Buongiorno, oggi è il 18 luglio.
Il 18 luglio 64 d.C. iniziò il grande incendio di Roma, principale evento per cui passò alla storia l'imperatore Nerone.
Se si pensa a Nerone non c’è bisogno di dire chi era: tutti si ricordano che fu un imperatore romano, magari non si sa collocarlo temporalmente, ma non importa, quasi tutti si ricordano che ce l’aveva a morte con i cristiani e tanto basta per dargli un posto nella storia.
Tutti però, se conoscono Nerone sanno che si mise a cantare suonando la cetra mentre guardava Roma divorata dal fuoco… e tanto basta per dargli un posto anche nella leggenda.
Ma che cosa c’è di vero in questa immagine?
Tutto e niente sarebbe la risposta più corretta.
Per ogni fatto riportato dagli storici dell’epoca o dai detrattori dell’epoca - ma anche da chi provò a strumentalizzare l’evento negli anni successivi - infatti, si può dare un’interpretazione a favore o sfavore di Nerone.
Di sicuro si può dire che nel 64 d.C. a Roma ci fu un incendio devastante, l’incendio più disastroso che abbia mai toccato la città eterna, che mai come in quell’occasione rischiò la fine della propria esistenza.
Dolo o sfortunato accidente?
Non fa molta differenza. Roma era una città venuta su senza alcun piano urbanistico. Le case, domus patrizie o insulae plebee, erano state costruite riempiendo ogni spazio tra una e l’altra e se si eccettua il fatto che sulle cime dei sette colli sorgevano gli edifici istituzionali e le case dei patrizi, mentre in basso - le zone più malsane dove acqua e scoli ristagnavano - sorgevano quelle dei plebei, non si possono ravvisare altri criteri costruttivi sulla distribuzione delle costruzioni per tipologia.
In ogni caso, sia le domus che le insulae erano realizzate con l’impiego diffuso di materiali infiammabili: le travi per reggere i tetti, i cannicci per i solai e i pavimenti, le scale - le insule, sempre sovraffollate, raggiungevano anche i sei piani di altezza - erano tutti elementi di legno altamente infiammabili.
A tutto ciò si deve aggiungere che per cucinare e riscaldarsi in quell’epoca si ricorreva a bracieri senza veri e propri camini per contenere le fiamme ed estrarre i fumi.
In base alle considerazioni appena fatte, non deve dunque stupire sapere che a Roma scoppiassero ogni giorno, o quasi, incendi più o meno devastanti così come non deve stupire che, alla fine, uno di questi eventi crebbe fino a radere al suolo quasi tutta la città, come appunto accadde nel luglio del 64.
Ecco che per come si presentava la capitale del mondo a quell’epoca, parlare di dolo, perde di significato. Senza interventi urbanistici e organizzativi per prevenire e contrastare gli incendi, prima o poi, il disastro si sarebbe verificato.
Vero è che l’incendio alla fine del sesto giorno, quando ormai si poteva dire domato - dopo che circa metà della città era già andata in fumo - tornò a divampare!
Il focolaio del grande incendio del 64 si colloca nei pressi del Circo Massimo, nella zona compresa tra i colli Palatino e Celio. Una zona piena di botteghe artigiane che facevano largo uso di sostanze infiammabili: stoffe, lana, legname ecc. una miccia perfetta per poi aggredire gli spalti del Circo che, contrariamente all’immagine diffusa da classici della filmografia hollywoodiana, erano di legno e non di marmo.
Sembra poi che in piena estate, le condizioni fossero perfette per favorire la propagazione delle fiamme, portate dal vento asciutto da una costruzione all’altra che, come già accennato, sorgevano una a ridosso dell’altra, separate da vicoli strettissimi e tortuosi che oltre a non costituire valide barriere alla propagazione dell’incendio impedivano alla gente di scappare e ai soccorsi di intervenire.
Per sei giorni le fiamme si mossero su e giù per i colli senza che nessuna delle strategie messe in atto per arginarlo desse esiti favorevoli. Si provò anche ad abbattere interi edifici così da creare il vuoto attorno alle fiamme e impedire a queste di propagarsi.
Ma fu tutto inutile, il fuoco divorò tutto quello con cui venne in contatto fino alla fine del sesto giorno, quando Roma, ormai devastata per oltre metà della sua superficie, per un attimo, dopo aver visto bruciare l’Esquilino, si illuse che tutto fosse finito.
