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giovedì 8 settembre 2022

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è l'8 settembre.
L'8 settembre 1354 muore Andrea Dandolo, il più giovane doge della storia veneziana.
Nacque il 30 apr. 1306 da Fantino, del ramo di S. Luca, che viene ricordato nel 1312 fra gli elettori del doge Giovanni Soranzo e che morì il 13 ag. 1324.
Ebbe almeno due fratelli: Marco, di cui nulla si sa, e Simone, provveditore all'esercito contro Zara nel 1345, podestà di Treviso e, in seguito, fra i giudici del doge Marino Falier. Nel testamento dei Dandolo è inoltre menzionata una sorella, di nome Agnese, monaca a S. Giovanni di Torcello.
Della sua formazione culturale si conosce poco, ma si può affermare con sicurezza che ebbe solida base giuridica. Ciò risulta evidente sia dall'attività del Dandolo in campo giuridico sia dagli espliciti accenni contenuti nell'opera del contemporaneo Guglielmo Cortusi, che lo dice "legali scientia decoratus", sia da un documento del 13 dic. 1333 in cui è definito "iurisperitus". E' probabile che abbia frequentato lo Studio di Padova, ma non è sicuro che vi si sia addottorato, come invece sostengono scrittori tardi. Malgrado le incertezze biografiche, è fuori di dubbio che parallelamente alla formazione giuridica ne aveva ricevuta una letteraria, filosofica e storica. Accanto alla testimonianza di per sé probante della sua successiva attività di storiografo, abbiamo infatti precise indicazioni del Petrarca. Questi in una lettera al Dandolo scritta da Padova nella primavera del 1351 sottolinea la giovanile familiarità che il suo corrispondente aveva avuto con le Muse, in seguito abbandonate per seguire la carriera pubblica e gli studi filosofici. Lo stesso Petrarca, in un'altra sua lettera  del 25 febbr. 1352, gli rammenta un periodo giovanile di viaggi apparentemente compiuti per diletto personale.
Nel 1328, dopo brevissimo tirocinio negli uffici pubblici, fu eletto procuratore di S. Marco sia pure con esigua maggioranza. Tale nomina, nonostante l'alto numero dei voti contrari, verosimilmente dovuti alla giovane età del candidato, sembra attestarne le non comuni qualità. Un documento conservato all'Archivio di Stato di Venezia lo attesta procuratore de supra il 4 ott. 1328, ed è presumibile che sia succeduto a Marino Badoer deceduto nel marzo dello stesso anno. Durante il periodo in cui ricoperse tale ufficio (1328-1343), il Dandolo fu eletto più volte savio con vari incarichi, svolse compiti specifici e compì, tra l'altro, una missione diplomatica ad Ancona con Giovanni Contarini. Il 10 novembre del 1336, insieme con Marco Loredan, dette inizio alla registrazione dei beni fondiari di proprietà della basilica di S. Marco. Nel maggio del 1340 fu tra i cinque provveditori al Frumento; e il 13 apr. 1341 era fra i savi deputati all'allargamento della strada da S. Bartolomeo a S. Giovanni Crisostomo.
Dopo la morte di Francesco Dandolo (01 Ott 1339), concorse al dogato con Marino Falier e Bartolomeo Gradenigo. Fu eletto quest'ultimo, a quanto pare con il concorso determinante dei seguaci del Dandolo in antagonismo al Falier. Morto il Gradenigo (28 dic. 1342), Andrea fu tra i cinque correttori della promissione ducale e, il 4 genn. 1343, divenne doge al termine di un'elezione contrastata in cui, secondo il Cortusi, la sua candidatura venne accettata come ripiego, non riuscendo il Collegio elettorale ad accordarsi sul nome di un personaggio più anziano. Sulla scelta finì per pesare sicuramente l'importanza della casata che aveva già dato tre dogi; ma vi dovette anche contribuire il prestigio che il giovane candidato si era acquistato grazie alla sua attività e intelligenza, sia come procuratore di S. Marco, sia come studioso di diritto, sia come storico. Aveva infatti composto in quegli anni un manuale di leggi veneziane, la Summula, e una cronaca dalle origini di Venezia sino al 1342, la cosiddetta Chronica brevis.
