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domenica 31 agosto 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi




 Buongiorno, oggi è il 31 agosto.

Il 31 agosto 1969 muore improvvisamente Rocky Marciano, al secolo Rocco Francis Marchegiano.

Il futuro campione del mondo dei pesi massimi nacque a Brockton il 1 settembre 1923 da una famiglia di origini italiane: suo padre Pierino era originario di Ripa Teatina (Chieti), mentre la madre proveniva da San Bartolomeo in Galdo (Benevento). Marciano andava fiero delle sue origini italiane, e parlava anche un discreto italiano, quello tipico degli italo-americani, che mischiano i loro dialetti di provenienza con la lingua inglese.

A 16 anni il giovane Marchegiano cominciò a lavorare nei cantieri, sviluppando un fisico atletico e possente che più tardi gli consentirà di ottenere grandi successi tra le sedici corde. Quattro anni dopo si arruolò nell’esercito. Si avvicinò al mondo dei guantoni piuttosto tardi per gli standard americani: il futuro Marciano stese un australiano con un destro portentoso in una rissa scoppiata in un pub a Cardiff. Grazie allo zio Mike, che gli procurò il manager Gene Gaggiano, a 24 anni iniziò la sua carriera pugilistica da dilettante, steccando tuttavia il primo incontro (venne squalificato quasi subito per scorrettezze). Tuttavia si iscrisse nuovamente al torneo per dilettanti, a Portland, arrivando fino alla finale, dove fu costretto ad arrendersi dopo aver accusato un dolore lancinante alla mano destra.

Nel 1947 fece il suo primo incontro da professionista quando ancora si faceva chiamare Rocky Marck: la prima delle sue 49 vittime, Lee Epperson, fu costretto ad arrendersi al terzo round. Due anni dopo, invece, Carmine Vingo fu costretto ad abbandonare la boxe dopo essere stato in ospedale per diversi mesi. Nessuno riusciva a resistere ai colpi del campione italo-americano: Roland LaStarza fu tra quei pochi a riuscire a concludere il combattimento in piedi.

Marciano (un cognome più facile da pronunciare per gli yankees) capì di poter scrivere la storia dei massimi nel 1951, quando sconfisse il più grande peso massimo di ogni tempo, il già “anziano” Joe Louis, per ko all’ottava ripresa. Nel 1952 conquistò la corona mondiale dei massimi, detenuta dal 38enne Joe Jersey Walcott, battuto per ko al 13esimo round. Il rematch, disputatosi l’anno dopo, fu vinto ancora una volta da Marciano che si sbarazzò di Walcott al primo round. Affrontò e sconfisse per due volte un altro grande campione, Ezzard Charles, e concluse la carriera nel 1955, battendo per ko un’istituzione dei mediomassimi, il leggendario Archie Moore, battuto per ko alla nona ripresa. Dopo il ritiro nel 1962, volle affrontare l’allora star della categoria regina, il terribile picchiatore Sonny Liston, ma grazie alle insistenze della moglie tornò sui suoi passi.

Marciano morì tragicamente il 31 agosto 1969 (il giorno dopo avrebbe compiuto 46 anni), precipitando insieme al pilota del suo aereo privato (un Cessna 72) a Newton. 

Venne sepolto nel Forest Lawn Memorial Gardens Cemetery Di Lake City, Florida.

Marciano, la leggenda della boxe e degli italo-americani, fa parte di quella lista di pugili ritiratosi imbattuti: il suo score recita 49 vittorie (43 per KO), nessun pareggio e, ovviamente, nessuna sconfitta.

sabato 30 agosto 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 30 agosto.

Il 30 agosto 1921 nasce a Rimini Carlo Alberto Rossi.

Ha vissuto 89 anni e li ha vissuti tutti. Girando sul piatto dei giradischi, passando per juke boxe, e ancora prima uscendo da grammofoni e radio di legno. Carlo Alberto Rossi per tutta la sua lunga vita ha scritto canzoni che sono entrate nella memoria e che hanno disegnato un'Italia passata dall'antenna alla rete, dalla lambretta allo scooter. Tanto. Mina, Natalino Otto, Luciano Tajoli, Joe Sentieri, Fausto Cigliano e Milva hanno cantato le sue musiche passando per cantagiri e festival dei fiori. E nel nuovo millennio, Carlo Alberto Rossi ha avuto finalmente il primo riconoscimento alla carriera. Il Festival di Sanremo gliel'ha consegnato nel 2002, celebrando così i suoi 18 festival gareggiati senza mai vincere.

Carlo Alberto Rossi era nato a Rimini il 30 agosto del 1921, la musica tra le dita. Da quando era un bambino di sette anni cominciò a studiarla e giocarci e passò l'infanzia tra il canto e i giochi nei cortili assolati e larghi insieme a Federico Fellini e Sergio Zavoli. Piccoli re in calzoncini corti e sogni in tasca. Rimase amico di entrambi anche dopo il trasferimento a Milano che avvenne nel '36. Anni di liceo e conservatorio, anni in cui mise insieme un quintetto vocale, i Barboni, che cominciarono ad andare in giro per i locali della Lombardia e lo portarono a scrivere la sua prima canzone. La prima di oltre seicento depositate alla Siae. In tempi di guerra, nel 1939, scrisse Il tango di Manuelita, edita dalle edizioni Curci, seguita da Quando piange il ciel e, nel 1941, da Luna indiscreta e Perdonami. Anche durante l'inevitabile servizio militare, quando Carlo Alberto Rossi divenne ufficiale, continuò a scrivere. Note e fiori da disperdere in trincea. Indomabile scrisse anche una commedia musicale, recitata e cantata dai commilitoni della divisione Acqui, e l'inno del 17° e 18° Reggimento Fanteria della Divisione Acqui che poi fu massacrata a Cefalonia dai tedeschi.

Signore della musica, delle canzoni e delle melodie, Carlo Alberto Rossi iniziò a diventare grande come compositore in poco tempo. Conosci mia cugina? cantata da Natalino Otto e Non ho più pace per Alberto Rabagliati, lo portarono veloce verso il suo primo successo 'pagato'. Nel 1947 arrivò infatti Amore baciami. Lidia Martorana la cantò sul testo di Gian Carlo Testoni, e nei primi sei mesi dell'anno Rossi guadagnò un milione 400 mila lire in diritti d'autore. Amore baciami negli anni dopo fu incisa anche da Mina, Jula De Palma, Ornella Vanoni e in inglese da Pat Boone per la colonna sonora del film The main attraction.

Il dopo guerra fu gentile. Rossi divenne richiestissimo. Nino Taranto e Ernesto Bonino, i grandi dell'epoca, lo volevano come autore, come compositore, come produttore, tanto che nel '49, Rossi fondò l'Ariston insieme al fratello Alfredo e a Ladislao Sugar. Carlo Alberto Rossi divenne un marchio d'elite e nella sua scuderia entrarono i più prestigiosi musicisti italiani, compresi Trovajoli e Lelio Luttazzi.

Il resto furono canzoni, musica negli angoli. Nel 1953 la sua Acque amare, interpretata da Carla Boni e arrangiata da Trovajoli e Angelini, viene applaudita al Festival di Sanremo per tre minuti e cinque secondi. Un record che nessuno ha ancora eguagliato. La Ariston nel '56 lascia il posto alla C.A.Rossi Editore. Jazz e swing, ritmi moderni, sono i giorni con Gorni Kramer, Natalino Otto, Rabagliati, Milva, Joe Sentieri, Bing Crosby, Tom Jones, Ray Charles, Nat King Cole e Sarah Vaughan. Poco importa se il festival della canzone non lo fa mai vincere. Solo Quando vien la sera arriva in una finale di Sanremo. Ma brani che il festival non promuove come Le mille bolle blu e E se domani, che aveva scritto per Fausto Cigliano, hanno vissuto benissimo anche senza.

Vide e visse in un Paese che, mentre rinasceva dalle bombe dava la possibilità a chi aveva idee di realizzarle. Carlo Alberto Rossi sapeva usare la musica. Dal 1958 al 1968 gestì il dancing "Whisky Juke Box" di Rimini e divenne discografico fondando la CAR Juke Box s.r.l., visionario, collegò la sua casa discografica a un gruppo industriale torinese che importava juke box e diffondeva il futuro. Così i suoi dischi si trovavano in tutte le macchine a gettoni. La CAR Juke Box restò in vita fino al 1975, poi Carlo Alberto Rossi si ritirò dal mondo musicale trasferendosi a Crotone. In pace, dopo aver dato luce e vinili a Jenny Luna, Fausto Cigliano, Joe Sentieri, Miriam Del Mare, Luciano Tajoli, Le Orme  quando erano ancora un quintetto, a Mia Martini ancora Mimì Berté, Pier Giorgio Farina, il quartetto vocale I Caravels, Enzo Jannacci.

Carlo Alberto Rossi si è spento a Milano il 12 aprile 2010, ed è sepolto nel cimitero Maggiore della città.

Nel 2007, il figlio Giorgio ha curato il cofanetto con il triplo Cd dal titolo E se domani collection che contiene 58 suoi grandi classici e molte canzoni mai pubblicate in Italia. Le mille bolle blu cantata da Dalida, Notorius nella versione di Nat King Cole e anche un Cd solo di rarità, dal provino originale di Mina del 1960 che canta Le mille bolle blu accompagnata al piano da Rossi, alle prime versioni di Amore baciami e di Luna indiscreta cantata da Natalino Otto nel '50. Immortale, il vinile gira ancora.  

venerdì 29 agosto 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 29 agosto.

Il 29 agosto 1862 viene definito giornata dell’Aspromonte, perché in quella giornata l’esercito regio fermò il tentativo di Garibaldi e dei suoi volontari  di raggiungere Roma e scacciare Pio IX.

Giunto in Sicilia da Caprera il 27 giugno 1862, il generale nizzardo cominciò a saggiare gli umori dell’opinione pubblica siciliana, come nell'occasione del famoso discorso del 15 luglio contro Napoleone III.

Dopo un breve periodo di indecisione, il governo italiano guidato da Urbano Rattazzi si schierò contro l’iniziativa garibaldina di creare nel Mezzogiorno un movimento armato che, imitando la spedizione dei Mille, avrebbe dovuto portare alla liberazione di Roma. L’esercito piemontese si scontrò con i garibaldini, dopo che gli irregolari erano sbarcati in Calabria il 25 agosto 1862, a Sant’Eufemia d’Aspromonte. Durante lo scontro il generale corse di fronte alla propria linea e ordinò ai suoi uomini di cessare il fuoco: mentre si accingeva a fermare la sparatoria veniva ferito all’anca e al malleolo da due proiettili di carabina. Garibaldi fu appoggiato a un pino e gli vennero portati i primi soccorsi, successivamente venne fatto prigioniero dal Regio esercito.

A Sant’Eufemia d’Aspromonte, nel luogo in cui si svolse la sparatoria tra l'esercito e i garibaldini, si trova ancora il cippo dove Garibaldi fu appoggiato dopo essere stato ferito alla gamba e una lapide commemorativa dei fatti del 29 agosto 1862.

