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martedì 12 marzo 2013

E ci guardavamo in silenzio con una freddezza stupefacente e spietata, Orhan #Pamuk, #Istanbul, il #doppio, #citazione


A cinque anni, a un certo punto ero stato mandato in un'altra casa. I miei genitori, dopo la loro separazione, si erano incontrati a Parigi e avevano deciso di lasciare me e mio fratello a Istanbul, ma divisi. Mio fratello era rimasto a Palazzo Pamuk, a Nisantasi, con la nonna paterna e il resto della famiglia. Io invece ero stato mandato dalla zia materna, a Cihangir. Su una parete di questa casa, dove sono sempre stato accolto con affetto e sorrisi, c'era la fotografia di un bambino piccolo, in una cornice bianca. Ogni tanto, ia zia o mio zio, indicando la fotografia, mi dicevano sorridendo: «Guarda, quel bambino sei tu».
Questo bambino grazioso, dagli occhi grandi, sì, mi somigliava un po'.

Anche lui aveva in testa uno di quei berretti che portavo io quando si usciva. Ma al tempo stesso sapevo che non ero esattamente io. (In realtà la fotografia era una riproduzione kitsch, comprata in Europa). Poteva il bambino essere l'altro Orhan cui pensavo sempre, che viveva in quell'altra casa?

Adesso anch'io avevo iniziato a vivere in un'altra casa. Era come se fossi stato obbligato ad andare in un'altra casa per poter incontrare il mio simile che viveva da un'altra parte a Istanbul, ma io non ero affatto contento di questo incontro. Volevo tornare a casa mia, a Palazzo Pamuk. Quando mi dicevano che era mia quella fotografia sul muro, nella mia mente tutto si confondeva: io, la mia fotografia, la fotografia che somigliava a me, il mio simile, le immagini di un'altra abitazione si mescolavano e volevo tornare a casa e restare per sempre lì, in mezzo alla mia famiglia.

Il mio desiderio si realizzò e poco tempo dopo tornai a Palazzo Pamuk. Ma l'idea di un altro Orhan che viveva in un'altra casa a Istanbul non mi abbandonò mai. Durante l'infanzia e l'adolescenza, questo pensiero affascinante fu sempre presente in una parte della mia testa che potevo raggiungere con facilità. Nelle sere invernali, camminando per le strade di Istanbul, rabbrividivo al pensiero che in una delle case che mi scorrevano a fianco, con le pallide luci arancioni a illuminare le stanze dove immaginavo che persone felici e serene conducessero un'esistenza tranquilla, vivesse l'altro Orhan. Con il passare degli anni quest'idea si è trasformata in una fantasia, e la fantasia in una scena da sogno. Nei miei sogni, a volte incontravo - gridando quasi fosse un incubo - l'altro Orhan, sempre in un'altra casa, e ci guardavamo in silenzio con una freddezza stupefacente e spietata. Allora abbracciavo ancor più stretto, nel dormiveglia, il mio cuscino, la mia casa, la nostra strada, il luogo in cui vivevo. Invece, quando mi sentivo infelice, cominciavo a fantasticare di andare in un'altra casa, in un'altra vita, nel posto in cui viveva l'altro Orhan, e poi credevo di essere l'altro Orhan e mi distraevo con i suoi sogni di felicità. E questi sogni mi rendevano così felice che non c'era bisogno di andare in un'altra casa.

Siamo arrivati al tema centrale: dal giorno in cui sono nato, non ho mai abbandonato le case, le strade, i quartieri dove ho vissuto. So che il fatto che dopo cinquant'anni (nonostante abbia abitato anche in altri luoghi di Istanbul) io viva ancora a Palazzo Pamuk, nel posto in cui mia madre mi prese in braccio per farmi vedere per la prima volta il mondo e dove vennero scattate le mie prime fotografie, ha un legame con l'idea dell'altro Orhan in un altro luogo di Istanbul, come una forma di consolazione. E sento che quello che rende speciale la mia storia per me, e attraverso di me per Istanbul, consiste nel fatto di essere rimasto sempre nello stesso posto, anzi per cinquant'anni sempre nella stessa casa, in un secolo contraddistinto da tanta emigrazione, e dalla potenza creativa che ne segue. «Esci un po' fuori, va' in altri luoghi, viaggia», diceva mia madre con tristezza.



(Orhan Pamuk, “Istanbul”, Torino, Einaudi, 2006, testo tratto da wuz.it/recensione-libro/421/recensione-pamuk.html )

(nell'immagine, Egon Schiele, “Autoritratto doppio”, da http://it.wahooart.com/A55A04/W.nsf/Opra/BRUE-6WHKG2?Open&ChangeLangue=ES )

















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