In ogni caso i gruppi che gestivano allora il potere a Venezia non dovettero giudicare Andrea persona inadatta a reggere la suprema magistratura, nonostante l'età giovanile, insolita nella prassi delle elezioni ducali. Forse giocarono a suo favore l'indole mite e le sue indubbie capacità politiche di mediazione (testimoniate fra l'altro, a quanto pare, dagli stessi soprannomi di Cortesin e di Contesin, coi quali veniva designato); forse indussero a farlo scegliere le sue stesse ormai note inclinazioni, che facevano di lui un uomo di studio più che un uomo d'azione.
Egli si trovò al vertice della Repubblica in uno dei periodi più critici della sua storia, in cui si ebbero guerre, carestia, calamità naturali e la terribile peste del 1348. I primi atti di governo del nuovo doge sembrano lasciar intravvedere una precisa linea programmatica volta al riordinamento dello Stato su basi giuridiche al fine di superare, per quanto possibile, le contraddizioni interne della società veneziana. A poco più di un mese dall'elezione, il 9 febbraio, il Dandolo fece infatti nominare una commissione di cinque savì per provvedere alla riforma degli antichi statuti, continuando così con l'avallo della sua posizione l'attività già iniziata da procuratore.
Con questo lavoro di compilazione, che venne terminato tre anni più tardi, si proponeva di assicurare la pace interna confidando nella validità del diritto come elemento regolatore dei rapporti umani: aspirazione forse un po' astratta in una società carica di tensioni, com'era quella veneziana dei tempo, ma a cui egli sembra aver aderito pienamente, a giudicare dall'impegno personale che profuse nell'opera, alla quale dedicò addirittura - come ricorderà più tardi - ore sottratte al sonno. La fede nel diritto come strumento di governo rimase d'altronde un punto fermo nella sua mentalità e costituì un cardine della sua attività di governo.
Malgrado le sue aspirazioni ad un dogato di pace e di tranquillo riassetto amministrativo dello Stato, dovette affrontare, come responsabile del governo della Repubblica, una serie crescente di difficoltà fra cui una disastrosa guerra con Genova. Le traversie che visse Venezia negli anni in cui egli fu doge offuscarono la sua figura presso i contemporanei al punto che fu odiato in vita e diffamato dopo la morte. Il primo biennio della sua amministrazione passò comunque in una relativa tranquillità, con pochi avvenimenti di rilievo. Nell'autunno 1343 furono espulsi a titolo precauzionale gli "stipendiari" padovani, vicentini e parmensi al soldo della Repubblica in Treviso, dove la recente dominazione veneziana non si era ancora consolidata. In quello stesso anno venne sottoscritta la lega triennale con Cipro e con i Cavalieri di Rodi Promossa dal papa Clemente VI in funzione antiturca. Nel 1344 Venezia riuscì a comporre il dissidio con il patriarca di Aquileia e col conte Alberto di Gorizia a proposito dell'Istria. Il 28 ottobre dello stesso anno fu presa Sinime nel quadro della guerra contro i Turchi. La lega fu prorogata per altri due anni nel dicembre del 1345, ma di fatto, malgrado le reiterate esortazioni del papa, si esaurì ben presto per i contrasti fra gli aderenti. In particolare i Veneziani, cui importava soprattutto l'acquisizione di Chio in vista di un ampliamento della loro sfera d'influenza nel bacino orientale del Mediterraneo, finirono col perdere ogni interesse alla lega quando l'isola venne occupata dai Genovesi sul finire della primavera del 1346. Del resto, nell'agosto del 1345 avevano dovuto affrontare una nuova rivolta di Zara, che aveva minacciato gravemente il loro dominio sullo stesso Adriatico.
La ribellione era stata appoggiata da Ludovico il grande, re d'Ungheria, inseritosi in quello scacchiere: egli, nell'intento di sottrarre la città dalmata alla Repubblica, non aveva mancato di fomentarne i rancori municipalistici nei confronti della Dominante. La disfatta dell'esercito ungherese sotto le mura di Zara (1° luglio 1346) di lì a poco portò la città assediata alla resa, che fu sottoscritta a Venezia il 15 dicembre dello stesso anno. Il riacquisto di Zara fu solennemente celebrato e, in questa occasione, venne composta la Cronica Iadretina, un'opera di propaganda tesa a dimostrare il buon diritto di Venezia al possesso di Zara, opera variamente attribuita a Benintendi Ravignani o a Raffaino de' Caresini, collaboratori del Dandolo nell'ambito della Cancelleria ducale.