Nel Museo del Risorgimento al Vittoriano, a Roma, è conservata una teca che contiene vari cimeli appartenuti al generale, nella quale sono conservate tra l'altro le due pallottole che lo ferirono.

giovedì 28 agosto 2025

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Buongiorno, oggi è il 28 agosto.

Il 28 agosto 489 Teodorico sconfigge Odoacre nella battaglia dell'Isonzo e invade l'Italia.

Teodorico succedette al trono degli Ostrogoti dopo la morte del padre (474) e proseguì la politica di alleanza con il vicino Impero Bizantino, dal quale otteneva compensi per i servigi di protezione dei confini. L'imperatore bizantino, alleandosi con Teodorico, sperava che questi riuscisse a porre sotto il controllo ostrogoto le nuove popolazioni barbariche che si stavano spingendo ai confini dell'Impero, assicurando così a Bisanzio una zona di influenza che fungesse da cuscinetto tra l'Impero e le popolazioni barbariche.

I successi di Teodorico portarono l'imperatore Zenone a riconoscere al re ostrogoto lo stato di federato romano e a eleggerlo console nell'anno 484, ufficializzando in questo modo il predominio ostrogoto sull'area balcanica.

La presenza di Teodorico stava diventando però sempre più ingombrante per Zenone e nel contempo Odoacre in Italia stava allargando la sua zona di influenza minacciando gli interessi di Bisanzio. Zenone pensò di risolvere i suoi problemi mettendo l'uno contro l'altro i due re barbari, per cui nel 488 Teodorico preparò la spedizione verso l'Italia, intrapresa nell'autunno dello stesso anno.

Circa un secolo prima gli Ostrogoti furono separati dai loro connazionali Visigoti e assoggettati agli Unni. Da quel momento avevano fatto parte del grande impero di Attila. Alla morte del grande condottiero riuscirono a liberarsi dall’influenza degli Unni e si stanziarono in Pannonia e fecero un patto con l’imperatore bizantino Marciano. Teodorico, in giovane età, ebbe l’occasione di passare alcuni anni alla corte imperiale bizantina imparando ad unire il sangue barbaro e l’educazione civile.

A causa della morte di suo zio re, Teodorico fece ritorno nella propria terra ove regnava suo padre. A diciotto anni, all’insaputa del padre, radunò un esercito e conquistò la città di Singidono ma, invece di unirla al regno paterno, se la tenne per se. Da questo momento iniziò a scorrazzare e a trattare con l’Imperatore bizantino.

Nel 474 Teodorico succede al trono degli Ostrogoti dopo la morte del padre.

Quando cadde l’Impero d’Occidente, aiutò Zenone a riconquistare l’Impero d’Oriente. Questo aiuto fece crescere l’importanza di Teodorico presso la corte di Zenone.

L’imperatore Zenone, per dimostrare la sua gratitudine, invitò a corte Teodorico che fu ricevuto con grandi onori. L'imperatore gli diede uno stipendio, lo elesse maestro dei militi e gli innalzò una statua equestre. Nel 484 lo elesse console. Successivamente ricevette il titolo di patrizio e la possibilità di conquistare l’Italia.

Teoderico, uscito da Costantinopoli tornò dal suo esercito, raccolse quasi tutti i Goti e si mise in marcia verso l’Italia.

Teodorico prese la strada alla volta del Friuli con i Goti guerrieri, vecchi, fanciulli, donne, armamenti, carri e masserizie. Strada facendo fece guerra con diverse popolazioni e ulteriori guerrieri si unirono all’esercito.

A febbraio Teodorico giunse sul fiume Vuka (Croazia). Il varco era difeso dai Gepidi che erano sotto Odoacre. Combatterono in mezzo al fiume. Teodorico vinse ed uccise il re dei Gepidi.

Quando Odoacre seppe dell’esercito che stava per raggiungere i suoi confini, riunì il suo esercito e gli andò incontro. Si fermò sulle rive del fiume Isonzo e attese.

Teodorico attraversò le Alpi Giulie e nella primavera del 489 raggiunse l’Isonzo accampandosi nel sito detto al Ponte (così chiamato perché un tempo c’era un ponte di pietre costruito dagli antichi romani) ma anche chiamato Pons Santii (in località Mainizza). Dall’altra parte del fiume vedeva l’accampamento dell’esercito di Odoacre.

Teodorico non permise alcun scontro, doveva aspettare che il suo esercito si riposasse per qualche giorno. Teodorico schierò il suo esercito e ci fu una battaglia sanguinosa ove la peggio toccò a Odoacre. Quando Odoacre vide le prime schiere cadere per mano dei Goti, decise di fuggire con il resto dell’esercito. Inizialmente chiese rifugio presso i vicini castelli ma poi si ritirò fino a Verona.

Negli anni successivi la forza di Teodorico andava via via aumentando mentre Odorico era rifugiato a Verona. Iniziò anche un lungo assedio della città che durò tre anni.

Nel frattempo i vescovi fortificarono i castelli in modo tale che diventassero anche luogo di ricovero dei fedeli.

Nel 490 Teodorico fece costruire la Rocca di Monfalcone a testimonianza della sua vittoria su Odoacre sull’Isonzo e per difendere l’Italia da incursioni nemiche: Teodorico si era reso conto che il Friuli era la porta d’Italia.

Dopo molte battaglie, Odoacre si ritrovò asserragliato a Ravenna. Teodorico fece bloccare il porto con una grande flotta che aveva il compito di impedire l'arrivo dei rifornimenti via mare ma anche di sorvegliare Odoacre ed impedirne una fuga improbabile ma non impossibile. Odoacre, rinchiuso all'interno della città, si trovò di colpo senza cibo. Molti morivano per fame, e i soldati si aggredivano tra di loro per pochi grammi di cibo.

Qualunque fosse il patto con Teodorico, Odoacre decise di accettarlo e insieme al figlio Tela furono dichiarati Cesari del re d'Italia Teodorico. Ma quest'ultimo non era incline ad accettare di governare con Odoacre, e il 15 marzo 493 lo invitò al suo palazzo per pranzare. Odoacre venne con una guardia del corpo composta da bucellari (ossia soldati barbarici.). Ma Teodorico fece scattare la trappola. Un centinaio di guerrieri circondarono la guardia di Odoacre, ma nessuno osava colpirlo. Allora Teodorico, che intendeva dimostrare di essere superiore ai suoi soldati, afferrò una spada e lo trafisse allo stomaco, infierendo poi sul corpo.


 

mercoledì 27 agosto 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 27 agosto.

Il 27 agosto 413 a.C. Nicia e Demostene abbandonano l'assedio di Siracusa.

La battaglia di Siracusa venne combattuta nel 415 a.C. dagli Ateniesi, guidati da Demostene e Nicia, e si può ricollocare nel periodo della Guerra del Peloponneso; in particolare è una delle battaglie che hanno visto sconfitto l'esercito ateniese nella spedizione in Sicilia.

Nel 415 gli Ateniesi raggiunsero la Sicilia con tutta la flotta e sbarcarono con tutto l'esercito; occuparono subito una altura strategica che sovrastava la città, detta epípole, dove costituirono il primo quartier generale. Dal monte cominciarono poi i lavori per la costruzione di una cinta muraria, dando inizio all'assedio di Siracusa.

I Siracusani tentarono una sortita per riconquistare il monte, riuscendo persino ad uccidere lo stratega nemico Lamaco, ma non riuscirono ad impedire agli ateniesi la continuazione dei lavori. I piani di Nicia vennero comunque stravolti dal tradimento di Alcibiade, che forniva informazioni a Sparta, dove si era rifugiato dopo lo scandalo delle erme.

Gli Spartani colsero l'occasione di eliminare gli Ateniesi una volta per tutte, e inviarono allo scopo un piccolo contingente di soldati, guidati da Gilippo che, eludendo la sorveglianza navale ateniese, riuscì ad entrare nella città assediata e ad organizzare un piano di difesa molto audace: costruire un secondo vallo per interrompere quello degli ateniesi non ancora completato. La strategia funzionò, e i Siracusani riconquistarono l'epípole riuscendo così a scongiurare l'accerchiamento della città.

Anche la flotta ingaggiò la flotta ateniese in due battaglie presso il Porto Grande.

La difficile situazione spinse Nicia ad inviare una lettera ad Atene chiedendo il ritiro delle truppe oppure l'invio di un altro grande corpo di spedizione, e in entrambi i casi chiese di essere esonerato dal comando per problemi di salute. Atene inviò, con un "supremo sforzo", un secondo corpo di spedizione di 73 navi e 5000 opliti, guidati da Demostene, il quale si rese subito conto della situazione disastrosa in cui versava il proprio esercito e decise di procedere riconquistando prima l'epipole e poi continuare l'assedio.

La battaglia si concluse con un disastro per gli Ateniesi.

Gli Ateniesi si trovarono obbligati alla ritirata dalla situazione a terra e dal pessimo stato della flotta. Scelsero la notte del 27 agosto del 413 a.C., perché la via della fuga era aperta, dato che i nemici non si aspettavano la mossa ateniese. Si verifico però un'eclissi di luna: secondo Plutarco, "Nicia e i suoi compagni, ignoranti e superstiziosi a sufficienza per essere terrorizzati da simili fenomeni, furono colti da grande paura" (Vita di Nicia).

Nicia allora pretese che la ritirata fosse ritardata di un altro ciclo lunare (cioè quasi un mese). "Dimenticò tutto il resto, si mise a fare sacrifici e astrologare". Gli avversari, imbaldanziti dalla titubanza nemica, incalzarono gli ateniesi in uno scontro. Anche la flotta Siracusana entrò nel porto e costrinse la flotta di Atene a due battaglie; la spossatezza, la mancanza di spazio di manovra e il precario stato delle navi portò gli Ateniesi alla disfatta.

L'intera armata restò così bloccata in Sicilia e l'unica via di fuga era verso le altre colonie ateniesi presenti sull'isola. Gli opliti decisero di dividersi per seminare meglio il nemico, ma la poca conoscenza del territorio li fece cadere in agguati.

Mentre Nicia e Demostene vennero giustiziati dai Siracusani assetati di vendetta, i soldati ateniesi furono rinchiusi nelle Latomie, le cave di pietra dei Siracusano, dove rimasero spesso fino alla morte. Come scrisse Tucidide, ad Atene ritornarono "pochi di molti".

martedì 26 agosto 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 26 agosto.

Il 26 agosto 1972 si aprirono a Monaco di Baviera i Giochi della XX Olimpiade.

Come la prima, quella del ’36 a Berlino, anche la seconda Olimpiade tedesca della storia fu funestata dalla politica: ma se i Giochi di Hitler colpirono solo dal punto di vista propagandistico, andò molto peggio a Monaco di Baviera. Gli sforzi degli organizzatori, che miravano a dare del paese un’immagine di un luogo democratico e pacifico, furono azzerati dal sanguinoso blitz dei terroristi palestinesi di Settembre Nero, che rapirono e quindi uccisero 11 atleti della squadra israeliana e un poliziotto tedesco, in quello che verrà ricordato come il Massacro di Monaco.