Le fiamme tornarono ad alzarsi nei Giardini Emiliani di proprietà di Tigellino, un fedelissimo di Nerone che da tempo influenzava le scelte dell’imperatore con idee di "economia spregiudicata". Tra cui, a detta dello storico Tacito, quella di finire di radere al suolo la città per poterla rifondare con un nome nuovo che ricordasse quello di Nerone: Neronia o Neropolis.
A sostegno di quanto ipotizzato da Tacito, c’è il fatto che le zone devastate dal secondo incendio fossero caratterizzate da ampi spazi con poco materiale infiammabile.
L’idea più diffusa tra gli storici moderni, vista la modalità con cui progredì l’incendio, si pone a cavallo tra l’idea dell’incidente e del dolo: se è vero, infatti, che la prima fase dell’incendio è riconducibile a una sfortunata casualità è davvero poco credibile che lo sia anche la seconda fase che verosimilmente può essere stata innescata apposta per avere ulteriori aree cittadine da riedificare.
Singolare in tutto ciò, il fatto che più fonti - Tacito, Svetonio e Cassio Dione - riferiscano l’episodio di Nerone salito sul tetto della propria casa per mettersi a cantare accompagnandosi con la cetra una canzone sull’incendio della città di Troia. Svetonio, in particolare, riferisce che per l’occasione l’imperatore che si dilettava di teatro abbia indossato degli sgargianti abiti di scena.
È proprio su quest’immagine che si focalizza la leggenda: se si pensa al grande incendio di Roma, ormai, tutti inevitabilmente pensano a Nerone che dal balcone canta davanti alle fiamme, immagine resa vivida dalla magistrale interpretazione di Peter Hustinof nel film Kolossal del 1951 Quo Vadis?.
Molto probabilmente, la verità, ancora una volta, si trova a metà strada: non è difficile credere, infatti, che per un uomo di cultura come Nerone impotente davanti all’avanzare delle fiamme, recitare i versi di una canzone che aveva per tema la forza distruttiva di un altro incendio devastante possa aver avuto la valenza di un lamento disperato, completamente scevra dunque da atti di gioia o soddisfazione.
Come per l’immagine del canto, le azioni fatte - o non fatte - da Nerone, prima, durante e dopo l’incendio possono essere viste sia in chiave a lui favorevole, sia avversa.
Come per esempio l’abbattimento delle insulae per arrestare l’avanzata delle fiamme: un’azione più che lecita vista l’impossibilità di contrastare le fiamme anche solo con l’acqua che all’ora era distribuita per la città sfruttando la gravità e non a pressione come avviene oggi permettendo l’uso di manichette per indirizzare i getti anche a decine di metri di altezza.
Ma l’abbattimento delle insulae poteva benissimo essere interpretato come l’ennesima vessazione verso i poveri, così come anche l’acqua che poteva essere gettata sulle fiamme solo a secchiate organizzando catene umane, venne ritenuta scarsa perché sprecata nelle ville dei patrizi per le loro fontane piene di zampilli.
Stessa cosa dicasi per gli aiuti forniti ai senza casa allestendo tendopoli fuori le mura e distribuendo la farina a prezzi forzatamente bassi: i detrattori, infatti, ritennero queste misure solo una farsa populista architettata da Nerone per nascondere le sue colpe.
Così come la costruzione della sua Domus Aurea che venne eretta proprio sopra le macerie di quanto andato distrutto negli ultimi tre giorni di catastrofe e che più di tutto sanno di dolo.
Inutile far notare che i danni maggiori ai poveri erano quelli avvenuti nei giorni precedenti. Non che questa considerazione possa essere una scusante nel caso in cui Nerone si sia macchiato davvero di questi orribili crimini, ma di certo aiuta a considerare quanto accaduto in una chiave eventualmente opportunistica a "cose" fatte e non di premeditata efferatezza e scellerataggine.
La maggior parte degli imperatori ritenuti pazzi, infatti, sono solo immagini create dai loro detrattori come ad esempio Caligola, predecessore di Claudio e Nerone, che venne definito tale per aver nominato il suo cavallo senatore: dietro a questa mossa invece c’era la precisa e lucida volontà dell’imperatore di dimostrare che i senatori con la fine della Repubblica avevano perso ogni potere.
