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lunedì 2 dicembre 2019

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 2 dicembre.
Il 2 dicembre 1804 Napoleone Bonaparte si autoincorona imperatore dei francesi.
Altro che Royal Wedding, come gli inglesi chiamano i matrimoni dei loro rampolli che si lasciano poi rubare la scena dal golosissimo lato b della sorella della sposa. Quello che si compì il 2 dicembre del 1804 nella Chiesa di Nôtre Dame, a Parigi, fu il più fastoso, dispendioso quant’altri mai, presuntuoso oltre ogni immaginazione funerale celebrato alla storia passata degli uomini sotto le apparenze di voler glorificare la presente e inaugurare la futura.
Dieci anni di trionfi non sarebbero bastati, al protagonista di quella messinscena, ad evitare Waterloo, passato – da nome di una radura acquitrinosa alla periferia di Bruxelles – a termine eponimo di disastro, disfatta totale. Napoleone Bonaparte, questo il nome del personaggio, volle essere incoronato “imperatore” per una ragione molto precisa: disse che la parola “re” avrebbe implicato un riferimento alla monarchia e alla connessa idea di genealogia. Lui, invece, non si considerava discendente di nessuno. Non aveva padri. Era lui e basta.
Scelse la cattedrale di Parigi invece di quella di Reims, dove erano stati incoronati tutti i re francesi, anche per questo motivo. Permise al papa di presenziare, ma solo per impartire una benedizioncella finale. Per il resto della cerimonia – lunghissima, oltre cinque ore, alla fine della quale metà dei presenti si mise a letto per sopravvenute complicanze di natura cardiorespiratoria perché faceva un freddo cane e tutti erano vestiti piuttosto leggeri – gli offrì rigorosamente le spalle.
In mancanza delle canoniche “televisioni di tutto il mondo” l’incarico di rendere memorabile la giornata – o meglio il suo momento culminante – fu affidato al più grande dei pittori francesi allora viventi, Jeacques-Louis David, il quale realizzò l’immenso quadro che sempre si accompagna al ricordo dell’evento.
 Vi sono raffigurati – analiticamente, uno per uno – tutti i dignitari, gli amici e i parenti che assistettero alla cerimonia. Fare un ritratto è già difficile, metterne insieme tanti è un’impresa folle, di cui si può avere qui una introduzione di massima.
Il quadro di David presenta altri aspetti interessanti. Quello più evidente è dato dal fatto che la scena, con quegli archi a tutto sesto e i pilastri da chiesa barocca, non ricorda affatto la Nôtre Dame che conoscono i turisti e gli appassionati del gotico. Ma David non si è sbagliato né ha lavorato di fantasia. Ha ripreso la scena così come si trovava dopo che, anni prima, il presbiterio della cattedrale era stato rimaneggiato in forme, appunto, barocche. Degli archi a sesto acuto resta solo una vaga citazione nella forma cuspidata delle mitrie di qualche arcivescovo sparso. Il papa stesso, in un cantuccio al di là di un personaggio in piedi, ha soltanto lo zuccotto.
L’altro aspetto interessante è legato alla storia del dipinto. Che inizialmente prevedeva di fissare non il momento in cui l’Imperatore incorona la moglie inginocchiata ai suoi piedi (corse voce che in realtà fosse inciampata sui vestiti troppo lunghi come Jennifer Lawrence alla consegna degli Oscar), ma quello in cui lui, Napoleone Bonaparte, si incorona da sé, mentre il papa, depresso, se ne sta lì dietro buono buono. Neanche in quell’atteggiamento stancamente benedicente che si vede nel quadro. (E così doveva davvero essere, il povero Pio VII, se perfino nella cattedrale di Chiavari, la città ligure in cui sostò tre giorni nel corso del viaggio che lo avrebbe portato in Francia, il pittore che rappresentò i cittadini accorsi a rendergli omaggio lo dipinse accasciato su una sedia, più psicologicamente abbattuto che stanco della carrozza).
Dunque in un primo tempo la scena doveva essere quella del disegno preparatorio. Ma forse David ebbe paura di fissarla, perché avrebbe significato quel che in effetti Napoleone intendeva significare, ma era meglio che non venisse gridato, e cioè che non c’era altro dio al di fuori di lui. Che quell’altro, che aveva regnato per tanti secoli, poteva starsene lì in disparte, tanto nessuno lo avrebbe disturbato. Purché, ovviamente, non fosse lui a voler disturbare qualcuno. E men che meno quella parodia di Cesare e di Augusto che gli dava le terga.
David scelse l’altra soluzione, di cui il suo committente si rallegrò fortemente perché – disse – rendeva omaggio anche a colei che da quel momento avrebbe regnato con lui. Bugia grande come una casa perché era comunque lui che la stava incoronando e il gesto non era reciproco. E i simboli contano.
Molti, da allora in poi, hanno scelto di commentare il momento e il relativo quadro richiamandosi alla tradizione di potere (da Augusto a Carlo Magno e poi, su su, fino all’ultimo discendente del Sacro Romano impero) che il nuovo imperatore intendeva inaugurare nello stesso tempo confermandola nei suoi simboli e negandola delle sue pretese.
C’è però un’altra possibilità di leggere la scelta davidiana. E riguarda l’uomo così come l’Empereur volle pensarlo. La filosofia, fin dai suoi esordi, volle richiamarsi alla iscrizione del tempio di Delfi che suggeriva, all’uomo che volesse diventare finalmente umano, di conoscere se stesso.
“Conosci te stesso” fu il motto di Socrate. Che però si presentava problematico, perché ammettendo pure che uno possa cercare di conoscere se stesso, che ne è di quell’altro lui – più grande – che è impegnato nell’operazione che ha se stesso per oggetto? Come la sfericità della Terra si può osservare soltanto dalla Luna o da qualche altro pianeta o stella, così l’uomo, per conoscersi, ha sempre avuto bisogno di uscire da sé, di essere altro da sé. Maggiore di sé.
Il potere, ossia la rappresentazione astratta che l’uomo dà della propria condizione rispetto alle altre creature, ha sempre preso atto di questo paradosso: chi incoronava intendeva sempre significare all’incoronato: sei re, ma se hai il potere sugli altri, è perché te lo ha dato un altro. Non ci si può incoronare con le proprie mani come – dice Jovanotti – non ci si può togliere la sete ingoiando la saliva.
Napoleone osò dichiarare decaduta questa tradizione: l’altro, l’uomo più grande di sé che può conoscere se stesso e, attraverso se stesso, consentire al mondo di riconoscersi, sono io, disse a se stesso e al mondo. Sono la luce del mondo (Apollo, come lo raffigurò Canova). Jacques-Louis David si ritirò di fronte a questa sontuosa forma di tracotanza, di ybris come l’avrebbero detta i greci. Fedor Dostoevskij ne fece il contenuto del suo magnifico “Delitto e Castigo”, il cui protagonista Raskol’nikov si richiama continuamente, nella sua malvagità, al Grande Corso.
Il giorno di Waterloo era comunque lì in attesa, sornione.

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