Nonostante lo sgomento di tutto il mondo, i Giochi furono sospesi per un solo giorno, quello dei funerali, e in qualche modo lo spettacolo continuò. A Monaco erano convenuti un numero record di nazioni (122) e atleti (7129) e non mancarono certo i risultati sorprendenti. Nell’atletica, il sovietico Valerij Borzov inflisse agli americani una clamorosa doppia sconfitta nei 100m e 200m (terzo un giovane Mennea), e l’onta si ripeté nel basket, con la prima, storica sconfitta della nazionale USA per mano dell’URSS (51-50) al termine di una delle più contestate finali olimpiche della storia. E poi ancora l’affermazione di Teofilo Stevenson, straordinario peso massimo cubano, che a Monaco vinse il primo di tre ori consecutivi.

Tuttavia, i Giochi del 1972 saranno sempre indissolubilmente legati alla gigantesca figura di Mark Spitz, 22enne californiano già due volte campione olimpico in Messico. In Baviera, Spitz superò qualunque altro atleta di qualunque disciplina, aggiudicandosi 7 medaglie d’oro all’interno della stessa edizione. Spaccone e narciso, il californiano si ritirò immediatamente dopo le Olimpiadi perché, parole sue, “non si può migliorare la perfezione”. Ci riuscì Michael Phelps, ma solo 36 anni più tardi.

lunedì 25 agosto 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 25 agosto.

Il 25 agosto 1910 fanno la loro comparsa a New York i celebri Yellow Cab.

Il classico Taxi giallo newyorkese fa la sua comparsa ufficiale il 25 agosto del 1910, anche se già nel 1907 Henry Allen cominciò ad importare dalla Francia auto del modello Dalmier Vittoria e a tingerle di giallino.

Il colore giallo nasce dalla necessità in una megalopoli come New York, già nel lontano 1910 di far riconoscere il taxi nell’enorme traffico cittadino e permettere al passeggero di richiamarlo subito dopo averlo individuato. Oggi a New York vi sono più di 13mila taxi e ben 60mila tassisti, quasi o tutti regimentati dalla “Taxi and Limousine Commission” che detta regole, norme e prezzi. La maggior parte delle Yellow Cab erano Ford Crown Victoria, ma oggi il parco si è notevolmente rinnovato e qualche anno fa il sindaco di Mahhattan ha lanciato un concorso per la realizzazione di una nuova forma di taxi, efficiente e rispondente alle attuali esigenze della città. Molte le critiche infatti al taxi degli americani, che pare essere molto meno comodo della “Black Cab”, il taxi rigorosamente nero dei londinesi. Le yellow cab hanno comunque fatto parte dell’immaginario collettivo della nostra storia e della storia del cinema americano che a piene mani ha inserito questo mezzo nelle migliori pellicole, se non addirittura farlo diventare esso stesso personaggio della celluloide come nel caso di Taxi driver.

domenica 24 agosto 2025

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 Buongiorno, oggi è il 24 agosto.

Il 24 agosto 1941 viene finalmente sospeso da Hitler il programma "Aktion T4".

Nel Mein Kampf Hilter, oltre a numerosi altri deliri, aveva descritto le sue idee riguardo all’eugenetica, in particolare su come lo Stato avrebbe dovuto comportarsi nei confronti dei disabili mentali. E la soluzione, per Hitler, era fin troppo semplice: eliminarli tutti fisicamente. Perseguendo l’ideale della ‘razza pura’, una società composta solo da corpi e menti ‘perfette’, Hitler voleva togliere dalla circolazione gli elementi che lui considerava deboli. L’eugenetica partorita dalla mente di Hitler non era tutta farina del suo sacco. Già a partire dai primi anni del ‘900 due medici tedeschi, Alfred Boche e Karl Binding, furono i fautori di un’ala radicale dell’eugenetica che sosteneva l’eliminazione degli individui per cui «la vita non valeva la pena di essere vissuta». Per perseguire il suo folle scopo Hitler mise in atto il programma Aktion T4.

Un primo passo verso questa grottesca pulizia della società si ebbe nel 1933. Il 25 luglio il governo nazista promulgò una legge, la Gesetz zur Verhütung erbkranken Nachwuchses (Legge sulla prevenzione della nascita di persone affette da malattie ereditarie) secondo la quale tutti gli individui portatori di malattie ereditarie dovevano essere sterilizzati per evitare che ‘infettassero’ la società. Si stima che siano state sterilizzate, dall’entrata in vigore della legge fino al 1939, circa 350.000 persone. La maggior parte dei medici tedeschi, influenzati dagli studi di eugenetica dell’epoca, ritenevano giusto che si ricorresse a questi metodi per permettere alla società di evolversi in un’ottica di purezza della razza. C’è da aggiungere che non solo in Germania esisteva questo sistema di sterilizzazione coatta ma ciò avveniva anche in altri paesi ‘democratici’ come USA, Svezia e Svizzera. Ma al regime nazista non bastava più prevenire il problema dei disabili mentali impedendo la loro nascita. Era giunta l’ora di eliminare quelli che già infettavano la Germania.

Nel 1939 il padre di un bambino di nome Knauer scrisse una lettera alla cancelleria del Reich. Nella missiva l’uomo chiedeva l’autorizzazione per poter praticare l’eutanasia nei confronti di suo figlio nato pochi mesi prima e che aveva manifestato segni di ritardo mentale. Hitler mandò il suo medico personale, Viktor Brack, per visitare il bambino e confermò la diagnosi del padre. Il 25 luglio 1939 il bambino venne ucciso con un’iniezione letale, causa ufficiale della morte fu dichiarato un attacco cardiaco. Con l’assassinio del neonato, esattamente 6 anni dopo la legge per la sterilizzazione di massa, inizia lo sterminio dei disabili tedeschi. Primo passo verso l’attuazione del delirante progetto è l’istituzione della Commissione del Reich per la registrazione scientifica delle malattie ereditarie e congenite gravi controllata da Brack insieme a un altro medico personale del Führer, Karl Brandt. In occasione di ogni nascita, un ufficiale doveva controllare che ogni bambino non presentasse difetti mentali. In caso contrario, il neonato veniva tolto ai genitori, ufficialmente per poter essere curato, in realtà veniva eliminato e alla famiglia si comunicava che era morto per cause naturali.

Lo sterminio ben presto non riguardò solo i neonati ma anche gli adulti.

I centri dove veniva attuato il folle piano del programma Aktion T4 si trovavano in 6 città tedesche: Bernburg, Brandenburg, Grafeneck, Hadamar, Hartheim e Sonnenstein. Qui venivano portati i neonati, ma anche gli adolescenti, per essere eliminati, solitamente con un’iniezione di morfina. Lo sterminio dei disabili adulti iniziò dalla Polonia occupata, quando i soldati della Wehrmacht portarono i pazienti di alcuni ospedali psichiatrici in Germania per poi eliminarli. Per l’uccisione degli adulti non veniva utilizzata una semplice iniezione letale, ma venivano soffocati nelle camere a gas. Per paura di proteste il programma Aktion T4 venne mantenuto segreto, ma i familiari dei disabili ben sapevano la fine che avrebbero fatto i loro cari. Il programma poteva essere attuato solo in cliniche statali, per questo motivo molti pazienti furono trasferiti dalle famiglie in strutture private o riportati a casa. Nonostante tutto il personale coinvolto nel programma dovesse mantenere il più stretto riserbo riguardo alle stragi che stavano avendo luogo, la popolazione venne a conoscenza del mostruoso programma di eliminazione. In molti protestarono, anche in seno al partito nazista. Molti prelati appartenenti alla chiesa cattolica protestarono contro il folle piano, tra questi il cardinale di Monaco di Baviera e il vescovo di Münster. Con gran parte dell’opinione pubblica contro, Hitler dovette dichiarare, il 24 agosto 1941, la chiusura del programma Aktion T4. Inutile specificare che gli aguzzini che parteciparono al massacro furono prontamente trasferiti nei campi di concentramento. Nonostante la chiusura ufficiale, il programma continuò silenziosamente fino alla fine della guerra. Si stima che le vittime di Aktion T4 siano state più di 100.000.

sabato 23 agosto 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 23 agosto.

Il 23 agosto 1939 Germania Nazista e Unione Sovietica firmano il Patto Molotov-Ribbentrop.

Il trattato di non aggressione firmato il 23 agosto 1939 tra la Germania nazista e l’Unione Sovietica è passato alla storia come uno dei più sconcertanti avvenimenti del Novecento. In effetti, il Patto portò a compimento la rottura dell’ordine internazionale definito a Versailles, rottura imposta dal “crescendo” dell’iniziativa italo-tedesca (Anschluss, Monaco e smembramento della Cecoslovacchia, rinascita della “grande Ungheria”) e passivamente subita dalle grandi potenze.

Il Patto concesse a Stalin l’occasione di ricostituire almeno in parte la dimensione territoriale dell’impero zarista. Non è un caso se oggi, nella Russia “putiniana” in cui si celebra la Realpolitik di Stalin, il Patto venga pienamente giustificato sul piano geopolitico, come mossa difensiva, antipolacca e anti-baltica, mentre gli si nega il carattere di invasione preordinata e spartitoria.

A sconcertare, all’epoca, fu soprattutto la lunga “luna di miele” tra Stalin e Hitler, durata fino all’invasione del giugno ’41, costellata di molti episodi poi oscurati dalla propaganda antifascista: la parata militare comune russo-tedesca a Brest-Litovsk (settembre ’39); gli auguri di Hitler per il compleanno di Stalin (dicembre ’39: Stalin rispose riferendosi all’«amicizia russo-tedesca sigillata nel sangue»); la scomparsa dai cinematografi russi del kolossal di grande successo Aleksandr Nevskij di S. Ejzenštejn, uscito alla fine del 1938 ma poi divenuto troppo antitedesco; le conferenze di lavoro tra Gestapo e NKVD (la polizia segreta sovietica) dell’inverno ’39-40, per coordinare la repressione in Polonia; le ripetute congratulazioni di Molotov in occasione delle vittoriose invasioni naziste in Europa; gli scambi di cortesie tra le rispettive marine militari operanti al largo della Finlandia; la firma (gennaio 1941) di un altro protocollo segreto sulla Lituania, con compensazioni sovietiche in oro, l’offerta (tardiva) a Stalin di aderire all’asse Roma-Berlino-Tokyo, e la sua colpevole incredulità di fronte alle notizie che preannunciarono l’invasione tedesca. Nel frattempo, centinaia di comunisti tedeschi e austriaci rifugiati in Unione Sovietica, tra cui molti dirigenti e quadri importanti, vennero consegnati in “omaggio” alla Gestapo: almeno ottocento, di cui oltre cinquecento con un’unica spedizione ferroviaria, nel febbraio 1940. Finirono tutti nei lager.

venerdì 22 agosto 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 22 agosto.