Nello stesso periodo, dopo una breve pausa di distensione, tornarono ad acuirsi i contrasti con Genova. La conquista di Chio aveva infatti portato ad un tale masprimento dei rapporti fra Venezia e la Repubblica ligure, da far ritenere inuninente lo scoppio delle ostilità.
L'apertura del conflitto armato fu ritardata da una serie di calamità che sconvolsero Venezia. Nel 1347 si ebbe infatti una pesantissima carestia per cui - nota il Sanuto - "se non era il miglio, si tiene che molti sarebbon morti di fame". Seguì il terremoto del 25 genn. 1348 e, subito dopo, scoppiò l'epidemia di peste, che imperversò per almeno sei mesi decimando la popolazione. "Le case si votarono", scrive ancora il Sanuto, "e più tosto le case cercavano abitatori, che gli abitatori cercassero case ad affitto". Si calcola che siano deceduti i tre quinti degli abitanti (cioè, secondo la stima del Brunetti. 45.000 o 50-000 persone), e che si siano completamente estinte ben cinquanta famiglie nobili. Terminato il contagio, il Maggior Consiglio diede facoltà ai Pregadi di provvedere al ripopolamento, invitando i forestieri in città. Furono presi inoltre vari provvedimenti per il ritorno alla normalità. Il 17 settembre dello stesso anno Capodistria insorse contro il dominio veneziano, ma la rivolta fu domata rapidamente. Pur impegnato da questi eventi, il governo della Repubblica si preparava a portare l'attacco a fondo contro Genova. Il segnale della guerra fu dato dalla cattura di alcune navi veneziane da parte dei Genovesi a Caffa.
Nell'agosto 1350 venne decisa la guerra con Genova e fu inviata alla volta della Romania una flotta di trentacinque galere, che ottenne un discreto successo nel porto di Castro presso Negroponte, catturando dieci navi avversarie (settembre 1350). I Genovesi risposero con un'incursione contro Negroponte dove incendiarono e saccheggiarono il porto. Di fronte all'impossibilità di piegare da sola la rivale, nei primi mesi del 1351 Venezia si alleò con Pietro IV re d'Aragona e con Giovanni Cantacuzeno, che aveva usurpato il trono di Bisanzio esautorando Giovanni V Paleologo. Gli alleati si impegnarono a fornire ciascuno un certo numero di vascelli per approntare complessivamente una flotta di ottanta-novanta galere. Ma per tutto il 1351 non si ebbero scontri di rilievo, a causa del ritardo con cui la flotta veneto-aragonese raggiunse l'Egeo. All'inizio dell'inverno una flotta genovese di sessantaquattro galere al comando di Paganino Doria si ritirò a Pera, mentre gli alleati ripararono a Creta.
Nello stesso anno Clemente VI tentò invano di riportare la pace fra i contendenti. Anche il Petrarca si rivolse al Dandolo con una lunga lettera, scritta probabilmente il 18 marzo, in cui lo supplicava di adoperarsi a convincere gli avversari "a deporre le armi incivili, a unire gli animi loro e le loro bandiere e a darsi il bacio della pace".
Nel febbraio 1352 gli alleati partirono per gli stretti, congiungendosi con la flotta bizantina nelle acque di Costantinopoli. Il 13 febbraio si svolse la sanguinosissima battaglia del Bosforo che terminò con un esito incerto, tanto che entrambi i contendenti poterono attribuirsi la vittoria. Tuttavia, per quanto il Doge in una lettera del 21 aprile annunziasse a Pietro IV il felice esito dello scontro, è innegabile che, essendosi gli alleati ritirati, il miglior successo fosse dei Genovesi.
Quando Giovanni Cantacuzeno si accordò con Genova, i Veneziani si allearono con Giovanni Paleologo: questi, come pegno di un prestito ricevuto di 20.000 ducati, cedette loro l'isola di Tenedo per la durata della guerra (10 ott. 1352). L'importante vittoria ottenuta dai Veneto-Catalani il 29 ag. 1353, nelle acque di Alghero, dove, nel corso di uno scontro navale venne distrutta la maggior parte della flotta genovese (battaglia di La Lojera), non valse a piegare l'avversario. Piuttosto che cedere, i Genovesi finirono per sottomettersi a Giovanni Visconti, il signore di Milano, purché questi si fosse impegnato a proseguire la lotta contro Venezia. Venezia, per parte sua, tra la fine del 1353 e la primavera dell'anno successivo, strinse alleanze con i signori di Mantova, di Verona e di Faenza, col marchese di Ferrara e con Carlo IV di Lussemburgo e rifiutò di discutere le offerte di pace avanzate da Giovanni Visconti.
