Buongiorno, oggi è il 17 febbraio.
Il 17 febbraio 1992 viene arrestato a Milano, mentre incassa una tangente di sette milioni di Lire al Pio Albergo Trivulzio, Mario Chiesa, presidente dell'Istituto. E' l'inizio di Mani Pulite, l'inchiesta che travolgerà la politica della prima repubblica.
Fu la prima inchiesta di Antonio Di Pietro. Le notizie della corruzione in politica cominciarono ad essere pubblicate dai giornali. Il leader del Psi, primo ad essere colpito dall'inchiesta, Bettino Craxi, negò subito l'esistenza di corruzione a livello nazionale, definendo Mario Chiesa un mariuolo, una "scheggia impazzita" dell'altrimenti integro Partito Socialista.
Nell'aprile 1992 le indagini, iniziate a Milano, si propagarono velocemente ad altre città, grazie alle confessioni degli arrestati e molti industriali e politici, specialmente della maggioranza ma anche dell'opposizione, furono arrestati con l'accusa di corruzione. Una situazione grottesca accadde quando un politico socialista confessò immediatamente tutti i propri crimini a due carabinieri che erano arrivati a casa sua, per poi scoprire che erano venuti semplicemente per notificargli una multa.
Il 2 settembre 1992, il politico socialista Sergio Moroni, accusato di corruzione, si uccise. Lasciò una lettera in cui si dichiarava colpevole, dichiarando che i crimini non erano per il proprio tornaconto ma a beneficio del partito, e accusò il sistema di finanziamento di tutti i partiti. Fondamentale per questa espansione esponenziale delle indagini fu la diffusa tendenza dei leader politici di privare del proprio appoggio i politici meno importanti che venivano arrestati; questo fece sì che molti di loro si sentissero traditi e spesso accusassero altri politici, che a loro volta ne accusavano altri ancora.
Nelle elezioni locali di dicembre, la DC perse metà dei voti. Craxi, dopo aver ricevuto tanti avvisi di garanzia, inerenti anche reati di corruzione, rassegnò in febbraio le dimissioni da segretario del Psi. Nelle nuove elezioni amministrative del 6 giugno 1993 la DC perse nuovamente metà dei voti, e il Partito Socialista praticamente sparì. La Lega Nord divenne la maggior forza politica dell'Italia settentrionale. L'opposizione di sinistra si avvicinò alla maggioranza, ma mancava ancora di unità e di leadership.
Il 5 marzo 1993, il governo presieduto da Giuliano Amato, e in particolare il Ministro della Giustizia Luigi Conso, cercarono di trovare una "soluzione politica" con una nuova legge sul finanziamento dei partiti: il decreto Conso, che fu definito criticamente "il colpo di spugna", il quale prevedeva la rimozione delle pene per molti crimini e introduceva al loro posto piccole infrazioni civili; il risultato sarebbe stato una sorta di amnistia per la maggior parte delle accuse di corruzione. Tra l'indignazione della gente e sollevazioni a livello nazionale, il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro rifiutò di firmare la legge, definendola incostituzionale.
Durante il governo di Carlo Azeglio Ciampi, ex governatore della Banca d'Italia, le indagini su Craxi furono bloccate dal Parlamento: ad aprile la Camera dei deputati negò la autorizzazione a procedere per Craxi. Quattro ministri del governo, pur essendo in carica da soli tre giorni, diedero le dimissioni per protesta il 29 Aprile: tra di loro c'era Francesco Rutelli, Ministro dell'Ambiente.
A metà marzo fu reso pubblico uno scandalo per 250 milioni di dollari, riguardante l'Ente Nazionale Idrocarburi (ENI): questo scandalo si risolse tragicamente quando, il 20 luglio 1993, l'ex-presidente dell'ENI, Gabriele Cagliari, si uccise in carcere. In seguito, sua moglie restituì oltre 6 miliardi di lire di fondi illegali.