Il 22 agosto 1984 viene ritrovato lo scheletro quasi completo di un bambino preistorico, che viene battezzato ragazzo di Turkana.

Il ragazzo di Turkana è il nome di un fossile ritrovato presso il Lago Turkana in Kenia. Si tratta di uno scheletro quasi completo (mancano soprattutto mani e piedi), di un giovane ominide che morì intorno agli 8 anni, circa 1.600.000 anni fa all'inizio del Pleistocene.

Il ragazzo di Turkana - la forma del bacino indicò quasi immediatamente che si trattava di un maschio - venne classificato inizialmente come Homo erectus mentre ora viene attribuito alla specie Homo ergaster.

L'esemplare soffriva di scoliosi, e la causa della morte è probabilmente da attribuire ad una setticemia causata dall'infezione di un dente molare o a un incidente.

L'analisi delle ossa fecero supporre una statura di 160 cm, che sarebbero diventati 185 cm al raggiungimento dell'età adulta. Il peso è stato stimato in circa 68 kg.

La capacità della scatola cranica era di 880 cm³, che sarebbero diventati 910 cm³ in età adulta, cioè molto meno dell'uomo moderno che in media raggiunge i 1350 cm³; era tuttavia una dimensione già di tipo umano. Si può supporre che in linea generale avesse l'aspetto simile ad un uomo attuale, con una struttura corporea simile agli attuali Masai del Kenia, anche se il suo cervello era equiparabile a quello di un bambino di poco più di un anno.

In complesso lo scheletro aveva caratteristiche come la postura inclinata in avanti, l'arco sopraciliare pronunciato e l'assenza di mento che lo distinguono dall'uomo moderno; anche le braccia erano più lunghe delle attuali.

È stato inoltre ipotizzato che avesse già una ricopertura di peli corporei molto ridotta, il che avrebbe favorito i movimenti e la termoregolazione nella savana.

Lo studio della morfologia interna del cranio indicò che verosimilmente non esisteva un'innervazione delle strutture, tale da permettere di avere una proprietà di linguaggio prossima alla nostra. Il ragazzo di Turkana pertanto poteva solo articolare suoni.


giovedì 21 agosto 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 21 agosto.

Il 21 agosto 1987 esce nelle sale americane "Dirty dancing".

Il Cinema è un’arte multisfaccettata, valutabile da innumerevoli punti di vista: la tecnica, la recitazione, l’originalità della storia e lo stile registico. Ma c’è un parametro che sfugge ad ogni scala di valutazione, ed è probabilmente l’unico in grado di incastonare una pellicola nell’Olimpo dei film immortali come Dirty Dancing, capaci di suscitare emozioni che segnano indelebilmente lo spettatore o, più semplicemente, in grado di farlo sognare. 

Dirty Dancing – Balli proibiti incarna perfettamente questa categoria avendo rappresentato –  a partire dalla sua uscita al cinema nel lontano 1987 – un vero e proprio fenomeno di massa ed un enorme successo mondiale, culminato con la vittoria del Premio Oscar e del Golden Globe per la Miglior Canzone Originale (I’ve had) The Time of My Life.

Ma qual è il segreto del successo straordinario di questa commedia dall’impianto narrativo semplice e dalle umili pretese iniziali, dato il budget ridotto e l’assenza di grandi nomi nel cast (fatta eccezione per Jerry Orbach, famoso al tempo ma qui in un ruolo di supporto)?

Per analizzare la portata del fenomeno Dirty Dancing è necessario far riferimento alle emozioni primordiali suscitate dalla sua costruzione, basata sull’irresistibile connubio fra musica (e quindi danza), amore, sesso e rivalsa, tutti elementi in grado di scatenare vere e proprie tempeste emotive, soprattutto se sapientemente interconnessi come accade nel film.

Dirty Dancing è principalmente la storia di un amore impossibile ed ideale, slegato da tutte quelle premesse che normalmente obbligano a mettere fastidiosamente i piedi per terra: un bellissimo e sensuale maestro di ballo (Patrick Swayze) perde la testa per la bruttina ma intelligentissima e sensibile Francis, detta Baby (Jennifer Grey), costruendo insieme a lei una favola in cui il bruco diviene farfalla ed il bel tenebroso esce dal suo guscio apparentemente inscalfibile, volteggiando sulla vita a dispetto di tutti gli ostacoli incontrati e decretando un assoluto trionfo del bene e della giustizia sulla disonestà e sul pregiudizio.

Ma andiamo con ordine: siamo nell’estate del 1963 e la famiglia Houseman, composta da padre, madre e due figlie, si appresta a trascorrere le vacanze presso un villaggio turistico delle Catskill Mountains. La figlia minore e “cocchina di papà” Francis “Baby” Houseman ha 17 anni ed aspira ad una carriera nei Peace Corps. Nel corso della vacanza, tuttavia, Baby si imbatte in Johnny Castle, maestro di ballo in coppia con Penny Johnson al servizio dei clienti (e delle clienti…) dell’Hotel. Baby rimane stregata dalla sensualità del movimento di quei corpi che, attraverso sinuosi “Balli Proibiti”, le aprono un  nuovo mondo in cui  l’interesse per lo studio ed il desiderio di compiacere il papà si sostituiranno progressivamente con una nuova forma di desiderio, che ne decreterà l’iniziazione alla vita adulta.

A favorire il collimare dei due mondi apparentemente opposti di Baby e Johnny, l’inaspettata gravidanza di Penny, provocata dalla relazione con un cameriere del villaggio,  e l’impossibilità per la professionista di presenziare al duo di mambo previsto da lì a pochi giorni, a causa delle conseguenze di un aborto improvvisato, curate dal padre di Baby. L’unica soluzione per far sì che i due ballerini non perdano il posto di lavoro è trovare una sostituta per l’esibizione, scelta obbligata che ricade sull’unica persona disponibile, Baby.

Avrà inizio così un periodo magico e sospeso, durante il quale il tacito ma esplicito linguaggio della danza fungerà da intermediario fra gli universi diversissimi dei due ragazzi, provocando la nascita di un amore abbastanza forte da affrontare ogni avversità, trionfando a dispetto delle sfortunate ed improbabili premesse.

Johnny e Baby sono solo due ragazzi che vorrebbero amarsi e stare insieme ma che devono fare i conti con una forza altrettanto potente, quella del pregiudizio, capace di far saltare a conclusioni affrettate, attribuendo al prossimo colpe e caratteristiche negative immeritate. Un elemento che nel film agisce in più direzioni, a partire dalla diffidenza con la quale Baby viene accolta dal gruppo di ballerini, evidente nel disprezzo che il padre della ragazza dimostra per Johnny, data la sua appartenenza ad un contesto socio-culturale differente, e che raggiunge l’apice nell’ingiusta accusa di furto che decreterà il licenziamento del ballerino e la possibile fine del sogno d’amore con Baby.

Un ostacolo che i due ragazzi decidono di combattere nel più semplice dei modi, continuando ad essere profondamente se stessi ed attendendo – forse in modo un po’ troppo surreale – che il bene trionfi sul male, liberandoli dalla morsa delle false accuse.

Ma la forza di Dirty Dancing  sta anche e soprattutto in questo, far dimenticare per poco più di un’ora e mezza il significato del verbo arrendersi, per godersi la proiezione di un mondo ideale in cui tutto è possibile, basta attendere il momento giusto.

Un film in cui la musica si erge a vera e propria protagonista, sottolineando il mood di ogni scena con una playlist indimenticabile,  da ascoltare e riascoltare, immergendosi nell’atmosfera dorata ed ingenua dei favolosi anni ’60, un’epoca da rimpiangere e da rivivere.

mercoledì 20 agosto 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 20 agosto.

Il 20 agosto 1977 la NASA lancia nello spazio la sonda Voyager 2.

Lanciata nell'agosto del 1977, oggi la sonda Voyager 2 si trova a 11 miliardi e 460 milioni di chilometri dal Sole e continua a macinare chilometri su chilometri allontanandosi sempre più dal Sistema Solare. Dal lancio la Voyager 2 è sempre stata in contatto con il centro di controllo, sia per inviare informazioni, sia per ricevere le istruzioni necessarie alla sua navigazione.

L'apprensione è per i sistemi automatici di controllo della Voyager 2, che più volte al giorno entrano in funzione per tenere l'antenna rivolta verso la Terra. Questi dovranno continuare a funzionare alla perfezione, senza alcuna possibilità di intervento da parte dei tecnici. Dovranno funzionare senza problemi anche i sistemi per mantenere sufficientemente riscaldati gli strumenti ancora in attività, altrimenti si degraderanno in brevissimo tempo (a bordo della sonda vi è un generatore atomico per questo).

La Voyager 2 è alimentata da una batteria RTG che le permetterà di funzionare, seppure in modo limitato, fino al 2035. Al momento sono stati spenti progressivamente 4 strumenti dei 10 presenti sulla sonda, al fine di preservare le batterie per il tempo più lungo possibile. 

Secondo le previsioni, dopo aver raggiunto ed analizzato l'eliopausa pochi anni dopo la Voyager 1, che l'ha raggiunta nell'agosto 2012, dovrebbe in seguito raggiungere e analizzare anche lo spazio interstellare e l'ipotetico muro d'idrogeno (situato tra l'eliopausa e il bow shock), però sarà impossibile che la sonda sia ancora funzionante quando raggiungerà il bow shock situato a circa 230 UA dal Sole; nell'ipotesi che viaggi all'attuale velocità, si può stimare il raggiungimento di tale zona nel 2052, ma in realtà occorrerà più tempo a causa del progressivo leggero rallentamento della sonda.

Tra circa 40.000 anni passerà a circa 1,7 anni luce dalla stella Ross 248, distante dal Sole 10,32 anni luce, situata nella costellazione di Andromeda (a quell'epoca Ross 248 sarà la stella più vicina al Sole, a circa 3 anni luce); inoltre, tra circa 296.000 anni passerà a circa 4,3 anni luce dalla stella Sirio, distante dal Sole 8,6 anni luce.

martedì 19 agosto 2025

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 Buongiorno, oggi è il 19 agosto.

Il 19 agosto 1954 muore a casa sua in Trentino Alcide De Gasperi.

Nato il 3 aprile 1881 a Pieve Tesino (Trento), Alcide De Gasperi è stato un protagonista della ricostruzione politica ed economica dell'Italia dopo la seconda guerra mondiale e leader dei governi di centro formatisi a partire dal 1947.

Dato che alla sua nascita il territorio trentino apparteneva ancora all'Impero austro-ungarico (anche se di lingua italiana), è proprio nella vita politica austriaca che il giovane De Gasperi inizia a muovere i primi passi di quella che fu una lunga e fortunata carriera politica.

Nel 1905 entra a far parte della redazione del giornale "Il Nuovo Trentino" e, divenutone il direttore, appoggia il movimento che auspicava la riannessione del Sud Tirolo all'Italia.

Dopo il passaggio del Trentino e dell'Alto Adige all'Italia continua l'attività politica nel Partito Italiano Popolare di don Luigi Sturzo. Diventa in breve tempo il presidente del partito e si pone nella condizione di poter succedere a Sturzo qualora questi voglia, oppure, come poi in realtà avverrà, sia costretto ad abbandonare la vita politica italiana.

