Negli occhi per trovarvi la vita devi andare quasi al fondo, davanti sono scuri e riflettono sguardi che non li vedono e le auto mordono il cammino. Sono rimasti vestiti quando hanno perso tutto per non dimenticare e nascondono colori che sono sapori e odori e la pioggia di sempre non li bagna. I corpi hanno ferite lontane e passo che potrebbe essere lento come un tram ridipinto e screpolato. Hanno case che stringono la gola e altre che crescono cercando di scappare da sé ma è l’inganno degli autobus che corrono la circolare. Guarda il mondo che si prepara alla domenica mattina dal tavolino che non smette di mescolare il mate (1) e di parlare argentino su quest’altipiano messicano.
(Caracas (2) ha nome di schiavi e di perle. L’Avila (3) si dibatte tra un latifondo e mura medievali mai viste).
Hanno passo schiacciato di chi pesta un asfalto che non gli appartiene e appoggiano il piede con la rassegnazione necessaria di un piatto di riso e fagioli neri da mangiarsi di nascosto dietro l’angolo di casa. Il corpo è un blocco e gli occhi hanno la vergogna di chi ha ancora una dignità da difendere e i marciapiedi colorano la città di mercati improvvisati portati via dalla pioggia in silenzio. Il via vai dei venditori cresce, le voci al tavolino si chiedono chi è stato il più grande tra Pelè e Maradona il mate ha lasciato posto al caffè.
(Caracas matriarcale da sempre guarda tutti i figli suoi. L’Avila s’inchina e si fa dolce al salire).
Hanno un silenzio proprio come il tram che passa altero e uno caduto da una nave come dal cielo che è una maledizione portata da violini che hanno rubato il suono della terra. Un silenzio che parla lingue sconosciute e tiene lontana la città come la metro la luce. Hanno schiene piegate più dall’offesa che dalla fatica, che non è mai poca e i sandali dalle suole di pneumatico segnano il progresso e colpiscono la strada che non porta sviluppo ma solo autobus e metro dagli occhi bianchi e cattivi. Il mercatino ha quasi preso forma, il tavolino ascolta con fatica uno spagnolo dagli accenti e forme lontani e vicini.
(Caracas prova capelli panama e di palma. L’Avila intreccia ghirlande di fiori).
Hanno corpi minuti per attraversare selve che oscurano il cielo e la magrezza della scoperta di una terra che conoscevano da sempre e la metro passa divorando. Hanno nome e lingua incisi su cartelli stradali che non portano mai alle loro case. Un tribunale (4) gli ha concesso l’anima togliendogli il diritto e sono terre infinite che non bastano mai. Al dio venuto dal mare hanno insegnato a ballare con la morte a cambio di un paradiso disperato e mai trovato. Sul tavolino si mangiano chapulines (5) e una michelada (6) rinfresca.
(Caracas va mescolando una chicha criolla (7) cantando. L’Avila è un bambino che insegue un chichero (8) ).
Hanno luna girata al contrario, la terra colpita da oceani e mondi nascosti in grotte che portano a un altro mondo. Sostengono sul selciato il peso di una storia negata dai libri nel solo gesto di guardare con calma il sole tramontare. La metro passa sconosciuta quasi quanto i loro passi. Sembrano lenti ma mordono l’altura per kilometri di una strada dura che non conosce l’andare degli scalzi che non fanno rumore. Il tavolino guarda i passanti di sempre, le voci sono prigioniere della digestione.
(Caracas guarda la sua gente e corre verso il mare. L’Avila si muove leggera nella sua selva).
Hanno la meraviglia nascosta dietro rughe millenarie che sono state sorrisi e stupori mangiati da minibus che non si fermano mai. Hanno storie d’imperi e monumenti propri e lo sguardo triste di chi non può ricordare ne essere ricordato. Le mani raccontano storie moderne di candeggina e calli di chissà quanti non lavori che non bastano mai e non ci sono ritorni perché in questi orizzonti infiniti non hanno terra. La distanza tra il tavolino e il mercato sembra infinita, le voci vagano senza meta.
(Caracas ha volto d’indigeno tradito da Santiago de Leon . L’Avila ripete il suo nome: “Guaraira Ripano”).
Note
(1) Infusione preparata con le foglie di erba Mate, una pianta originaria del Sud America.
(2) Caracas era il nome della tribù che abitava la Valle de Los Caracas, una delle valli costiere contigue all’attuale città a nord, toponimo ancora vigente. Questa tribù era conosciuta agli spagnoli cercatori di perle e per le spedizioni schiaviste tra il 1528 e il 1540.
(3) La prima volta che appare il nome "Ávila" è nel 1778 nei registri del Cabildo di Caracas. Prima di questa data, la montagna era conosciuta come "la Sierra del Nord". Il nome Ávila si deve a Juan Antonio Ávila, che era il padrone di alcuni terreni. Si pensa che il nome abbia preso forza anche perché L’Avila è paragonabile a una muraglia e quindi il nome Avila faccia allusione alle mura medievali della città di Spagna Avila.
(4) La Giunta di Valladolid (che dette vita alla Disputa di Valladolid) fu un consiglio di personalità esperte di diritto e di teologia, convocato da Carlo V d'Asburgo in due sessioni distinte tra il 1550 e il 1551 con lo scopo di discutere la natura giuridica e spirituale delle popolazioni native dell'America centrale e meridionale, sottomesse al potere spagnolo, in particolare per dirimere la controversia sulla presenza dell'anima negli indios (poi effettivamente riconosciuta).
(da Antonio Nazzaro, “Odore a. Torino/Caracas senza ritorno”, testo di Antonio Nazzaro, disegni e copertina fra le mani di Mariana De Marchi ,versione in italiano di Ezio Falcomer, versione in spagnolo di María De la Cruz. -
"Olor a. Túrin/Caracas sin retorno", texto de Antonio Nazzaro, dibujos y portada entre las manos de Mariana De Marchi, versión en español de Maria De La Cruz, version en italiano Ezio Falcomer – di prossima pubblicazione)
(immagine e citazione tratte dahttps://www.facebook.com/ photo.php?fbid=529110610454 717&set=a.100538243311958. 1004.100000673478641&type= 1&theater )
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