
I Rgveda vanno anche oltre, ipotizzando nei tardi Satapatha Brahmana che l’uomo venne scorticato dagli dèi. Mitico testo di tempi ancestrali i Rgveda, ribaltano completamente lo sguardo ed il rapporto uomo animale. “Gli dèi dissero: la vacca sostiene tutto quaggiù, su mettiamo sulla vacca quella pelle che sta sull’uomo, e così sarà in grado di sostenere la pioggia e il freddo e il caldo. Di conseguenza, dopo aver scorticato l’uomo, posero la sua pelle sulla vacca. Così l’uomo venne scorticato, perciò quando anche un filo d’erba o qualcos’altro lo taglia, il sangue sgorga. Allora posero quella pelle, la veste, su di lui e per questa ragione soltanto l’uomo indossa una veste, perché gli è stata messa addosso come una pelle. Perciò occorre fare attenzione a essere vestiti bene, in modo da poter essere totalmente rivestiti di pelle. Perciò la gente ama vedere anche una persona brutta vestita bene, perché è rivestita della propria pelle”. 
Con icastica ferocia gli antichi vedici, avevano smascherato il gioco. L’uomo è “naturale” quando è vestito, solo quando è vestito, altrimenti è scorticato. Anche l’uomo brutto diviene visibile solo se ben vestito. Altrimenti è uno scorticato pezzo dicarne come negli atlanti cinquecenteschi che si aprono all’orrore anatomico. 
L’essere totalmente nudi ci getta nella nostra animalità originaria, animalità inguardabile. Non c’è cultura che permetta nudità completa se non hai bambini o a situazioni contingentate dove l’eros può essere controllato. Infatti, l’unico stato che permette la presenza della nudità, dello stato originale è quello che contempla l’eros. La presenza del dio della voluttà sospende l’orrore permettendo la congiunzione dei corpi e l’eccitazione a questo gesto collegata. Ma l’eros anzi la copula è gesto primigenio che accomuna con gli animali.
L’uomo nudo, completamente nudo è imbarazzato, è vergognoso. Egli è disarmato, non ha una pelle per difendersi e anche un filo d’erba può farlo sanguinare. Solo lo stato di eccitazione, la follia dell’eccitazione può permettergli di apparire scorticato senza provare la paura connessa alla vergogna.
Ma questa è la follia dell’eros. La medesima follia che spinge il soldato ad affrontare i proiettili con voluttà, così come il giovane spregiudicato che affronta il pericolo nel gesto sportivo affermando così la propria baldanza erotica. E’ follia dell’incoscienza, è l’assenza di consapevolezza, è la cecità di chi accecato non crede di esser visto e pertanto non prova timore né vergogna.
Tuttavia la nudità è possibile anche nella consapevolezza, nella pienezza della propria mente, senza sentirsi né diminuito, né svergognato. Anzi lo stato di scorticamento è ricercato come atto terminale e decisivo. E’ l’unica eccezione ma forse è anche la follia più grande. Questo stato è permesso dallo sguardo della persona amata. Nello stato dell’amore, che è differente dall’oblio dei sensi dato dalla concupiscenza, noi possiamo stare nudi, dobbiamo essere nudi. Perché lo stato dettato dall’amore perdona anzi desidera il nostro scorticamento.
La nudità è fonte di tale vergogna che anche davanti al nostro stesso sguardo ci ritraiamo. Pochi sono coloro che scelgono nella solitudine la nudità. Lo sguardo proveniente dal nostro occhio non è benevolo, l’orrore del nostro corpo scorticato, è accettabile in pochi contesti rituali: il bagno, il cambio d’abito, stati di transizione a cui siamo a mala voglia soggetti. La carne esultante è permessa solo dalla follia dello sguardo di chi ci ama, così come il nostro occhio può scrutare con lucida benevolenza solo il corpo amato.
La nudità diviene allora offerta, sacrificio all’amato, all’amata. Nudità sacrificale che implica l’assenza di ogni ornamento, di qualsiasi copertura anche se pur minima. Nudità consacrata dall’amore che diviene atto trasformativo che ci strappa, nella sua immensa pietà, dallo stato animalesco alla vertigine della divinità. Si può essere presi da bramosia dei sensi infagottati dalle vesti, impossibile è svelarsi all’amata con gesto di devozione senza aver rinunciato ad ogni velo.
Cosa succede però se il corpo è stato modificato? Se una protesi sotto cutanea ha modificato lo scorticato. Se il naso, il seno, le grandi labbra, se i glutei, l’addome, non sono più carne ma silice, meccanica protesi che veste lo scorticato? Lo sguardo si opacizza, o meglio lo sguardo si posa su delle vesti, che simulano la carne ma che in verità la rivestono, la coprono, la nascondono. Il sacrificio non avviene più, l’ostensione si è velata. La chirurgia plastica nata per atto di pudore, vestito che copre la bruttezza, diviene impedimento allo sguardo d’amore. La trasformazione del corpo sotto la lama del bisturi cuce addosso un vestito ineliminabile. Il corpo si cela e la pelle nuda diviene cotenna e cuoio come quella donata alle vacche. Che permette di non tagliarsi con il semplice filo d’erba dello sguardo altrui ma che forse impedisce la totale svestizione sacrificale davanti all’oggetto amato. La scomparsa della vergogna del corpo plastificato ha un prezzo: l’impossibilità della trasfigurazione del corpo che opera lo sguardo di chi ci ama.


(Enrico Borla, testo inviatoci direttamente dall’autore – Video di Ennio Foppiani, su  http://www.youtube.com/watch?v=WmWoIIbYEgY )

(Immagine da agviaggi.it/viaggio.cfm?id=756 ) 

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