Intanto in Italia come del resto in altre parti d'Europa si fa sentire il vento della rivoluzione russa, che nel nostro paese determina la scissione socialista del 1921, la nascita del PCI, e l'inizio di un periodo pre-rivoluzionario, il "biennio rosso", che nel 1919 e nel 1920 vede la classe operaia protagonista di cruente lotte sociali e che contribuirà non poco a spaventare la borghesia, spingendola tra le braccia di Mussolini.

Deciso avversario del fascismo De Gasperi viene imprigionato nel 1926 per la sua attività politica. Fu uno dei pochi leader popolari a non accettare accordi col regime benché fosse stato, nel 1922, favorevole alla partecipazione dei popolari al primo gabinetto Mussolini.

Dopo l'omicidio Matteotti, l'opposizione al regime ed al suo Duce è ferma e risoluta anche se coincide con il ritiro dalla vita politica attiva a seguito dello scioglimento del P.I.P. ed al ritiro nelle biblioteche vaticane per sfuggire alle persecuzioni del fascismo.

Durante la seconda guerra mondiale De Gasperi contribuisce alla fondazione del partito della Democrazia Cristiana, che eredita le idee e l'esperienza del Partito Popolare di don Sturzo.

De Gasperi non è tanto un uomo d'azione, quanto un "progettista" politico (suo il documento programmatico della DC scritto nel 1943), che alla fine della guerra mostra di avere le idee chiare sulla parte da cui stare, l'occidente anticomunista.

Dopo il crollo della dittatura del Duce viene nominato ministro senza portafoglio del nuovo governo. Ricopre la carica di ministro degli Esteri dal dicembre 1944 al dicembre 1945, quando forma un nuovo gabinetto.

In qualità di presidente del consiglio, carica che manterrà fino al luglio del 1953, De Gasperi favorisce e guida una serie di coalizioni di governo, composte dal suo partito e da altre forze moderate del centro. Contribuisce all'uscita dell'Italia dall'isolamento internazionale, favorendo l'adesione al Patto Atlantico (NATO) e partecipando alle prime consultazioni che avrebbero condotto all'unificazione economica dell'Europa.

Opera principale della politica degasperiana fu proprio la politica estera e la creazione dell'embrione della futura Unione Europea. Un'idea europeista che nasceva nell'ottica di una grande opportunità per l'Italia per superare le proprie difficoltà.

Lo statista trentino muore a Sella di Valsugana il 19 agosto 1954, appena un anno dopo l'abbandono della guida del governo.

La sua scomparsa suscitò commozione in tutta Italia. Il percorso del treno con cui la salma fu trasportata a Roma per i funerali di Stato fu interrotto diverse volte da persone accorse per rendergli omaggio. Al funerale furono presenti esponenti di tutti i partiti con l'esclusione del MSI, a causa del fermo antifascismo dello statista. È sepolto a Roma, nel portico della Basilica di San Lorenzo fuori le mura. La tomba è opera dello scultore Giacomo Manzù.

Poco dopo la sua morte, iniziarono le richieste di avviare per lui il processo di beatificazione. È in corso a Trento la fase diocesana del processo di canonizzazione, che è stata aperta nel 1993, per cui la Chiesa cattolica ha assegnato ad Alcide De Gasperi il titolo di Servo di Dio.

lunedì 18 agosto 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 18 agosto.

Il 18 agosto 1975 in Cina, durante gli scavi per la costruzione di un edificio, viene ritrovata una mummia perfettamente conservata risalente al II secolo a. C.

Quando pensiamo ad una mummia, immediatamente la nostra mente corre all’antico Egitto il cui popolo, attraverso complessi rituali, ha consacrato un numero infinito di corpi all’eternità.

In realtà, non tutti sanno che i corpi meglio conservati al mondo sono in Cina. Una serie di ritrovamenti archeologici ha convinto alcuni scienziati che le conoscenze degli antichi cinesi, sulla conservazione dei corpi, fossero nettamente superiori a quelle egiziane.

Nel 1971, in piena guerra fredda, alcuni lavoratori stavano scavando per costruire dei rifugi anti-aereo vicino alla città di Chanesha, capoluogo dell’Hunan, una provincia della Cina centro-meridionale, quando hanno rinvenuto un enorme complesso funerario della dinastia Han.

Tale dinastia fu fondata dalla famiglia Lin e, governando sulla Cina dal 206 a.c al 220 d.C., portò un grande progresso all’interno del Paese. Nella tomba sono stati scoperti più di mille manufatti perfettamente conservati e, fra gli altri, un corpo di donna che ha fatto molto parlare di sé.

Si tratta di Lady Dai, moglie di Xin Zhui, una principessa della dinastia Han, considerata uno dei corpi meglio conservati al mondo. Morta tra il 178 ed il 145 a.C., all’età di circa 50 anni, era circondata da oggetti che ne testimoniano l’importanza ed anche il gusto raffinato della principessa per cibi esotici e tessuti pregiati.

Quello che stupisce è il perfetto stato di conservazione delle sue spoglie. La mummia è attualmente conservata nel Museo di Hunan e non ha nulla a che vedere con le mummie egizie che siamo abituati a vedere. Ci si chiede, come siano riusciti gli antichi cinesi in questa complessa opera d’imbalsamazione.

Sembra che essi siano riusciti a dare a Lady Dai l’immortalità, pur avendo lavorato sulle sue spoglie mortali. Quello che sconvolge è che sembra di vedere il cadavere di una donna morta al massimo da una settimana, mentre invece, in realtà, sono trascorsi 2100 anni da quando ha esalato il suo ultimo respiro.

Pelle e tessuti sono morbidi, le articolazioni flessibili, i capelli intatti, il sangue nelle vene è ancora rosso e fluido e tutti gli organi sono conservati perfettamente. Il suo aspetto è rimasto identico al giorno della morte, tanto che è stato possibile effettuare un’autopsia.

L’esame ha rivelato che la principessa, al momento della morte, era in sovrappeso e soffriva di mal di schiena. È morta d’infarto, poiché, molto probabilmente, l’obesità le ha provocato l’ostruzione delle vene, causandole problemi cardiaci. La sua dieta era troppo ricca, e la donna non faceva alcuna attività fisica.

Archeologi e patologi stanno ancora cercando di individuare le modalità che hanno consentito al corpo di giungere intatto fino a noi. Sembra quasi che gli antichi cinesi conoscessero l’”elisir di lunga vita”, e forse la risposta di questa perfetta conservazione della salma nei secoli, dipende proprio dall’articolata struttura della tomba e dalle modalità stesse di sepoltura.

Dopo essere stata avvolta da 22 abiti di seta e canapa, legata con 9 nastri di seta ed il volto coperto da una maschera, la salma è stata riposta in una bara perfettamente sigillata, contenuta a sua volta in altri 6 sarcofagi. Il corpo era immerso in 20 litri di un misterioso liquido, la cui composizione non è ancora del tutto chiara.

Credenze popolari hanno attribuito un grande potere a Lady Dai: la sua mummia pare essersi evoluta ed integrata nel cosmo. La Cina ha sempre affascinato il mondo con la sua ricca cultura, i numerosi misteri ed i ricchi tesori sepolti nelle viscere della terra e negli abissi marini.

Sicuramente la mummia di questa donna invita a riflettere sui grandi misteri della vita, della morte, del corpo e dell’eternità.

domenica 17 agosto 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 17 agosto.

Il 17 agosto 1915 Leo Frank viene linciato dalla folla indignata perché gli era stata revocata la pena di morte per l'omicidio della tredicenne Mary Phagan.

A distanza di più di un secolo, il cold case di Mary Phagan sembra non essere stato ancora definitivamente risolto. Il 26 aprile 1913, la piccola Mary, una tredicenne bianca di Marietta, che lavorava nella National Pencil Factory di Atlanta – una fabbrica di cui l’ebreo del Nord, Leo M. Frank, era sovrintendente e in piccola parte anche proprietario – fu trovata stuprata e strangolata in un locale dell’edificio. L’omicidio risaliva al giorno precedente e, prima ancora che le accuse si indirizzassero verso Frank, le autorità di Atlanta avevano arrestato sei persone, tra cui Jim Conley e Newt Lee, i custodi neri della fabbrica. Le indagini, però, ben presto presero un’altra piega, anche perché vi fu una grande mobilitazione di massa: la folla indignata premeva perché il caso venisse risolto alla svelta e i giornali locali puntavano il dito contro i mali del lavoro minorile e contro la lussuria e la perversione, l’avidità e lo sfruttamento dei capitalisti ebrei del Nord. 

Se la violenza razzista negli Stati del Sud era all’ordine del giorno, l’urbanizzazione e l’industrializzazione del paese mostravano i nuovi volti della povertà e dello sfruttamento. La famiglia di Mary era una delle tante famiglie di agricoltori in affitto, trasferitisi in città nella speranza di un miglioramento delle proprie condizioni di vita, così come tanti altri contadini bianchi del Sud avevano fatto. La loro situazione non era migliore di quella di molti neri: la povertà e lo sfruttamento erano simili; ciò che cambiava era solo il colore della pelle. Ma al pregiudizio razzista contro i neri si era aggiunto da tempo anche un altro antico pregiudizio, quello contro gli ebrei del Nord, identificati tout court con il capitalismo rampante, con il mondo della finanza e degli affari, con lo sfruttamento che ormai colpiva anche il mondo “wasp”.

Mary Phagan, una ragazzina bianca povera, che montava le gommine sulle matite con le mani e veniva pagata 12 centesimi all’ora, divenne, dopo la sua morte, il simbolo dell’infanzia sfruttata, della donna bianca violata e, soprattutto, dell’avidità del capitalismo nordista, in particolare di quello gestito dagli ebrei. Molte cose stavano cambiando negli Stati Uniti: il contesto internazionale era diventato più aggressivo; la società stava viaggiando ormai al ritmo implacabile dell’industrializzazione; le ondate migratorie portavano oltreatlantico grandi masse di diseredati e di perseguitati soprattutto dall’Europa dell’Est e del Sud in cerca di riscatto; il sogno americano veniva ridefinito sull’onda del progressismo, ma anche dei tumultuosi scioperi nelle fabbriche, ricacciati indietro dagli uomini di Pinkerton, o dei gruppetti esaltati degli anarco-comunisti che speravano di realizzare proprio in America la rivoluzione colpendo i simboli viventi dello sfruttamento, mentre l’ondata populista percorreva tutte le classi sociali e lo yellow journalism incendiava le piazze di sensazionalismo. La violenza era aumentata in maniera esponenziale nel Sud degli Stati Uniti e il nuovo capro espiatorio erano diventati gli uomini d’affari, dietro i quali venivano individuati gli ebrei, secondo lo stereotipo più diffuso e antico. Ben presto, la miscela incendiaria alimentata dalle piazze – unitamente al bisogno del procuratore di risolvere il caso e di assicurarsi una possibilità più concreta di far carriera – si concentrò su Leo Frank, l’ultimo ad averla vista viva, che fu accusato dell’omicidio e incolpato proprio da Jim Conley.

