Da sempre la scrittura alleggerisce i “momenti bassi” della
mia ciclotimia. Un capitolo tratto da “Altri colori” del premio Nobel Orhan
Pamuk conforta la mia ipotesi che la letteratura possa essere un valido aiuto
per affrontare i momenti di depressione. La prosa dello scrittore turco rivela
in modo crudo i tormenti da lui vissuti e le vie d’uscita individuate
nell’impegno intellettuale e nell’atto creativo.
(Mariano Tomatis, “La letteratura come farmaco”, dal blog
“Cicotimia, ”http://www.marianotomatis.it/ciclotimia/blog.php?post=20121225#top)
La letteratura mi è necessaria come un farmaco. Come capita
a chi ha una dipendenza, la letteratura, che devo «assumere» ogni giorno come
una medicina che si prende col cucchiaio o con un’iniezione, ha una dose
consigliata e degli effetti collaterali.
Prima di tutto la «medicina» deve essere buona. E con buona
intendo dire vera ed efficace. Un brano di romanzo forte, intenso e profondo,
in cui credo, che mi rende felice più di tante altre cose e mi lega alla vita.
[…] Se invece a scrivere sono io, la «dose» di «letteratura» che devo prendere
ogni giorno è completamente diversa. Perché nel mio stato la cura migliore, la
massima fonte di felicità, è scrivere ogni giorno una buona mezza pagina. […]
Ma non vorrei essere frainteso: chi come me è dipendente dalla letteratura non
è così superficiale da essere felice con i bei libri che scrive, con il loro
numero e successo. Chi ne è dipendente non desidera la letteratura per salvarsi
la vita, ma soltanto per superare la difficile giornata che sta trascorrendo. I
giorni sono sempre difficili. La vita è difficile perché non scrivi. Perché non
riesci a scrivere. Ed è difficile anche quando scrivi, perché scrivere è molto
difficile. Fra tutte queste difficoltà, l’importante è riuscire a trovare la
speranza per far passare la giornata, anzi essere felice e gioire se il libro o
la pagina che ti portano in un nuovo mondo sono buoni.
Vi racconto che cosa sento se un giorno non ho scritto bene
o non mi sono perso nel conforto di un libro. In breve, per me il mondo si
trasforma in un luogo insopportabile e tremendo, e chi mi conosce sa
immediatamente che anch’io sono diventato come quel mondo. Per esempio, quando si
fa sera mia figlia coglie dall’espressione desolata del mio volto che durante
la giornata non ho potuto scrivere bene. Glielo vorrei nascondere ma non mi
riesce mai. In questi brutti momenti penso che vivere o non vivere sia la
stessa cosa. Non ho voglia di parlare con nessuno, e chi mi vede in quello
stato non ha voglia di parlare con me. Questo umore in realtà comincia ad
avvolgere lentamente il mio animo ogni giorno fra l’una e le tre di pomeriggio,
ma dato che ho imparato a usare la scrittura e i libri come una medicina, mi
salvo senza diventare completamente il cadavere di me stesso. Se capita che per
lunghi periodi non posso prendere la mia medicina che sa di inchiostro e carta
perché sono in viaggio o, come è accaduto in passato, a causa del servizio
militare o perché devo andare a pagare la bolletta del gas o, come è successo
di recente, per questioni politiche o chissà per quanti altri impedimenti,
sento che l’infelicità mi trasforma in una specie di uomo di cemento. Non
riesco a muovere nessuna parte del corpo, le mie articolazioni non funzionano,
la testa si fa di pietra e sembra che il mio sudore abbia un odore diverso.
Questa infelicità può durare a lungo: la vita infatti è piena di castighi che
ci allontanano dalle consolazioni della letteratura. Partecipare a un’affollata
riunione politica, chiacchierare con gli amici nel corridoio della facoltà,
trovarsi a pranzo con i parenti in un giorno di festa, la conversazione forzata
con una brava persona distratta e rintronata dalla televisione, un appuntamento
di «lavoro» organizzato tempo prima, un incontro di famiglia durante le
festività, una banale uscita per fare la spesa, andare dal notaio, fare una
fototessera per ottenere un visto, sono tutte attività durante le quali gli
occhi mi si appesantiscono e mi viene sonno, proprio nel cuore della giornata.
Quando sono lontano da casa e mi è impossibile tornare nella mia stanza e
rimanere solo, l’unica mia consolazione è addormentarmi in pieno giorno.
Si, forse ciò di cui ho bisogno non è la letteratura ma
rimanere solo in una stanza e fantasticare. Allora comincio a sognare cose
bellissime su tutti quei luoghi affollati, sulle riunioni famigliari e
scolastiche, sui pranzi con i parenti nei giorni di festa e sulle persone che
vi partecipano. Durante quegli affollati pranzi fantastico sulle persone che
siedono intorno a me e le rendo più divertenti. Nella mia immaginazione tutto
diventa interessante, attraente e vero. Parto da questo mondo noto e comincio a
immaginarne uno nuovo. Così siamo arrivati al nocciolo della questione. Per
scrivere in modo soddisfacente devo annoiarmi per bene, e per annoiarmi per
bene devo immergermi nella vita. Quando sono proprio in mezzo a tutto quel
frastuono, agli uffici, alle telefonate, all’amore, all’amicizia, su una spiaggia
assolata o a un funerale in una giornata piovosa, quando cioè sto per entrare
nel cuore degli eventi, sento improvvisamente di trovarmi alloro margine.
Comincio a fantasticare. Se siete pessimisti potete pensare di annoiarvi. In
entrambi i casi, una voce interiore vi suggerisce: «Torna nella tua stanza e
siediti alla scrivania!» Non conosco i metodi degli altri, ma quelli come me
diventano scrittori in questo modo.
(Orhan Pamuk, , “L’autore implicito” in “Altri colori”,
Einaudi, Torino 2008, pp. 10-12.).
(Nell’immagine, Sandro Botticelli, “La calunnia”,
da http://www.frammentiarte.it/dal%20Gotico/Botticelli%20opere/51%20la%20calunnia.htm)
da http://www.frammentiarte.it/dal%20Gotico/Botticelli%20opere/51%20la%20calunnia.htm)
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