Nel frattempo iniziò il processo a Sergio Cusani il quale era accusato di crimini collegati ad una joint venture tra ENI e Montedison (la più antica industria di energia in Italia, Montecatini Edison Spa), chiamata Enimont. Il processo fu diffuso sulla televisione nazionale, e fu una specie di passerella di vecchi politici messi a confronto con le loro responsabilità.
Anche se Cusani non era una figura di primo piano, il fatto che i crimini di cui era accusato fossero collegati all'affare Enimont coinvolse come testimoni molti politici di primo piano. Il culmine del processo Cusani fu quando l'ex Presidente del Consiglio, Arnaldo Forlani, rispondendo ad una domanda, disse semplicemente "Non ricordo"; nelle fotocolor e nelle riprese video fatte dai giornalisti, Forlani appariva molto nervoso, e non si rese conto della saliva che si accumulava sulle sue labbra; questa immagine assurse a simbolo del disgusto popolare per il sistema di corruzione. Bettino Craxi invece ammise che il suo partito aveva ricevuto 93 milioni di dollari di fondi illegali.
La sua difesa fu "lo facevano tutti". Persino la Lega Nord fu coinvolta nel processo; il suo segretario Umberto Bossi e l'ex tesoriere Alessandro Patelli furono condannati per aver ricevuto 200 milioni di finanziamenti illegali. Anche il Partito Comunista Italiano fu accusato di corruzione, ma non fu possibile provare chi avesse commesso i fatti: in proposito il Pubblico Ministero Antonio Di Pietro affermò che non si fece tutto il possibile per individuare i responsabili del Partito Comunista che avrebbero commesso i reati di corruzione.
In marzo, quando Di Pietro richiese una rogatoria internazionale ad Hong Kong sui conti di Craxi, ricevette contemporaneamente un messaggio dalla Falange armata: «a Di Pietro uccideremo il figlio».
In giugno Aldo Brancher è il primo manager Fininvest ad essere arrestato per tangenti.
Il 12 luglio Silvio Berlusconi invia un fax a Il Giornale, di cui è proprietario, ordinando di attaccare i magistrati del pool; ma Federico Orlando e Indro Montanelli si rifiutarono.
Vennero creati anche dossier e indagini contro il pool di magistrati protagonisti dell'indagine: il 17 luglio, Il Sabato, il settimanale di Comunione e Liberazione, pubblica un dossier sulle presunte malefatte di Di Pietro (che verrà riproposto nel 1997); il Gico di Firenze (il Gruppo investigativo sulla criminalità organizzata della Guardia di finanza) raccolse fuori verbale le confidenze di un pentito, Salvatore Maimone, sulle ipotetiche coperture offerte alla mafia dell'Autoparco dai pubblici ministeri Di Pietro, Spataro, Di Maggio e Nobili. Il processo Autoparco dimostrerà che l'indagine del Gico era costruita sul nulla.
Nel frattempo, le indagini si allargarono oltre i confini della politica:
il 2 settembre 1993, fu arrestato il giudice milanese Diego Curtò.
Il 21 aprile 1994, 80 uomini della Guardia di Finanza (fu per questo coniato il termine fiamme sporche) e 300 personalità dell'industria furono accusate di corruzione. Alcuni giorni dopo, il segretario della Fiat ammise la corruzione con una lettera ad un giornale.
Nel 1994, Silvio Berlusconi entrò impetuosamente in politica e vinse le elezioni.
Il 13 luglio 1994, il governo Berlusconi promulgò un decreto legge (c.d. "decreto Biondi") che favoriva gli arresti domiciliari nella fase cautelare per la maggior parte dei crimini di corruzione. Sempre secondo i detrattori del premier, la tempistica di questa legge fu accuratamente studiata in modo che coincidesse con lo svolgimento dei mondiali di calcio negli Usa, e in particolare con la vittoria dell'Italia contro la Bulgaria, passando così in secondo piano rispetto all'opinione pubblica. Ciò non bastò, ma alimentò nuove voci di protesta contro il sistema politico. Le immagini di Francesco De Lorenzo, ex Ministro della Sanità accusato di furto di denaro dagli ospedali, ebbe comunque un grande effetto sul pubblico.