Come si può parlare di conseguenze positive saltando a piè pari quelle negative? Purtroppo quelle negative sono legate ad aspetti che a noi, quasi duemila anni dopo, risultano ormai inconsistenti: un gran numero di vittime, un gran numero di case distrutte, un gran numero di templi e monumenti rasi al suolo… ma sono tutte cose cui non sappiamo dare un volto, una forma, un significato ulteriore a quello letterale delle parole.
Unica eccezione sono le persecuzioni ai danni dei cristiani che condizionarono la storia fino ai giorni nostri e che meritano di essere trattate a parte, anche perché successive addirittura all’avvenuta ricostruzione della maggior parte della città.
Dunque, quali possono essere le conseguenze positive di un disastro di tale portata e tragicità?
Come già accennato all’inizio, la città eterna fino al 64 d.C. era stata costruita senza piani regolatori, senza criteri costruttivi se non quello di sfruttare tutti gli spazi a disposizione anche i più angusti. Per ordine dello stesso Nerone, invece, la ricostruzione avvenne in base a poche ma significative direttive generali.
Innanzitutto vennero tracciati i percorsi delle strade principali stabilendone le dimensioni.
Quindi venne imposto che domus o insulae adiacenti non avessero muri in comune, per evitare che fuoco e crolli potessero ripercuotersi direttamente sulle costruzioni confinanti.
Fu imposto anche che gli edifici dovessero essere realizzati con meno legno possibile sfruttando pietre come quelle estratte dalle cave di Gabio e di Alba per gli architravi sopra finestre e porte o i pilastri.
Venne istituito un servizio di sorveglianza al fine di garantire a tutti i luoghi della città l’arrivo di un quantitativo adeguato d’acqua.
Poste queste condizioni, Nerone incentivò la ricostruzione - almeno per quanto riguarda la maggior parte delle abitazioni - concedendo significativi rimborsi se i lavori fossero stati ultimati entro un anno dalla catastrofe.
Questo per quanto riguarda le conseguenze che si possono considerare dirette, tra le conseguenze indirette, rientrano invece tutte quelle costruzioni che altrimenti non avrebbero avuto la possibilità di essere erette se la città non fosse stata prima rasa al suolo.
Costruzioni tra le quali si annoverano opere oramai entrate nell’immaginario collettivo tra le quali spiccano la Domus Aurea, la gigantesca e sontuosa nuova residenza dell’imperatore, e il monumento per eccellenza legato al potere della Roma imperiale: il Colosseo.
La famosa arena o, più correttamente, l’Anfiteatro Flavio, infatti, realizzato a partire dal 70 d.C. per opera di Vespasiano - successore di Nerone dopo Galba, Otone e Vitellio alla fine della guerra civile ricordata come "l’anno dei quattro imperatori" - sorse su un’area in cui Nerone aveva fatto realizzare un laghetto artificiale impedendo la ricostruzione di quanto andato perso a causa del fuoco.
Insomma, cinicamente, si può affermare che senza incendio e manie di grandezza di Nerone, quello che a oggi è il simbolo per eccellenza nel mondo di Roma e dell’Italia non avrebbe avuto la possibilità di essere eretto, di più, Vespasiano lo realizzò con l’intento di accattivarsi la benevolenza del popolo facendo notare la differenza tra la sua persona "altruista" e quella di Nerone "superba ed egocentrica".
Se il Colosseo si chiama così, infatti, è ancora una volta "merito" di Nerone che davanti al lago su cui sorse l’arena aveva fatto erigere una sua statua bronzea di dimensioni colossali, statua che alla sua morte venne modificata per rappresentare la divinità di Sol Invictus ma che nel volgere di pochi anni venne abbattuta per recuperare il prezioso materiale di cui era fatta lasciando ai posteri solo il nome con cui era conosciuta e che per beffa era passato a indicare la grande arena gladiatoria.
"Allo scopo di liberarsi da essa [l’accusa d’aver dato premeditatamente fuoco alla città]" tanto per dirla con le parole di Cornelio Tacito "egli [Nerone] accusò altri di una tal colpa, destinando ad atroci pene coloro che il volgo chiamava cristiani, già mal visti per le loro ribalderie".
A essere precisi, anche le ribalderie tirate in causa da Tacito sono più illazioni che certezze.
I cristiani, infatti, incominciavano a essere scomodi: il loro credo di eguaglianza di fronte a Dio, ormai, si stava diffondendo tra gli strati più bassi della società agitando gli animi dei più vessati dalla minoranza patrizia che deteneva il potere e che si trovava sempre più costretta a concedere diritti ai plebei.
