Buongiorno, oggi è il 14 luglio.
Mercoledì 14 luglio 1948, poco prima di mezzogiorno, Palmiro Togliatti, accalorato e insoddisfatto per la discussione che si trascina in Parlamento, si alza per avviarsi all’uscita secondaria di Montecitorio che sfocia in via della Missione. Lo segue, a pochi passi di distanza, l’on. Nilde Iotti. Appena arrivato in strada, Togliatti viene affrontato da un giovane magro e bruno il quale, con tutta calma, estrae dalla tasca una pistola e spara, contro il leader comunista, quattro colpi. Raggiunto da tre proiettili ed apparentemente privo di vita, Togliatti cade riverso sul selciato e mentre Nilde Iotti chiama a gran voce i primi soccorsi, l’attentatore, Antonio Pallante, consegna l’arma e se stesso al primo Carabiniere che incontra nella stessa via. Più tardi dirà di aver attentato alla vita di Togliatti perché non tollerava che un italiano partecipasse alle riunioni del ‘Cominform’ ed anche perché riteneva Togliatti responsabile delle uccisioni di italiani avvenute nel Nord dopo la liberazione.
Trasportato d’urgenza al Policlinico di Roma, Togliatti, non solo non è morto, ma nonostante tre pallottole in corpo, è anche cosciente tanto da parlare con De Gasperi, giunto in ospedale cinquanta minuti dopo l’attentato. Sottoposto ad immediato intervento chirurgico da una équipe guidata dal famoso cardiochirurgo Pietro Valdoni, alle 17.45 dello stesso giorno, Togliatti si può già considerare fuori pericolo.
Ma se Togliatti è riuscito a superare questo terribile incidente, il Paese, man mano che passano le ore e la notizia dell’accaduto si diffonde, attraversa il momento più pericoloso della neonata Repubblica.
Prim’ancora che il Comitato esecutivo della CGIL dichiari lo sciopero generale, migliaia di lavoratori abbandonano spontaneamente le fabbriche e si riversano nelle piazze. In questa spontanea dimostrazione di solidarietà umana, c’è gente semplice, gente che vuole solamente avere notizie più precise sui fatti accaduti e sulla salute del grande leader comunista, ma vi sono anche agitatori, mestatori politici, facinorosi e il subitaneo, enorme spiegamento delle forze dell’ordine, predisposto dal ministro Scelba è, probabilmente, la scintilla che scatena tante piccole battaglie nei maggiori centri urbani del Paese.
E’ vero, il manifesto della CGIL, apparso su tutti i muri delle grandi città, è duro nel dichiarare che il Governo attuale, per la politica che persegue, non garantisce la libera e pacifica convivenza di tutti i cittadini nell’ambito della legalità democratica, ma e anche vero che il comunicato del Governo, in risposta alla CGIL, è perfino più duro e insinuante quando afferma che esiste uno scopo dichiarato di sovvertire la situazione creata dalle elezioni.
Il primo a raccomandare la calma, esortazione poi ripetuta a Mauro Scoccimarro, è proprio Togliatti: Per carità – disse subito - siate calmi, non perdete la testa, non facciamo sciocchezze. Con la dichiarazione di sciopero generale, invece, la spontanea dimostrazione si trasforma in un vero e proprio atto di protesta politica denunciata dalla corrente democratica all’interno della CGIL che, guidata da Giulio Pastore, invita i propri simpatizzanti ad astenersi dallo sciopero. Per colmo di sfortuna, anche questa volta, Giuseppe Di Vittorio è in America. Raggiunto telefonicamente dalla grave notizia, prende il primo aereo per l’Italia e vi giunge la stessa notte del 14. Il 15 luglio, la protesta e le dimostrazioni degenerano. Si occupano fabbriche, vengono devastate decine di sedi di partito e, naturalmente, arrivano le prime vittime. In Puglia, l’incidente più grave avviene a Taranto ad appena tre ore dopo l’attentato a Togliatti. La città è imbandierata e festante per la Fiera del Mare che dovrebbe svolgersi il giorno successivo ma le notizie apprese dalla radio producono un moto spontaneo di popolo che al primo incontro con la forza pubblica si incattivisce. Lo scontro inizia con il lancio di sassi e finisce a pistolettate: un agente ed un operaio rimangono uccisi.
Di Vittorio, nel frattempo, non può che prendere atto di quanto ha deciso il Comitato esecutivo della CGIL ma già dal mattino del 15, esercita tutta la sua influenza e la sua grande capacità di mediazione, per calmare gli animi e far cessare lo sciopero. Il Consiglio dei Ministri, per bocca di Piccioni e Fanfani, pretende la cessazione immediata dello sciopero e Di Vittorio, che non può sconfessare tutti, taglia corto e dichiara che lo sciopero cesserà venerdì 16 luglio alle 12. Esonerati però, dalla seconda giornata di sciopero, sono i quotidiani che il giorno 16 sono nelle edicole.