Louis Marshall, presidente dell’American Jewish Committee, descrisse il caso quasi come un “secondo affare Dreyfus” e, di fronte alla folla che urlava “Crack the Jew’s neck!” e “Lynch him!”, la comunità ebraica decise di difendere pubblicamente il proprio rappresentante con interventi sulla stampa locale e con una raccolta di fondi per organizzarne la difesa, anche perché da molto tempo gli ebrei di Atlanta erano perfettamente integrati nella società. La prima cosa che emerse fu la debolezza della linea difensiva di Frank: questi, sulla base della “prova” considerata quasi inoppugnabile, vale a dire il fatto che fosse apparso “nervoso” quando la polizia lo aveva interrogato dopo aver trovato dei capelli della ragazza nel bagno di fronte al suo ufficio – divenne il principale indagato, ma la sua difesa non seppe contrastare i racconti fatti da alcuni testimoni che mettevano in dubbio la sua serietà con le donne, e soprattutto non contestò con la necessaria determinazione le dichiarazioni giurate sorprendenti rilasciate proprio da Conley, arrestato nei giorni precedenti proprio mentre stava rimuovendo sotto l’acqua delle macchie presumibilmente di sangue o di ruggine da una camicia blu da lavoro. Conley dichiarò, tra l’altro, che Frank gli aveva confessato l’omicidio, avvenuto dopo che la ragazza aveva rifiutato le sue avances, che lo aveva aiutato a spostare il suo corpo e che aveva scritto un biglietto da lui dettato (le famose “note” dell’omicidio). Tutto il processo avvenne durante un’estate caldissima, con l’aula piena di gente che inveiva contro Frank, mentre, dalle finestre spalancate, entravano le urla della folla che chiedeva il linciaggio dell’ebreo e minacciava gli stessi giurati se non avessero condannato a morte il “dannato sheeny”. Dopo che Frank venne condannato alla pena capitale, Marshall personalmente seguì per due volte la richiesta di revisione del processo e poi presentò l’appello alla Corte Suprema, ma senza successo, se non con la conseguenza negativa di avvalorare ancor di più nella folla l’idea che il denaro ebraico stesse cercando di modificare la sentenza, anche attraverso una incessante campagna di stampa. Dopo un’estesa raccolta di firme, di appelli e di petizioni, che portò il caso alla ribalta nazionale, John M. Slaton, governatore della Georgia, nell’estate del 1915, un giorno prima dell’impiccagione di Frank, commutò la sentenza di morte in ergastolo, dichiarandosi convinto della sua innocenza e del fatto che essa sarebbe stata provata in breve termine, cosa che lo trattenne dal concedergli un perdono totale. Ma il giorno successivo, Frank venne rapito dalla prigione in cui era rinchiuso da un gruppo di 28 facinorosi definitisi come i “Cavalieri di Mary Phagan” (molti di loro erano persone molto influenti, come venne dimostrato in seguito proprio da una parente della ragazza assassinata), condotto a Marietta, la città natale di Mary, e linciato. Il nuovo governatore si impegnò ad individuare i colpevoli del sequestro, ma senza riuscirci. Dopo il linciaggio di Frank, circa metà dei tremila ebrei della Georgia lasciarono lo Stato. Nel 1986, il Georgia State Board of Pardons and Paroles concesse a Leo Frank il perdono, ma senza mai assolverlo dall’accusa di omicidio. Dal 2013, anno del centenario della morte di Mary Phagan, sono comparsi molti siti web per dimostrare che Leo Frank era effettivamente colpevole, ma l’Anti-Defamation League (nata proprio nel 1913 sull’onda del “caso Frank”) ha chiarito qualche anno fa, con un comunicato stampa, che si tratta di “siti ingannevoli”, creati da “antisemiti dichiarati per promuovere i temi propagandistici dell’antisemitismo”.

 

sabato 16 agosto 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 16 agosto.

Il 16 agosto a Siena si corre il secondo Palio dell'anno, detto Palio dell'Assunta.

Il Palio di Siena è una delle competizioni tradizionali più famose d’Italia. Si svolge a Siena e coinvolge le Contrade della città nella forma di una giostra equestre di origine medievale. Questa particolare corsa con i cavalli viene chiamata la “carriera” e si svolge normalmente due volte l’anno:

il 2 luglio si corre il Palio in onore della Madonna di Provenzano, festa della Visitazione nella forma straordinaria;

il 16 agosto quello in onore della Madonna Assunta.

Ma scopriamo insieme qualcosa di più sul Palio di Siena: cos’è? Qual è la sua storia? E le sue regole?

Il Palio di Siena è una secolare celebrazione, una competizione tra le Contrade di Siena, e ha origini antichissime: pensate che alcuni regolamenti, tuttora validi, risalgono al 1644, anno in cui venne corso il primo palio con i cavalli, così come ancora avviene, in continuità mai interrotta (ad eccezione del periodo delle due guerre mondiali).

Siena è divisa in Contrade, diciassette in tutto, con dei confini stabiliti nel 1729 dal Bando di Violante di Baviera, Governatrice della Città. Ogni Contrada è come un piccolo stato, retto da un Seggio con a capo il Priore e guidato nella “giostra” da un Capitano, coadiuvato da due o tre contradaioli detti “mangini” o “tenenti”. Nel territorio di ciascuna Contrada possiamo trovare una chiesa, all’interno della quale sono di solito custoditi bandiere e cimeli, archivio e tutto quanto altro concerne la vita della Contrada stessa.

Le prime notizie ufficiali relative al Palio sono datate 1238, con un documento di “giustizia paliesca”, alla pena pecuniaria nei confronti di Ristoro di Bruno Ciguarde, colpevole di non aver “preso il porco”, cioè il premio-sfottò che per regolamento doveva andare all’ultimo classificato. I primi Palii erano corsi dai nobili, ma la situazione con il tempo cambiò fino a rendere protagonista tutto il popolo senese.

Inizialmente il Palio prendeva luogo in tutta la città, ma all ’inizio del Seicento si trasferì gradualmente in Piazza del Campo e il primo palio corso “alla tonda” nella splendida piazza senese sembra risalire al 1633.

I fantini, considerati mercenari, avevano un compenso fisso e in più avevano il permesso di questuare per le vie della contrada, una tradizione durata fino agli anni Sessanta del Novecento.

Il regolamento moderno del Palio di Siena è del maggio 1721, anche se nei secoli ci sono state delle modifiche e dei miglioramenti. Il Palio di Siena si corre tutti gli anni. Nel Novecento venne sospeso a causa della Prima Guerra Mondiale, mentre negli anni del Fascismo, il regime volle appropriarsi dell’organizzazione dell’evento attraverso l’Opera Nazionale Dopolavoro, e nel luglio 1936, per celebrare la vittoria della guerra d’Etiopia, il Palio divenne “dell’Impero”. Di nuovo, Il Palio venne sospeso per la Seconda Guerra Mondiale, ma il 20 agosto 1945 fu corso il Palio straordinario “della Pace”.

Possono prendere parte al Palio dieci contrade su diciassette: le sette che non hanno corso il Palio precedente e tre estratte a sorte tra le restanti. L’ordine di ingresso dei cavalli tra i canapi è segreto, e viene rivelato solo all’ultimo dal “mossiere” (giudice insindacabile della validità della partenza) che è posizionato sul “verrocchio” (un palchetto).

Nove cavalli su dieci entrano tra i canapi secondo l’ordine di entrata, uno solo, quello sorteggiato “di rincorsa” resta fuori. Sarà quel cavallo a determinare il momento della partenza effettiva della gara, sotto la supervisione del mossiere.

Nelle fasi solitamente lunghe in cui i cavalli si sistemano avviene la tradizionale attività di “trattativa” tra fantini (detta “fare i partiti”), con contrade amiche che cercano alleanze contro i nemici comuni. Le operazioni di entrata dei cavalli possono durare così a lungo che è previsto il rinvio al giorno successivo quando subentrano problemi di visibilità. I fantini cavalcano senza sella, “alla bisdossa”.

La gara consiste in tre giri completi di piazza del Campo in senso orario. Vince il cavallo che arriva per primo, anche senza fantino (le cadute sono frequenti), e in quel caso si parla di “cavallo scosso”.

La contrada vincitrice va sotto il palco dei Capitani a ritirare il drappello della vittoria, che viene realizzato ogni anno da un artista diverso. Questo drappello verrà prima portato in Chiesa (Santa Maria in Provenzano a luglio, Duomo ad agosto) e poi nella contrada stessa, dove verrà conservato per sempre.

 

venerdì 15 agosto 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 15 agosto.

Il 15 agosto 1928 nasce a Ferrara Everardo Dalla Noce.

Non era solo calcio Everardo Dalla Noce: il grande successo a Tutto il Calcio Minuto per Minuto lo ha lanciato nel mondo dello sport e del giornalismo, ma non è ovviamente solo la palla rotonda ad aver inserito negli annali della storia il grande giornalista tifoso della Spal. Era un apprezzatissimo radiocronista e in quanto tale ebbe l’onore e al tempo stesso il dramma di dover raccontare un evento traumatico nella storia dello sport. Era il 1976, nel Gran Premio di Germania per la classe Formula 1: Niki Lauda in quel drammatico circuito del Nürburgring si schianta in una curva e la sua auto prende fuoco. Alla radio a raccontarlo su Radio Rai c’era proprio Everardo Dalla Noce che riuscì nell’impresa di raccontare con signorilità, commento diretto e profonda umanità davanti ad un dramma che si stava consumando con mezza parte del corpo andata a fuoco proprio del grande campione di Formula 1. Si salvò per fortuna, dopo anche il coma, e riuscì a ritornare: per Dalla Noce tornare a raccontarlo poi fu una emozione unica, una delle pagine più drammatiche e belle alla fine di quello sport cui deve tanto in Italia, in quegli anni, alla voce ufficiale della Rai.

Everardo Dalla Noce è morto nel 2017 a 89 anni, dopo una vita tutt’altro che banale. Noto ai più come giornalista del Tg2, inviato a Piazza Affari per spiegare agli italiani la giornata in Borsa (in maniera quasi divulgativa e meno tecnica della prassi), l’attività da cronista è stata una sola delle tante passioni di Dalla Noce. Era nato come giornalista sportivo, ma negli anni Settanta passò alla televisione, dove il ruolo da corrispondente ne fece un volto familiare per milioni di italiani. Uomo poliedrico, esperto e critico d’arte con tanto di rubrica su Il Sole 24 Ore, Dalla Noce è stato anche un paroliere: come riporta Il Fatto Quotidiano, ha scritto un’80ina di canzoni, una di queste anche per Patty Pravo, ma è rimasto sempre nell’anonimato perché il contratto in Rai glielo vietava. La passione più grande? Forse quella per la Spal, di cui era tifosissimo. Non solo calcio però. Basti pensare che una volta, durante una diretta di “Tutto il calcio minuto per minuto” ebbe l’ardire di intervenire per comunicare le notizie del campionato di baseball, “uno sport bellissimo, ma profondamente americano. Peccato stenti così tanto a farsi amare dagli italiani”, si rammaricava. 

