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giovedì 12 novembre 2020

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 12 novembre.
Alle 10.40 del 12 novembre 2003, un’autocisterna forzò l’entrata della base Maestrale, presidiata dai carabinieri italiani del MSU (Unità specializzata multinazionale), nella città di Nassiriya, in Iraq: i due uomini a bordo fecero esplodere una bomba che venne stimata pesare tra i 150 e i 300 chilogrammi. L’esplosione uccise 19 cittadini italiani (12 carabinieri, 5 militari e due civili) e 9 iracheni. Almeno altre 140 persone vennero ferite. Fu il più grave attacco subito dall’esercito italiano dalla fine della Seconda guerra mondiale, e alcuni processi che riguardano ciò che avvenne in quel giorno non sono ancora terminati.
I militari italiani si trovavano a Nassiriya dal 19 luglio 2003, quando avevano dato il cambio ai marines americani del 2° battaglione, 25° reggimento. Il nome dell’operazione, cominciata il 15 luglio 2003 e terminata il primo dicembre 2006, era “Antica Babilonia”. Si trattava di una missione di peacekeeping, autorizzata dalle Nazioni Unite, conseguente alla guerra avviata dagli Stati Uniti per deporre il dittatore Saddam Hussein. I militari italiani avevano diversi compiti, tra cui quelli di addestrare le forze di sicurezza irachene.
Il comando dell’operazione si trovava fuori da Nassiriya, nella base White Horse, a 7 chilometri dal centro abitato. In città i carabinieri e gli uomini dell’esercito avevano occupato altre due basi, distanti poche centinaia di metri l’una dall’altra. Gli uomini dell’esercito si trovavano nella base Libeccio, i carabinieri nella base Maestrale, soprannominata “Animal House” che occupava il vecchio edificio della Camera di Commercio.
I primi quattro mesi dell’operazione passarono senza incidenti. Poche settimane prima dell’attentato, alcuni ufficiali dichiararono che la missione stava procedendo in modo molto soddisfacente. Nassiriya si trova nel sud dell’Iraq, una zona a larga maggioranza sciita, dove gli scontri con la minoranza sunnita e con le forze internazionali erano molto meno gravi e frequenti che in altre zone del paese, come intorno alle città di Baghdad e Tikrit, presidiate all’epoca dall’esercito americano.
Nei documenti prodotti dal contingente italiano nel corso di ottobre, il mese precedente all’attentato, si era ipotizzato che “gli attentati con mezzi esplosivi possono essere incrementati”. Il 5 novembre l’intelligence militare scrisse in un rapporto che “un gruppo di terroristi di nazionalità siriana e yemenita si è trasferito nella città di Nassiriya”.
Intorno alle 10 e 40 del 12 novembre un camion-cisterna si avvicinò alla base attraversando il punte sull’Eufrate. All’altezza della base girò a sinistra, puntando verso il vecchio edificio della Camera di Commercio. A bordo c’erano due persone: un autista e un uomo armato che si sporse verso l’esterno e cominciò a sparare contro il posto di guardia all’ingresso della base.
Il camion proseguì, sfondando la barra di metallo all’ingresso, mentre il militare italiano di guardia rispondeva sparando. Il camion si bloccò pochi metri dopo, scontrandosi contro gli hesco bastion che delimitavano il parcheggio della base (gabbioni di materiali vari che di solito vengono riempiti di sabbia o terra che si utilizzano per creare ripari e terrapieni). Nonostante la velocità e il peso del mezzo, il camion si bloccò subito dopo aver superato i gabbioni e lì esplose, a circa 25 metri dalla palazzina.