Solo pochi giorni prima, i poliziotti arrestati avevano parlato di corruzione nella Fininvest, la maggiore delle proprietà della famiglia Berlusconi. La maggior parte dei magistrati del pool Mani Pulite dichiararono che avrebbero rispettato le leggi dello stato, incluso il "decreto Biondi", ma che non potevano lavorare in una situazione di conflitto tra il dovere e la loro coscienza, chiedendo quindi di essere riassegnati ad altri incarichi.
Forse perché il governo non poteva permettersi di essere visto come un avversario del popolare pool di giudici, il decreto fu frettolosamente ritirato; si parlò in effetti di un "malinteso", e lo stesso Ministro dell'Interno Roberto Maroni (Lega Nord) sostenne che non aveva nemmeno avuto la possibilità di leggerlo. Anche se il ministro della giustizia era Alfredo Biondi, molti sospettarono che il decreto fosse stato scritto da Cesare Previti, un avvocato della Fininvest di Berlusconi. Non vi è tuttavia alcuna prova a sostegno di tale affermazione.
Il 28 luglio, il fratello di Berlusconi fu arrestato e subito rilasciato.
Cominciò a questo punto quella che è stata definita come la "battaglia tra Berlusconi e Di Pietro".
Da una parte le indagini giudiziarie sulle aziende di Berlusconi, dall'altra il governo che mandava "ispettori" negli uffici dei giudici milanesi, alla ricerca di irregolarità formali. Questa tattica, insieme al contributo di media che sostenevano il premier e la sua azione nei confronti dei magistrati, contribuì secondo alcuni a creare una situazione che in altri contesti si definirebbe FUD (Fear, Uncertainty and Doubt, "paura, incertezza e dubbio"). La battaglia fu senza vincitori: il 6 dicembre Di Pietro si dimise dalla magistratura e due settimane dopo il governo si dimise, alla vigilia di un voto di fiducia critico in Parlamento che avrebbe potuto avere un esito sfavorevole a Berlusconi.
Dopo il 1994, il rischio che i processi venissero cancellati a causa della prescrizione divenne molto concreto, e la cosa era chiara sia ai giudici che ai politici. Questi ultimi (senza distinzioni tra la coalizione di Berlusconi e l'Ulivo, specialmente sotto la leadership di Massimo D'Alema) ignorarono le richieste del sistema giudiziario di finanziamenti per acquistare equipaggiamenti, e promulgarono leggi che, secondo molti critici, resero i già penosamente lenti processi italiani ancora più lenti, e soggetti a prescrizione più rapida.
Nel 1998 Cesare Previti, ex manager Fininvest e parlamentare nelle file di Berlusconi, evitò il carcere grazie all'intervento del Parlamento, anche se Berlusconi e i suoi alleati erano all'opposizione. Craxi invece accumulò diversi anni di condanne definitive, e scelse la contumacia - secondo i suoi sostenitori, l'esilio volontario - ad Hammamet in Tunisia, dove risiedette dal 1994 fino alla sua morte, avvenuta il 19 gennaio 2000.
Dopo la vittoria di Berlusconi nelle elezioni politiche del 2001, l'atteggiamento dei media e dell'opinione pubblica nei confronti dei giudici si presentava molto diversa da quella dell'epoca di Mani pulite: non solo criticarono apertamente i giudici per il loro operato nell'inchiesta, ma divennero sempre più rare in televisione opinioni favorevoli al pool di Milano. Ovviamente, in molti sospettarono che questa inversione di marcia fosse legata al potere mediatico di Berlusconi. Persino Umberto Bossi, segretario della Lega Nord, si sbilanciò mostrando in parlamento una corda da impiccagione a denuncia di quello che evidentemente considerava un atteggiamento giustizialista della giustizia (alla quale poco tempo prima aveva comunque plaudito per la "distruzione" del sistema politico tradizionale).