Molti ricordano Everardo Dalla Noce anche per la sua partecipazione al primo Quelli che il Calcio di Fabio Fazio. Fu una delle grandi intuizioni del conduttore quella di portare nella propria squadra la simpatia e l’ironia del giornalista. I suoi collegamenti dagli stadi hanno fatto storia: ogni volta che chiedeva la linea usava questa formula, “Attenzione, attenzione…”, a lasciare intendere una svolta nel match poi, dopo qualche istante d’attesa – quasi fosse la pausa scenica dell’attore – ammetteva candidamente: “Non è successo niente”. Era un po’ il suo marchio di fabbrica. Del resto anche nel restituire la linea al telegiornale aveva varato una sua personalissima formula: ”Linea e microfoni a Roma”. La Spal, in ragione del suo tifo per la società estense, lo ha ricordato così sul suo sito ufficiale: ”In queste ore è scomparso Everardo Dalla Noce, noto giornalista radio-televisivo in Rai, da sempre tifoso della Spal. Storica voce di Tutto il calcio minuto per minuto, nonché inviato di TG2 dalla Borsa di Milano per aggiornamento economici, Dalla Noce aveva 89 anni e per 30 ha lavorato nel servizio radio-televisivo nazionale con un occhio di riguardo sempre per la sua passione biancazzurra. La società SPAL 2013 srl si stringe attorno alla famiglia Dalla Noce per la dolorosa scomparsa, consapevole di essere rimasti orfani di un grande tifoso, garbato ed ironico nella sua passione per i colori spallini“. 

 

giovedì 14 agosto 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 14 agosto.

Il 14 agosto del 1861, all’alba dell’Unità d’Italia, va in scena una strage ai danni degli abitanti di due paesi in provincia di Benevento, Pontelandolfo e Casalduni: una strage che mai mente criminale avrebbe potuto concepire. I protagonisti di questa bruttissima pagina della storia italiana sono i “liberatori” italo-piemontesi, con in testa il generale Enrico Cialdini.

Alle prime ore del giorno di quel 14 agosto, come già ricordato, si scrive una delle pagine più nere del Risorgimento, puntualmente ignorata dalla storiografia ufficiale e dai testi scolastici. Su ordine del già citato generale Enrico Cialdini viene inviata, per una operazione di rappresaglia (poiché erano stati uccisi dai briganti alcuni soldati del regio esercito), al comando del colonnello Pier Eleonoro Negri, una colonna di 500 bersaglieri con la disposizione di massacrare tutti gli abitanti, ritenuti complici dei briganti, e per vendetta radere al suolo i due paesi.

La mattina del 14 agosto i soldati raggiungono i due paesi. Casalduni viene trovata quasi deserta: gran parte degli abitanti, intuendo quello che stava per succedere, si è data alla fuga. Completamente diverso lo scenario a Pontelandolfo, dove gli abitanti vengono sorpresi nel sonno.

I militari piemontesi assaltano le chiese e le case: saccheggi, torture, stupri: quella mattina succede di tutto. Le cronache dell’epoca raccontano che i militari danno fuoco alle abitazioni lasciando dentro gli abitanti.

Si racconta anche che i bersaglieri attendevano l’uscita dei civili dalle proprie abitazioni in fiamme per sparargli addosso. Chi riesce a salvarsi dalle fiamme e dal tiro a bersaglio viene catturato e poi fucilato. Per le donne trattamento a parte: cattura, stupri, sevizie e uccisione per quelle che si opponevano.

Enrico Cialdini è il mandante del massacro di Pontelandolfo e Casalduni. In virtù dei più ampi e criminali poteri che arbitrariamente si attribuiva, in dispregio delle leggi e delle più elementari norme umanitarie, fa fucilare sul posto, senza processo, intere famiglie, mette a ferro e fuoco interi paesi e villaggi del Mezzogiorno d’Italia e fa arrestare e deportare tutti coloro che danno solidarietà e un minimo di sussistenza ai cosiddetti briganti.

Negli ordini scritti ai suoi sottoposti, Cialdini è solito raccomandare di “non usare misericordia ad alcuno, uccidere senza fare prigionieri, tutti quanti se ne avessero tra le mani”. Ed è esattamente quello che avviene, ad opera di questo criminale, a Pontelandolfo e Casalduni. 

Nel 1920 Antonio Gramsci, su ‘Ordine Nuovo’, a proposito di questi genocidi e di queste vere e proprie pulizie etniche perpetrate dei “civilizzatori e liberatori” italo-piemontesi a danno delle popolazioni meridionali così scrive:

“Lo Stato italiano si è caratterizzato come una dittatura feroce che ha messo a ferro e a fuoco l’Italia meridionale, squartando, fucilando e seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono di infamare con il marchio di briganti”.

Ma per restare nello specifico degli eccidi di Pontelandolfo e Casalduni, ecco quanto riporta dettagliatamente e testualmente nel suo diario Carlo Margolfo, uno dei 500 Bersaglieri entrati, all’alba di quel maledetto 14 agosto in paese a compiere la strage:

“Al mattino del mercoledì, giorno 14, riceviamo l’ordine superiore di entrare nel Comune di Pontelandolfo, fucilare gli abitanti ed incendiarlo. Entrammo nel paese, subito abbiamo incominciato a fucilare i preti e gli uomini, quanti capitava, indi il soldato saccheggiava ed infine abbiamo dato l’incendio al paese, di circa 4500 abitanti. Quale desolazione non si poteva stare d’intorno per il gran calore e quale rumore facevano quei poveri diavoli che la sorte era di morire abbrustoliti e chi sotto le rovine delle case”.

Questa la raccapricciante testimonianza del bersagliere Margolfo che è attivo protagonista di tale eccidio. L’ordine è perentorio: radere al suolo i due paesi, non fare rimanere in piedi una sola pietra.

Come già ricordato, vengono prese d’assalto le chiese e le case e, al grido di “piastra, piastra”, vengono saccheggiate per poi essere incediate. Il “diritto di rappresaglia” consente a queste belve di uccidere, in un orgia di sangue, anche vecchi e bambini e stuprare le donne senza prima avere loro strappato gli orecchini. Concettina Biondi, una ragazzina appena sedicenne, viene violentata malgrado l’ordine fosse quello di risparmiare almeno i bambini.

La storia ufficiale ha nascosto quasi tutto. Ancora oggi non si conosce nemmeno il numero esatto delle vittime.

Nell’ambito delle manifestazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia, Giuliano Amato, presidente del comitato dei garanti delle celebrazioni, ha dichiarato agli abitanti di Pontelandolfo:

“A nome del presidente della Repubblica Italiana vi chiedo scusa per quanto qui è successo e che è stato relegato ai margini dei libri di scuola”.


mercoledì 13 agosto 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 13 agosto.

Il 13 agosto 1521 Hernan Cortes conquista Tenochtitlàn, la capitale dell'Impero Azteco.

Gli Aztechi furono un popolo molto potente che dominò per secoli quello che oggi è il Messico, nell'America Centrale; il nome stesso "Messico" deriva dall'appellativo Mexica con cui gli Aztechi solevano chiamarsi tra di loro.

Il termine "Azteco" venne coniato in seguito da uno studioso tedesco per distinguere i Mexica  dalle altre popolazioni precolombiane (cioè esistenti prima dell'arrivo di Colombo).

Gli Aztechi erano originariamente un popolo nomade proveniente dalle regione settentrionali (Aztlán, un termine in lingua nahuatl che significa "luogo dell'airone", era il loro leggendario luogo di origine; da qui il nome "Aztechi") che si stanziò attorno al XII secolo in America Centrale e si mischiò con le tribù locali.

La colonizzazione, e la successiva espansione, avvennero perlopiù con la forza e la sottomissione delle città confinanti, le quali, una ad una, dovettero piegarsi al dominio di questi guerrieri formidabili.

La capitale azteca era Tenochtitlàn, una specie di "Venezia" in mezzo alla giungla, poiché sorgeva in mezzo al lago Texoco ed era attraversata da canali e fiumiciattoli melmosi.

I formidabili guerrieri aztechi non avevano paura di morire in combattimento (anzi ciò era un segno d'onore!), e dunque in pochi furono in grado di contrastare la loro avanzata. 

Così come i Maya, gli Aztechi accompagnavano a capanne e palafitte di legno la costruzione di immense piramidi di pietra, il cui scopo era quello di ospitare gli importanti rituali propiziatori dei sacerdoti.

Queste città dall'aspetto imponente si ergevano su acquitrini o in mezzo alla foresta pluviale, e proprio questa conformazione del territorio impedì all'impero Azteco di reggersi sotto un governo centrale e diretto (come invece accadeva in Europa), ma di svilupparsi piuttosto con grandi centri abitati semi-indipendenti (tipo città-stato) che intrecciarono una rete di tributi e invio di ostaggi da parte degli insediamenti sottomessi.

Come quasi tutte le civiltà antiche, le classi sociali erano divisi tra nobili, che guidavano gli eserciti e riscuotevano le tasse, i sacerdoti, i contadini e gli schiavi.

Anche se soldati e governanti spietati, gli Aztechi sapevano divertirsi!

Oltre alla composizione di poesie e canzoni infatti, essi si intrattenevano con uno sport a metà tra il calcio, la pallavolo e il basket chiamato pelota: questi consisteva in una competizione tra due squadre che, passandosi una piccola palla di gomma, dovevano farla passare attraverso un anello ai lati del campo.

Non è chiaro con quali parte del corpo fosse permesso toccare il pallone (si pensa alle anche!), ma sappiamo che questo gioco era molto importante per gli Aztechi, tanto che la squadra perdente, rischiava spesso di fare una brutta fine…

La brutalità del mondo azteco può essere ricondotta alla visione molto cruenta che essi avevano del mondo.

Accanto al culto di Quetzalcoatl, il Serpente Piumato creatore dell'umanità che un giorno sarebbe ritornato sulla Terra, gli Aztechi coltivavano anche una concezione piuttosto "catastrofica" della realtà, poiché pensavano che ogni era fosse fatta da 52 anni, e allo scadere di essi, il mondo venisse ciclicamente distrutto e poi ricreato dal nulla.

La paura costante della fine del mondo, spingeva gli aztechi ad una ossessiva ricerca del consenso delle divinità, le quali però, a differenza delle altre religioni, erano anch'esse mortali!

Secondo la tradizione infatti, gli antichi dei si erano gettati nel fuoco per far sì che il Sole, fonte di ogni vita, non si spegnesse!

I sacerdoti aztechi allora rinnovavano ogni volta questo gesto eseguendo terribili sacrifici umani: i poveri schiavi che venivano catturati o mandati come ostaggi dai nemici sconfitti, venivano infatti mandati in cima alle piramidi delle città e lì venivano giustiziati dai sacerdoti per far sì che il loro sangue alimentasse il Sole.