Nerone fece arrestare diversi cristiani tra i pochi che si professavano pubblicamente tali cui, poi, sotto tortura estorse i nomi di molti altri che coltivavano segretamente la nuova fede in Cristo condannandoli tutti a morte una volta fattigli confessare di aver appiccato l’incendio.
Questa campagna contro i cristiani trovò il sostegno trasversale di molti, equamente distribuiti tra tutte le classi sociali, che per motivi di convenienza vedevano di buon occhio l’eliminazione dei Cristiani, delle loro idee e delle attività che conducevano.
Com’è possibile allora, visti i larghi consensi, che la caccia ai cristiani fu proprio l’atto che determinò la disfatta di Nerone?
Il suo errore, infatti, non fu l’aver preso di mira i cristiani, quanto l’aver confuso l’esemplarità delle loro esecuzioni con la spettacolarizzazione.
Nerone organizzò dei veri e propri spettacoli aprendo i giardini della propria villa alla città e, tornando di nuovo a dirla con le parole di Tacito: "facendoli dilaniare dai cani, […] o crocefiggendoli, e facendoli bruciare ricoperti di pece e cera, così che di notte servissero quali fiaccole".
Mentre si svolgevano tali crudeltà sembra che l’imperatore amasse mischiarsi alla folla vestito da auriga. Questi atti però vennero interpretati come eccessivi. Nonostante tutti fossero ancora disposti ad additare i cristiani come causa di tutti i mali che affliggevano Roma, infatti, videro queste macabre messe in scena come l’ennesimo sfogo della pazzia raccapricciante di Nerone che, al termine delle persecuzioni, risultò inviso al popolo ancor più di quanto non lo fosse prima che la città eterna prendesse fuoco.
Tra le vittime delle persecuzioni neroniane si annoverano i Santi Pietro e Paolo: il primo crocifisso a testa in giù e bruciato vivo, il secondo decapitato.
E se invece fossero stati davvero i cristiani?
A quell’epoca la comunità cristiana, ma ancor più il loro stesso credo, la loro liturgia, non erano una costante. Anzi, se oggi possiamo intendere il cristianesimo un culto ben definito è solo perché nei secoli si sono succeduti diversi sinodi che hanno di volta in volta precisato il concetto stesso di chiesa cristiana.
Ai tempi di Nerone, infatti, i cristiani si dividevano in diversi gruppi portando avanti diversi tipi di culto, a volte anche molto diversi tra loro nonostante che il principio ispiratore fosse lo stesso.
In particolare, sembra che tra questi ce ne fosse uno d’idee estremiste, che spinto da un’incontenibile volontà di rivalsa e supportato da correnti politiche avverse all’imperatore possa davvero aver innescato l’incendio.
Tale ipotesi, ripresa recentemente dallo storico Dimitri Landeschi, ma già avanzata in precedenza da Carlo Pascal, Gerhard Baudy e Giuseppe Caiati, spiegherebbe la comparsa dei nuovi focolai alla fine del sesto giorno e anche la diffusa avversione verso tutte le azioni messe in atto da Nerone durante e dopo la catastrofe.
Dopo quanto detto, sembra impossibile poter dare una spiegazione certa della catastrofe che rase al suolo Roma nel 64 d.C. e le recenti ipotesi sulle frange estreme del cristianesimo aprono scenari nuovi da cui emerge che forse, comunque sia andata, a tutte le vittime bisognerebbe aggiungerne un’altra: Nerone, morto suicida quattro anni dopo.
Vittima anche oltre la morte, visto che il senato, appresa la notizia, lo condannò alla Damnatio Memorie.
Singolare il fatto che diverse fonti postume riportino episodi a favore della benevolenza nei suoi confronti da parte del popolo, talmente attaccato a Nerone da continuare a portare fiori freschi sulla sua tomba, arrivando ad alimentare perfino leggende su un suo possibile ritorno poiché non morto ma andato in esilio a organizzare la lotta contro i patrizi, se non a predicare la sua reincarnazione a un anno dalla sua scomparsa nello spirito dell’imperatore Otone. O, vent’anni più tardi, in quello di uno sconosciuto che, col sostegno dei Parti, rivendicò il titolo d’imperatore dopo che il re Vologeso tramite i suoi ambasciatori al Senato per riconfermare l'alleanza con Roma aveva richiesto che venisse onorata la memoria di Nerone.
Nerone? Opportunista sì, pazzo no, vittima… forse.
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