Chi ha immaginato di aver raggiunto un punto di non ritorno nella politica nazionale, però, sarà rimasto deluso. Il sistema politico, infatti, si è rapidamente ricomposto in forme nuove, che hanno tuttavia continuato a calpestare la volontà dei cittadini (ad esempio, aggirando il referendum sull’abrogazione del finanziamento pubblico ai partiti) e le richieste di organi internazionali (ONU, UE, Consiglio d’Europa, FMI, OCSE) di ridare trasparenza alle istituzioni e al mercato italiano. È quella che potremmo definire una “restaurazione” durata vent’anni, e in corso tuttora, che rende Mani Pulite una storia assolutamente attuale.
Il primo passo è stato quello di diffondere, a mezzo stampa, l’idea che i magistrati avevano esagerato, che erano stati parziali, salvando alcune forze politiche, fino all’accusa di aver dato vita a un vero e proprio “golpe”. Il secondo passo è stato promuovere una serie di iniziative legislative volte a proteggere i potentati politici ed economici, e in generale a rendere meno efficace il sistema della giustizia. Si è trattato di un processo sostanzialmente bipartisan. Leggi come quelle sui reati finanziari, ad esempio, sono state approvate da maggioranze di Centrosinistra; altre, come quelle sul reato di false comunicazioni sociali, o la devastante “ex Cirielli” – il taglio delle prescrizioni, che ha mandato in fumo decine di migliaia di processi – nonché le varie leggi ad personam, sono state volute da maggioranze di Centrodestra. Quanto alle istanze internazionali, è bastato non ratificare la Convenzione Penale sulla Corruzione del Consiglio d’Europa che, pure, l’Italia aveva firmato nel 1999.
Sono trascorsi ventiquattro anni, e di quell’inchiesta non si parla quasi più, o lo si fa in maniera distorta e semplicistica, attraverso il nuovo format televisivo – tipico delle tv commerciali, ma ampiamente trapiantato in Rai negli ultimi quindici anni – che prevede l’assoluta predominanza del commento sulla notizia, dell’opinione sui fatti. Sebbene una certa vulgata politico-giornalistica cerchi di far passare Mani Pulite per un’inchiesta faziosa o, nella migliore delle ipotesi, fallimentare, come se la maggioranza degli inquisiti fosse stata assolta, il compito di chi non vuole rinunciare alla propria memoria è di riportare i fatti in primo piano, rispetto alle opinioni.
Si scoprirebbe, infatti, che la percentuale di assoluzioni nel merito per i vari capi di imputazione è meno del 10%. I restanti proscioglimenti, circa il 35% degli indagati, sono avvenuti grazie alla prescrizione, ai cavilli procedurali o a modifiche legislative su misura. In ogni caso, a parte gli scomparsi, quasi tutti gli indagati del 1992-94 e degli anni successivi, comunque siano finiti i loro processi, sono rimasti o tornati rapidamente alla vita pubblica.
Mani Pulite ha avuto anche un’altra conseguenza sulla politica nazionale. Da circa venti anni assistiamo alla “discesa in politica” dei più brillanti magistrati che hanno condotto quella e altre inchieste successive che hanno coinvolto la “casta”. Gli ultimi, in ordine cronologico, sono Luigi De Magistris, Pietro Grasso, e Antonio Ingroia. Si tratta di un fatto assolutamente anomalo nel panorama delle democrazie occidentali.
L’idea stessa che debba esistere un partito, o un movimento, che fa della difesa della legalità la sua bandiera è, a ben vedere, incredibile. Significa affermare che gli altri partiti, anche i più importanti, non bastano a garantire il rispetto della giustizia, che dovrebbe essere, invece, uno dei valori in assoluto condivisi da tutte le istituzioni. Tutto questo, oltre ad alimentare dibattiti sulle presunte aspirazioni politiche dei pm nel corso della loro carriera, dovrebbe far riflettere sull’incapacità delle classi dirigenti di questo Paese di garantire, nelle loro forme tradizionali, un’autentica cultura legalitaria, e di creare le condizioni perché si possa vivere nel rispetto delle leggi. Leggi che ovviamente dovrebbero essere, a loro volta, giuste e eque.
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mercoledì 17 febbraio 2021
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