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martedì 25 febbraio 2020

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 25 febbraio.
Il 25 febbraio 2008, a Gravina di Puglia, vengono ritrovati per caso, in fondo alla cisterna di una casa abbandonata, i corpi senza vita e ormai mummificati di Francesco e Salvatore Pappalardi, Ciccio e Tore, come ormai erano stati ribattezzati dalla stampa nazionale.
Erano scomparsi il 5 di giugno del 2006. Al tramonto, verso le 17,30. Francesco tredici anni, Salvatore undici, escono da via Casale numero 123. Bimbi che scappavano per sopravvivere. Campagne magnifiche, città sotterranee, grotte, cisterne, anfratti e inconfessabili abitudini familiari. Il padre li ha uccisi, diceva la madre. La madre li ha rapiti, diceva il padre. Il compagno di lei è un porco, dicevano tutti. Quando Francesco e Salvatore spariscono i sospetti sono solo due: Filippo Pappalardi e Rosa Carlucci, il papà e la mamma di quei bambini bruciati dalla vita da quando sono nati.
Il paese di Gravina in Puglia sapeva tutto di quei due bambini. E non sapeva niente. Sapeva del loro padre padrone, sapeva della madre sbandata, sapeva della maledetta esistenza che si dovevano trascinare addosso giorno dopo giorno i due fratellini. Le voci giravano in paese. Tutti conoscevano perché il Tribunale aveva preso quella decisione, perché aveva affidato Ciccio e Tore a un padre così violento che viveva già con un´altra donna, in un´altra casa, con altri figli. Con la madre non ci potevano stare più. E non perché Rosa – nonostante le sue fragilità - non fosse più una buona madre. Non ci potevano stare da quando lei aveva quel nuovo compagno, Nicola, «il vecchio» sussurravano a Gravina in Puglia. «Il vecchio» che poi è finito dentro per violenza su una bambina.
Il padre padrone e il patrigno con quel «vizio», Rosa disperata prima quando era moglie di Filippo il violento e disperata dopo quando ha scoperto il segreto di Nicola. E poi Maria Ricupero, la nuova compagna del padre, le nuove sorelline. L´inferno di Francesco e Salvatore. L´inferno in famiglia. «Non cercateli in Romania, non cercate sette sataniche, non cercate niente fuori da quelle case dove vivevano», avevano fatto sapere i confidenti e i pregiudicati della Murgia.
Erano spariti. Tutti sapevano tutto di Francesco e Salvatore ma quella sera nessuno li aveva visti. Solo la telecamera di una banca, un´immagine di pochi secondi che cattura il viso di Francesco alle 18,03 del 5 giugno. Passeggia da solo, in via Casale, pochi passi da casa. È vestito come la mattina, la felpa rossa. I due «testimoni» e il «testimone chiave» anche loro diranno di averli visti – confusamente - molto tempo dopo.
Il paese di Gravina in Puglia si schiera, si divide. È stato il padre. Taciturno, aggressivo, un incubo per quei due bambini. È stata la madre con quella sua complice, la romena che se n´è appena andata dall´Italia per tornare a casa. Con loro, con Francesco e Salvatore. Il vescovo scivola nella trappola. Depistaggi? Voci più che altro, voci di voci di voci. I poliziotti il 3 luglio le inseguono e volano a Bucarest. Cercano. Cercano ombre.
Li hanno cercati a Gravina di Puglia? Li hanno cercati come avrebbero dovuto, pozzo dopo pozzo, grotta dopo grotta? Quando l´estate è quasi finita l´inchiesta poliziesca si avvita in una spirale che segnerà per sempre il caso. Il padre mente. O forse non mente ma «omette», dimentica, non spiega. Per esempio non spiega perché spegne il suo cellulare per due ore proprio quella sera, la sera che scompaiono i suoi figli e lui dovrebbe andare alla loro caccia, telefonare di qui e di là, informarsi, chiedere, bussare, ricevere informazioni. Ma quello che diventerà «l´assassino» è un muro di silenzi, una sfinge. È un uomo difficile, contorto, diffidente. Parla soltanto quando è in campagna con qualche parente, a volte anche con l´ex moglie. Gli sfuggono dalla bocca parole che lo fanno diventare «l´assassino». Filippo Pappalardi entra ufficialmente come indagato nell´inchiesta giudiziaria la mattina del 6 settembre 2007. Sequestro di persona, è l´ipotesi di reato. I sequestrati sono due, i suoi figli, Francesco e Salvatore.