Piano piano dunque, torna la calma, anche se sono moltissimi i predicatori di uno sciopero ad oltranza che provocano altri incidenti ed altre vittime. A Gravina, il 15 luglio, un gruppo di dimostranti si reca ai mulini Divella ed invita i crumiri a scioperare. Intervengono i proprietari che chiamano i locali Carabinieri e, dalle parole, si passa ai fatti: viene ucciso un operaio mentre un Carabiniere catturato e portato alla locale Camera del Lavoro - scrive la Gazzetta - viene percosso, derubato, denudato e ridotto in fin di vita. Il Carabiniere muore infatti il 17 luglio. Lo stesso giorno la Gazzetta del Mezzogiorno titola a tutta pagina: L’ordine è tornato in tutta Italia e pubblica la relazione di De Gasperi e Scelba, in Parlamento, il giorno prima. L’ordine di Scelba, che non ha avuto critiche solo dalla sinistra per la determinazione con cui le forze dell’ordine sono intervenute durante il 14 e 15 luglio, è costato al Paese, per sua stessa ammissione, 16 vittime: 7 morti fra i civili, 9 fra Agenti e Carabinieri e 204 feriti più o meno gravi.
Anche in Parlamento si avranno feriti e contusi durante l’intervento di De Gasperi, ma la paura è passata ed è passata anche grazie a Gino Bartali. Questa nota di colore durante i tragici avvenimenti di luglio, è un fatto ormai riconosciuto da tutti gli storici. Pare che fra una colluttazione e l’altra in Parlamento, fra uno scontro e l’altro nelle piazze, tutti erano comunque attenti nel seguire il Tour de France e le imprese di Bartali. Perfino Togliatti, in ospedale, chiedeva continuamente notizie. L’aneddoto sarà raccontato, successivamente, dallo stesso Giulio Andreotti: proprio il 15 luglio, mentre svolgeva una relazione parlamentare in una atmosfera tesissima, entra nell’emiciclo di Montecitorio il parlamentare contadino Matteo Tonengo che tutto concitato annuncia a gran voce lo strepitoso successo di Bartali nella tappa Cannes/Briancon. Immediatamente la tensione si allenta e dalla destra alla sinistra del Parlamento appaiono sorrisi e mormorii di approvazione. Era accaduto che il Gino nazionale, in quella tappa montuosa, aveva recuperato quasi 21 minuti sulla maglia gialla Luison Bobet e che dal settimo posto, in classifica generale, era balzato al secondo posto. Il giorno successivo, 16 luglio, vince di nuovo, conquista la maglia gialla e la conserva fino al definitivo trionfo, il 25 luglio, a Parigi.
In effetti - racconta il direttore di un quotidiano - in quei due giorni, 14 e 15 luglio, la tensione era notevole. Nella mattinata del 15 un folto gruppo di dimostranti aveva tentato di entrare nel giornale, qualche vetro era andato in frantumi e noi giovani ascoltavamo con attenzione i commenti dei colleghi più anziani su cosa e su quanto stava avvenendo, nel Paese, in quel momento. Ogni tanto però, qualcuno di noi spariva per sapere, dalla redazione sportiva, cosa stava accadendo al ‘Tour’ e, quando nel pomeriggio del 15, arrivò la notizia della memorabile impresa di Bartali, fu come se qualcuno avesse scoperto una pentola a pressione. Da quel momento non si parlò d’altro e presto ci accorgemmo che anche fra i dimostranti l’attenzione era passata dalla ‘rivoluzione’ all’impresa di Bartali.
Molti anni dopo si è giunti perfino ad ipotizzare che fu proprio l’impresa di Bartali a far abortire la rivoluzione. Ma Pietro Secchia e Pietro Longo hanno sempre respinto recisamente che il PC avesse la preparazione e l’intenzione di sovvertire le istituzioni.
Antonio Pallante fu processato e condannato nel luglio del 1949 a tredici anni e otto mesi di reclusione, ma il 31 ottobre 1953, in appello, la pena venne ridotta a dieci anni e otto mesi; il resto della pena gli fu condonato per effetto dell'amnistia e alla fine del 1953 uscì dal carcere dopo cinque anni. Scontata la pena, trovò impiego, come il padre, alla Forestale. Sposato, con due figli e alcuni nipotini, ha vissuto una placida vita da anonimo pensionato a Catania fino alla morte, avvenuta il 6 luglio 2022 all'età di 98 anni.
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