All'inizio del 1354, infatti, giunse a Venezia, come ambasciatore del signore di Milano, il Petrarca, il quale, nel mese in cui si fermò nella città lagunare per svolgere la sua missione di pace, cercò invano di incontrarsi col doge. Dandolo, che pure conosceva il poeta aretino, evitò accuratamente ogni contatto con l'inviato visconteo. Non rispose neppure alla lettera che il Petrarca, per invitarlo a impegnarsi per la pace, gli inviò il 28 maggio da Milano, dove era rientrato al termine della sua sfortunata missione veneziana. Secondo quanto ebbe più tardi ad affermare lo stesso Petrarca, il Dandolo non avrebbe risposto a questa sua lettera perché a corto di argomenti: il doge, "cum se multum frusta torsisset", avrebbe rimandato a mani vuote il corriere, con la sola promessa di una risposta, dopo averlo fatto attendere inutilmente per una settimana. Non sappiamo se abbia mantenuto il suo impegno. È pervenuto sino a noi, infatti, il testo di una replica al Petrarca in data 13 giugno 1354 inserito in una lettera che Benintendi Ravignani, cancelliere grande della Repubblica, inviò al poeta il 26 gennaio di un anno che è probabilmente il 1356. Non è escluso, però, che l'autore di tale replica sia non il Dandolo, ma lo stesso Benintendi che voleva in tal modo difendere la memoria del doge da poco scomparso contro le insinuazioni del Petrarca.
Fallite le offerte di negoziati, i Genovesi ripresero l'iniziativa militare: inviata una flotta nell'Adriatico, devastarono Curzola e Lesina; qualche tempo dopo Paganino Doria eluse il blocco che gli avversari avevano posto al porto di Genova e, condotta la flotta nell'Adriatico, devastò Parenzo. Venezia prese immediati provvedimenti di fronte all'avvicinarsi del pericolo. La difesa cittadina fu affidata a Paolo Loredan (14 agosto 1354) che ebbe ai suoi ordini dodici nobili (due per sestiere) con trecento uomini ciascuno. Fu inoltre deciso un prestito cittadino (17 agosto); venne numerata la popolazione atta alle armi (2 settembre) e fu tesa una catena a chiudere il porto del Lido.
Nell'estate la salute del doge, che sin dai primi anni del conflitto si era fatta malferma, peggiorò improvvisamente. L'ultimo documento ufficiale a noi noto, che porti la sua firma, è infatti del 16 luglio: già il 31 agosto il consigliere Marino Badoer sottoscriveva gli atti pubblici in sua vece. Il 3 settembre il Dandolo dettava il suo testamento, che fu rogato dal Ravignani, e nel quale ricordava la moglie, il fratello Simone, la sorella Agnese, i figli, la nipote Bertuccia.
Morì il 7 sett. 1354. Il suo corpo fu sepolto nella cappella del battistero di S. Marco.
Secondo il Petrarca, il Dandolo si sarebbe lasciato morire dopo una sommossa di piazza, cui "praeter morem" aveva partecipato armato (lettera a Guido Sette del 24 apr. 1355). Il cronista Caroldo registra invece la più attendibile versione, secondo la quale la sua saIute già minata sarebbe stata stroncata dagli strapazzi cui il doge si era sottoposto mentre organizzava la difesa ultima della città. Il Dandolo lasciava la moglie, Francesca Morosini, e tre figli: Fantino, Leonardo e Zanetta. Francesca Morosini era ancora viva il 13 dicembre 1374, quando dettò il suo testamento. Fantino, il primogenito, sposò Beriola Falier nipote del doge e morì intorno al 1356. Leonardo ricoprì importanti incarichi pubblici e morì nel 1406; Zanetta sposò un Loredan. Il monumento funebre del Dandolo, che fu l'ultimo doge sepolto nella chiesa di S. Marco, è in stile gotico ed è probabilmente opera dei de Sanctis o della scuola: rappresenta il doge che dorme disteso sul sarcofago. Il Petrarca, su richiesta di Leonardo Dandolo e del Ravignani, compose un epitaffio in sua memoria, che non fu tuttavia apposto sul monumento dove invece si legge un altro epitaffio, di cui ignoriamo l'autore.

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