“Ogni volta che respiriamo, allontaniamo la morte che ci
assale […]. Ma bisogna infine che la morte trionfi, poiché siamo divenuti sua
preda per il solo fatto di essere nati; la morte si permette un momento di
giocare con la sua preda, ma non aspetta che l’ora di divorarla. Rimaniamo
tuttavia affezionati alla vita e spendiamo ogni cura per prolungarla quanto
possiamo; proprio come chi si sforza di gonfiare quanto più e quanto più a
lungo è possibile una bolla di sapone, pur sapendola destinata a scoppiare”.
Julius conosceva bene le prediche sulla vita e sulla
morte, come le conosce ogni uomo. Concordava con gli stoici quando affermavano
che “appena veniamo al mondo, cominciamo a morire”, e con Epicuro che
argomentava dicendo: “Quando ci siamo noi non c’è la morte, quando c’è la morte
noi non siamo più”, quindi perché temere la morte? In quanto medico e in quanto
psichiatra aveva mormorato queste stesse frasi consolatorie all’orecchio dei
moribondi.
Pur ritenendo che queste tetre riflessioni potessero essere
utili ai suoi pazienti, non aveva mai pensato che avrebbero avuto qulcosa a
che fare con lui. Questo fino a un terribile istante di quattro settimane
prima, che aveva mutato per sempre la sua vita.
(Irvin Yalom, “La cura Schopenhauer”, traduzione di Serena
Prina, Vicenza, Neri Pozza, 2012 (ed. or.., 2005), p.7 )
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