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martedì 22 maggio 2012

Acuto aceto all’acme, #radice #AC, I viaggi delle #radici, Enzo #Mandruzzato, I segreti del #Latino #citazione




Ac è la punta. Acus (ago), acūtus, aculeus, l’acētum pungente, acrifolium, acerbus (il contrario, sia per un frutto che per il cuore, è mitis: mitia poma, ma anche mitis sapientia Laeli, “la saggezza matura d’un Lelio”…). In greco, akìs, punta della lancia”, ákanthos (“fior puntuto”), ákros, cima di un monte (e akrópolis, la città alta), e akmé, la parte acuminata d’un’arma e, soprattutto, il vertice di una mente, di un’attività e d’una vita. Niente insomma di meno piano e liscio (anche noi parliamo di “ore di punta” o d’un “vertice” politico, anche se non sempre vertiginoso).
Il vero opposto è obtūsus, spuntato. La punta offre l’immagine del penetrare, dell’andare a fondo e dell’energia: tutte e tre queste accezioni sono comprese nel bellissimo ācer. Non pensiamo all’asprezza: acre ingenium è un’intelligenza penetrante. Può essere detto d’una concezione, d’un pensiero, d’una battaglia e d’un fronte (a proposito è da ricordare acies, lo schieramento di un esercito che poteva essere – ci attesta Aulo Gellio, X 9 – a cuneo).
“Acuto-aguto” è parola cara a Dante, che le restituisce l’antica pregnanza: una spada, un lampo, un fuoco interiore di anime elette, lo slancio dei marinai che Ulisse, con poche e memorabili parole, accende all’impresa più spericolata che si potesse allora immaginare (Inf. XXVI 121). Ma nell’italiano posteriore sono rimaste le accezioni dell’intelligenza (acume, acuto) e del sapore: agro, acre. Il poeta sensoriale per eccellenza, D’Annunzio, loda l’estate alcionia come “acre”, dal fortissimo, mitico sapore.

(Enzo Mandruzzato, I viaggi delle radici, in ID., I segreti del Latino. Per ritrovare quello che abbiamo dimenticato, Milano, Mondadori, 1991, p. 35)


(Nell’immagine sopra: opera di Joan Miro,





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