È un «avvistamento» quello che lo inchioda. In piazza delle Quattro Fontane, verso le 21,30 di quella sera. Un ragazzino che vede Filippo Pappalardi con i figli, racconta ai poliziotti – però due mesi dopo la loro scomparsa – che erano là a giocare con i palloncini pieni d´acqua, alle Quattro Fontane. Il 27 novembre il padre è in carcere: è lui che li ha trasportati da qualche parte, è lui che li ha uccisi, è lui che ha nascosto i loro cadaveri. L´inchiesta è poco robusta, c´è qualche indizio, soprattutto c´è Filippo Pappalardi che sembra un omicida troppo perfetto. Lui che di sera – il 5 giugno – e di notte – all´1,40 del 6 giugno – va a denunciare la sparizione dei suoi figli ma l´indomani mattina è regolarmente al lavoro sul suo camion, «non ha tempo» per andare al commissariato di Gravina e firmare una denuncia di scomparsa. Sospetti sopra sospetti. L´indagine insegue i sospetti, si fa confondere dai sospetti, intrappolare. «Invece di arrestare me cercate i miei figli», urla il padre quando lo trascinano in galera. «Sono morti, quei bambini non li troveremo mai più vivi», dice Emilio Marzano, il procuratore capo della repubblica di Bari.
Li abbiamo ritrovati morti ad un altro tramonto. Il 25 febbraio del 2008. A due chilometri dalla loro casa, in un antico caseggiato abbandonato. In fondo a un pozzo. Sono morti. Sono morti da quel giugno del 2006. Sono morti in fondo al pozzo dove è scivolato anche un altro bambino. Sono morti dove non li hanno mai cercati mentre cercavano dappertutto. «Tore ha vegliato il fratello due giorni», «Ciccio ha lasciato graffi sul muro», «Uno era disteso a un lato della cisterna e l´altro a quindici metri». «Ciccio ha provato a salvare il fratello». Tutti i dettagli più macabri, tutte le supposizioni più fantasiose si sono rincorse poi. Poi, dopo il 25 febbraio. I corpi ritrovati, i resti dei cadaveri. Erano passati da lì i «soccorritori», avevano dato un´occhiata nel pozzo ma il pozzo era buio. Nessuno è sceso a vedere, non hanno calato neanche una corda. Il caseggiato abbandonato, il luogo ideale per un delitto che non c´è mai stato.
L´assassino è ancora un assassino e il giallo è ancora un giallo. Si incaponiscono gli investigatori sul «loro» indiziato, sul padre violento. Sbagliano due volte. E sbagliano più dopo che prima. Tenendolo dentro «in attesa dei risultati dell´esame autoptico», lasciandolo in prigione nonostante quelle «prove» che stavano svanendo intorno ai cadaveri di Francesco e Salvatore.
Fino a quando il GIP Giulia Romanazzi, di fronte alle evidenze offerte dall’autopsia (sui corpi dei bambini non vi erano segni di violenze e che le ferite erano compatibili con l’ipotesi di una caduta accidentale) riconosce che non vi sono più i presupposti necessari per la carcerazione cautelare e concede a Filippo Pappalardi gli arresti domiciliari derubricando l’accusa da duplice omicidio e accultamento di cadavere ad abbandono di minore. E poi, in seguito, lo scioglimento di ogni accusa e l'archiviazione del caso.
Ma la vicenda non è finita; Rosa Carlucci, la madre, ha fatto riaprire l'inchiesta: di una cosa è certa, che quella sera i corridoi delle centostanze fossero attraversati da un gruppo di adolescenti impegnati in una prova di coraggio. Quella alla quale i suoi figli non sopravvissero.
Almeno cinque, secondo la donna gravinese, sarebbero stati i testimoni di quella tragica caduta. Cinque ragazzi oggi maggiorenni, le cui posizioni, a seguito della ripresa delle indagini, sarebbero già finite sotto i riflettori della Procura del Tribunale dei minorenni, chiamata a verificare se davvero qualcuno vide e poi tenne per sè quanto visto, evitando di dare l'allarme e di allertare i soccorritori, il cui intervento avrebbe forse potuto rivelarsi provvidenziale.
Ma neppure il passo avanti della Procura pare bastare a Rosa Carlucci, madre in cerca di giustizia. "Mi interessa raggiungere il mio obbiettivo e, se sarà necessario, chiederò la riesumazione delle salme", dichiara ora la donna. "Ci sono verità nascoste in un maledetto fascicolo che nessuno ha mai preso in considerazione: ecco perché non mi fermo". Altri particolari, riportando il discorso sui binari del codice di procedura penale, non sempre coincidenti con quelli del cuore, aggiunge Domenico Ciocia, avvocato dalla Carlucci: "Nessuna richiesta di riesumazione dei fratellini è stata finora formalmente avanzata. L'intenzione, in ogni caso, è quella di ripercorrere tutto l'iter a 360 gradi. E se dovessero emergere dei dubbi, li rappresenteremo al magistrato col quale, questa volta, possiamo colloquiare".
Avanti adagio, dunque, ma avanti. "Una volta che mio marito Filippo fu scagionato dall'accusa di omicidio", chiosa Rosa Carlucci, "l'inchiesta perse di stimolo. Nessuno indagò in altre direzioni". E la verità rimase confinata in fondo ad un pozzo al quale, fossero vere le ipotesi adesso al vaglio della Procura barese, sarebbero stati in molti ad affacciarsi. Impauriti, silenti, reticenti.
Nel 2014 Filippo Pappalardi è stato risarcito per l'importo di 65000 euro, 20000 per i tre mesi di carcere e 45000 per i danni esistenziali.

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