Alla fine, la tanto temuta catastrofe arrivò, benché non avvenne per mano di terremoti o alluvioni.

Nel Cinquecento infatti, i Conquistadores spagnoli, entrarono in contatto con questa civiltà durante le loro esplorazioni del Nuovo Mondo.

L'ultimo imperatore, Montezuma, si trovò ad affrontare un nemico molto meno numeroso (erano poco più di 500 uomini), ma le cui armature di ferro, i fucili e i cavalli, provocavano un estremo timore negli indigeni, i quali non conoscevano una tale tecnologia e pensavano di avere a che fare con demoni giunti dal mare.

Nel 1521, in solo due anni. il generale dei conquistadores, Hernán Cortés, distrusse il secolare impero azteco, sterminando quasi la totalità della popolazione non solo con la forza, ma anche con le malattie importate dall'Europa contro cui i nativi non avevano alcuna difesa immunitaria.

Anche gli invasori spagnoli  però non erano abituati al clima e ai virus tropicali.

Grandi epidemie colpirono quindi gli europei che, impotenti, pensavano di avere a che fare con una maledizione lanciata da Montezuma per vendicarsi della sconfitta.

Anche al giorno d'oggi, quando in Messico qualche turista poco attento mangia o beve qualcosa di esotico che gli provoca violenti scompensi fisici si parla della temibile "vendetta di Montezuma"!

martedì 12 agosto 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 12 agosto.

Il 12 agosto 1883 morì nello Zoo di Amsterdam l'ultimo esemplare di Quagga. 

Il suo vero nome è Equus quagga quagga ed era una sottospecie della zebra che tanto tempo fa viveva in Sud Africa dove, adesso, è stato reintrodotto. Come è possibile? Il cugino della zebra è tornato a vivere nella sua terra d'origine grazie al “Quagga Project” che, da fine anni '80, si è impegnato nel tentativo di riuscire a ridare una seconda opportunità a questo animale.

Il progetto si basa sul breeding back, una forma di selezione che permette, grazie a vecchi campioni dell'animale originale, di ottenere da un allevamento selezionato animali dal fenotipo simile a quello del Quagga, in poche parole, consapevoli della parentela tra Quagga e Zebre, i ricercatori hanno selezionato queste ultime per dare vita ad animali esteticamente simili ai Quagga stessi. Non si tratta di clonazione, in quanto questi “nuovi” animali non sono realmente dei Quagga, ma ne hanno l'aspetto.

Questi esemplari hanno infatti un manto che, anteriormente, è simile a quello della zebra, con strisce brune sulla testa e il collo che si schiariscono fino a scomparire sul posteriore. Per ottenere questo effetto anche sui Quagga ‘moderni', i ricercatori hanno impiegato 4/5 generazioni, ma i risultati attuali sono sorprendenti.

L'attuale “zebra” è stata ribattezzata Rau Quagga in onore di Reinhold Rau, il ricercatore naturalista che propose appunto di selezionare le zebre per riuscire ad ottenere un Quagga.

Ma non è pericoloso questo nuovo reinserimento? I ricercatori sostengono che zebre e quagga potranno tranquillamente condividere gli spazi a disposizione. Quanto all'etica di questo progetto, molte sono state le critiche, c'è infatti chi sostiene che sarebbe più opportuno soffermarsi sulle specie a rischio estinzione invece di cercare di riportare, più o meno, in vita quelle che ormai non ci sono più da oltre 100 anni.


lunedì 11 agosto 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è l'11 agosto.

L'11 agosto 1253 muore Santa Chiara da Assisi.

La sera della domenica delle Palme (1211 o 1212) una bella ragazza diciottenne fugge dalla sua casa in Assisi e corre alla Porziuncola, dove l’attendono Francesco e il gruppo dei suoi frati minori. Le fanno indossare un saio da penitente, le tagliano i capelli e poi la ricoverano in due successivi monasteri benedettini, a Bastia e a Sant’Angelo.

Infine Chiara prende dimora nel piccolo fabbricato annesso alla chiesa di San Damiano, che era stata restaurata da Francesco. Qui Chiara è stata raggiunta dalla sorella Agnese; poi dall’altra, Beatrice, e da gruppi di ragazze e donne: saranno presto una cinquantina.

Così incomincia, sotto la spinta di Francesco d’Assisi, l’avventura di Chiara, figlia di nobili che si oppongono anche con la forza alla sua scelta di vita, ma invano. Anzi, dopo alcuni anni andrà con lei anche sua madre, Ortolana. Chiara però non è fuggita “per andare dalle monache”, ossia per entrare in una comunità nota e stabilita. Affascinata dalla predicazione e dall’esempio di Francesco, la ragazza vuole dare vita a una famiglia di claustrali radicalmente povere, come singole e come monastero, viventi del loro lavoro e di qualche aiuto dei frati minori, immerse nella preghiera per sé e per gli altri, al servizio di tutti, preoccupate per tutti. Chiamate popolarmente “Damianite” e da Francesco “Povere Dame”, saranno poi per sempre note come “Clarisse”.

Da Francesco, lei ottiene una prima regola fondata sulla povertà. Francesco consiglia, Francesco ispira sempre, fino alla morte (1226), ma lei è per parte sua una protagonista, anche se sarà faticoso farle accettare l’incarico di abbadessa. In un certo modo essa preannuncia la forte iniziativa femminile che il suo secolo e il successivo vedranno svilupparsi nella Chiesa.

Il cardinale Ugolino, vescovo di Ostia e protettore dei Minori, le dà una nuova regola che attenua la povertà, ma lei non accetta sconti: così Ugolino, diventato papa Gregorio IX (1227-41) le concede il “privilegio della povertà”, poi confermato da Innocenzo IV con una solenne bolla del 1253, presentata a Chiara pochi giorni prima della morte.

Austerità sempre. Però "non abbiamo un corpo di bronzo, né la nostra è la robustezza del granito". Così dice una delle lettere (qui in traduzione moderna) ad Agnese di Praga, figlia del re di Boemia, severa badessa di un monastero ispirato all’ideale francescano.

Chiara le manda consigli affettuosi ed espliciti: "Ti supplico di moderarti con saggia discrezione nell’austerità quasi esagerata e impossibile, nella quale ho saputo che ti sei avviata". Agnese dovrebbe vedere come Chiara sa rendere alle consorelle malate i servizi anche più umili e sgradevoli, senza perdere il sorriso e senza farlo perdere. A soli due anni dalla morte, papa Alessandro IV la proclama santa.

Chiara si distinse per il culto verso l'Eucarestia. Per due volte Assisi venne minacciata dall'esercito dell'imperatore Federico II che contava, tra i suoi soldati, anche saraceni. Chiara, in quel tempo malata, fu portata alle mura della città con in mano la pisside contenente il Santissimo Sacramento: i suoi biografi raccontano che l'esercito, a quella vista, si dette alla fuga.

domenica 10 agosto 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 10 agosto.

Il 10 agosto 1849 il garibaldino Ciceruacchio viene fucilato dagli austriaci.

Angelo Brunetti detto Ciceruacchio (Roma, settembre 1800 – Porto Tolle, 10 agosto 1849), figlio di un maniscalco di Campo Marzio, era di mestiere carrettiere del porto di Ripetta e trasportava vino dai Castelli romani e gestiva una taverna nei pressi di Porta del Popolo.

Il soprannome “ciceruacchio”, datogli dalla madre da bambino, è la corruzione dell’originale romanesco ciruacchiotto (grassottello). Popolano verace e dall’intelligenza assai vivida, dotato di straordinaria capacità dialettica che non poté mai coltivare con l’istruzione (parlava solo ed unicamente in romanesco), divenne presto un rappresentante informale dei sentimenti popolari.

Già beneamato dal popolo romano, per il suo comportamento durante l’epidemia di colera del 1837, con l’avvento al soglio pontificio di Papa Pio IX nel 1846, si fece portavoce dell’entusiasmo popolare per le riforme annunciate dal nuovo pontefice, tanto da divenire uno dei più strenui sostenitori, tanto che, nel luglio dello stesso anno, durante una manifestazione popolare, ringraziò il Papa per aver concesso la libertà ai detenuti politici e donò alla gente che si era ivi raccolta, alcune botti di vino, accendendo anche un grande fuoco presso Porta del Popolo.

Egli fu spesso organizzatore di queste adunate popolari, al fine di continuare ad esortare Pio IX nella prosecuzione del proficuo cammino di riforme politiche nello Stato Pontificio.

Quando alla fine del 1847 ed agli inizi del 1848, gli elementi più conservatori ebbero il sopravvento all’interno della Curia, divenendo ispiratori di provvedimenti impopolari, Angelo Brunetti assunse un atteggiamento di forte e manifesta opposizione nei confronti del Papa, divenendo uno dei più significativi esponenti dell’anticlericalismo.

Abbracciata la causa mazziniana dopo il voltafaccia del pontefice avvenuto con l’allocuzione del 29 aprile 1848, aderì alla Rivoluzione del 1849. Partecipò attivamente ai combattimenti contro l’assediante francese e si premurò di organizzare il trasporto delle armi e delle munizioni per la difesa della Repubblica, prodigandosi per riuscire a far passare attraverso l’assedio della città da parte dei francesi, bestiame e cibo per la popolazione.

Dopo la caduta della Repubblica Romana, nel luglio dello stesso anno, Ciceruacchio insieme ai due figli, il primogenito Luigi, e Lorenzo, appena tredicenne, decise di partire da Roma al seguito di Garibaldi con l’intento di raggiungere Venezia, che ancora resisteva agli Austriaci.

Con Garibaldi, Anita e Ugo Bassi ed altri fedelissimi del generale, fece tappa a San Marino e Cesenatico da dove si imbarcarono  per Venezia. In prossimità del delta del Po furono intercettati da una vedetta austriaca e costretti all’approdo. Ciceruacchio e i suoi compagni chiesero l’aiuto di alcuni abitanti del posto per raggiungere Venezia ma questi li denunciarono alle autorità.

Brunetti fu così arrestato dagli Austriaci e fucilato a mezzanotte del 10 agosto 1849, insieme al figlio Lorenzo di tredici anni, all’altro figlio Luigi ed altri patrioti e sepolti nella golena del Po. Solo nel 1879, su espressa volontà di Garibaldi, del Comune di Roma e della Società Veterani del 1848-49, i resti dei patrioti vennero uniti agli altri caduti del 1849, nell’ossario al Gianicolo a Roma.

Nel marzo 2011, in occasione del 150º anniversario dell’Unità d’Italia, il monumento a Ciceruacchio, già spostato nel 1960 in occasione della creazione del sottovia di Passeggiata di Ripetta, è stato trasferito al Gianicolo. La nuova collocazione, poco prima dell’uscita verso San Pancrazio, accanto al viale intitolato al figlio Lorenzo, ha restituito al monumento a Ciceruacchio, prima sistemato ai margini di un’arteria di rapido scorrimento, il giusto decoro, trasferendolo nel luogo simbolo del Risorgimento romano.


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