Secondo le ricostruzioni successive, sul camion c’erano almeno 150, forse 300 chilogrammi di esplosivi. L’edificio della Camera di Commercio venne sventrato dall’esplosione, le finestre andarono in pezzi nel raggio di centinaia di metri e persino la base Libeccio, piuttosto distante, ne fu danneggiata. La forza dell’esplosione scagliò tutto intorno la ghiaia che riempiva gli hesco bastion (di solito si usa la sabbia) e fece saltare in aria anche la riserva di munizioni della base: le indagini successive rivelarono che diversi corpi furono colpiti da proiettili italiani.
Morirono in tutto 28 persone. Dodici erano carabinieri di stanza nella base, cinque erano militari e due civili (un regista che si trovava a Nassiriya per girare un documentario, la cui storia venne raccontata nel libro 20 sigarette a Nassiriya, e un cooperante internazionale). Morirono anche nove iracheni, compresi i due attentatori. Altri 20 italiani rimasero feriti, oltre ad almeno un centinaio di civili iracheni.
La camera ardente per tutti gli italiani morti venne allestita nel Sacrario delle Bandiere del Vittoriano, dove fu oggetto di un lungo pellegrinaggio di cittadini. I funerali di Stato si svolsero il 18 novembre 2003 nella basilica di San Paolo fuori le mura, a Roma, officiati dal cardinale Camillo Ruini, alla presenza delle più alte autorità dello Stato, e con vasta (circa 50.000 persone) e commossa partecipazione popolare; le salme giunsero nella basilica scortati da 40 corazzieri a cavallo. Per quel giorno fu proclamato il lutto nazionale.
Dopo l’attentato vennero aperte diverse inchieste per accertare chi fossero i responsabili dell’attacco e se ci fossero state negligenze da parte dei comandi militari nel prevedere l’attacco e nel difendere adeguatamente la base Maestrale. Le inchieste sui terroristi hanno indicato come probabili responsabili gruppi sunniti arrivati a Nassiriya poco prima dell’attacco. Si ritiene che l’attentato sia stato progettato da gruppi vicini ad al-Qaida e al leader islamista Abu Musab al-Zarqawi.
L’inchiesta sulle responsabilità dei militari italiani è stata lunga e complessa e ha coinvolto diversi ufficiali tra cui i due generali responsabili del settore, Vincenzo Lops e Bruno Stano, oltre al comandante della base, il colonnello Georg Di Pauli. Con la sentenza del 20 gennaio 2011 la Corte di Cassazione confermò quella della corte d’appello militare che aveva assolto tutti e tre gli ufficiali da ogni responsabilità penale, ma rinviò il caso alla giustizia civile per il risarcimento dei danni ai familiari delle vittime.
La Cassazione, in questa come in altre sentenze che hanno riguardato il caso, stabilì che erano state sottovalutate le avvisaglie di un attacco imminente e che non erano state prese le adeguate misure per contrastarlo. Ad esempio: all’ingresso della base non era stato costruito un percorso obbligatorio a zig-zag per evitare che un mezzo potesse lanciarsi a grande velocità nel parcheggio della base, la riserva di munizioni non era stata adeguatamente protetta, mentre gli hesco bastion erano stati riempiti di ghiaia e non di sabbia come sarebbe stato più prudente in caso di pericolo di attentati.
Nei tre anni successivi a Nassiriya le truppe italiane furono impegnate in molti altri combattimenti e coinvolte in altri attentati. Nell’aprile 2004 ci fu la cosiddetta “battaglia dei ponti”, uno scontro con i ribelli iracheni durato 18 ore intorno ai due principali ponti della città. Nell’aprile 2006 quattro militari italiani e un rumeno vennero uccisi da una bomba mentre si trovavano su un veicolo in pattugliamento.
Nell’ultimo periodo di permanenza a Nassiriya gli attacchi divennero sempre più numerosi con lanci di missili e colpi di mortaio sparati contro la base fuori città. L’operazione Antica Babilonia terminò ufficialmente il primo dicembre 2006, quando l’esercito americano tornò ad occupare la città di Nassiriya. In tutto, 33 italiani furono uccisi nel corso della missione.


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