Buongiorno, oggi è il 6 luglio.
Nella notte tra il 6 e il 7 luglio ebbe luogo quello che venne poi ricordato come l'eccidio di Schio.
Nella notte tra il 6 e il 7 luglio 1945 un gruppo di ex partigiani «garibaldini» (cioè delle formazioni legate al Partito comunista) fece irruzione nel carcere di Schio, in provincia di Vicenza, uccidendo 54 persone e ferendone altre. Si trattò, per il numero delle vittime e per il fatto che l' episodio si verificava ormai a una certa distanza dalla Liberazione, del più grave caso di violenza partigiana avvenuto nel nostro Paese. Nonostante ciò l'eccidio di Schio è stato oggetto di una lunga rimozione. Inizialmente il Partito comunista (che non aveva dirette responsabilità nell'eccidio) sostenne che a compiere quell'atto erano stati dei «trotzkisti», poi - dopo che gli alleati avevano arrestato e condannato alcuni dei responsabili - ne prese le difese in quanto «valorosi combattenti della libertà». In generale, la particolare posizione delle vittime, accusate di essere dei «criminali fascisti», è stata spesso impiegata per sminuire la gravità del fatto. In realtà, nella maggior parte dei casi, la principale colpa degli uomini e delle donne uccisi a Schio consisteva nell'essere stati fascisti o nell'avere aderito alla Repubblica sociale, senza che vi fosse un'accusa per crimini specifici. Tra le vittime c'era anche qualche giovane donna arrestata soltanto per costringere in tal modo il padre, il marito o il fidanzato a consegnarsi. Era stato proprio il timore che, su pressione delle autorità alleate, i detenuti potessero venire presto rilasciati per mancanza di prove ciò che aveva indotto un gruppo di partigiani a organizzare quell'omicidio di massa. In precedenza la stampa resistenziale aveva spesso insistito sulla legittimità di una violenza purificatrice, sulla necessità di una epurazione «radicale e spietata» del fascismo e dei fascisti. Molti partigiani potevano esserne stati indotti, finita la guerra, a farsi giustizia da sé, considerandosi come gli esecutori di una sorta di mandato popolare. In effetti l'opinione che l'eccidio fosse in qualche modo giustificato perché le vittime erano (o erano ritenute) fasciste è sopravvissuta per anni, dividendo profondamente gli abitanti di Schio, detentori di due memorie inconciliabili. Solo nel 1994, dopo una lunga battaglia, le famiglie delle vittime poterono ottenere che la tragedia fosse ricordata da una lapide, superando l'opposizione di Rifondazione comunista e di una parte dell'allora Partito democratico della sinistra. Ma nel testo della lapide, frutto di mediazioni e aggiustamenti, non si diceva chi fossero stati gli autori dell'eccidio, addebitato a una non meglio specificata «barbarie» che aveva «preteso di fare così giustizia». Ancora oggi ignoriamo aspetti importanti degli avvenimenti occorsi in quella notte: si pensi che, anche nel voluminoso libro di Claudio Pavone sulla Resistenza, dell'eccidio di Schio non si trova menzione.
Il governo militare alleato affidò le indagini agli investigatori John Valentino e Therton Snyder. In due mesi di indagini questi identificarono quindici dei presunti autori della strage, otto di questi ripararono in Jugoslavia prima dell’arresto, sette vennero arrestati. Il processo istituito dalle autorità militari alleate si svolse nell’autunno del 1945. La Corte militare alleata, presieduta dal colonnello americano Beherens, assolse due degli imputati presenti e condannò gli altri cinque, tre di essi furono condannati a morte, due furono condannati all’ergastolo, altri tre imputati furono condannati in contumacia a ventiquattro e a dodici anni di reclusione (le condanne a morte verranno commutate nel carcere a vita dal capo del governo militare alleato, il contrammiraglio Ellery Stone).
Altri autori dell’eccidio furono individuati successivamente e fu istruito un secondo processo, condotto da una corte italiana. Il secondo processo si tenne a Milano, la sentenza fu emessa dalla Corte d’Assise di Milano, il 13 novembre del 1952, con otto condanne all’ergastolo.
Tuttavia uno solo sarà presente, gli altri sette erano fuggiti nei paesi dell’est dove trovarono protezione.
Nel 1956, undici anni dopo l’Eccidio, si tenne a Vicenza un terzo processo. Erano da accertare due fatti, le eventuali responsabilità del ritardo a dare esecuzione all’ordine di scarcerazione di una parte dei detenuti, emesso a Vicenza e trasmesso per competenza a Schio, ma non eseguito, e l’individuazione della catena gerarchica da cui era partito l’ordine di eseguire la strage.
Si trattava di individuare eventuali responsabilità nel ritardo dell’esecuzione dell’ordine di scarcerazione, ritardo costato la vita a varie persone, e individuare i mandanti della strage.
Erano imputati Pietro Bolognesi, segretario comunale e Gastone Sterchele, ex vicecomandante della Martiri della Val Leogra.
Sterchele fu assolto con formula piena, Bolognesi per insufficienza di prove; in appello fu anch’egli assolto per non aver commesso il fatto.
L’identità dei mandanti della strage risulta tuttora ignota. L’eccidio di Schio rimane uno dei misteri d’Italia.
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