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mercoledì 26 aprile 2023

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 26 aprile.
Il 26 aprile 1868 si ebbe in Sardegna la rivolta detta "de Su Connottu" come reazione all'editto delle chiudende e alla legge sugli espropri abitativi.
Il cosiddetto editto delle chiudende, più precisamente “Regio editto sopra le chiudende, sopra i terreni comuni e della Corona, e sopra i tabacchi, nel Regno di Sardegna“, fu un provvedimento legislativo emanato il 6 ottobre 1820 dal re di Sardegna vittorio emanuele I e pubblicato nel 1823.
Con questo atto si autorizzava la recinzione dei terreni che per antica tradizione erano fino ad allora considerati di proprietà collettiva, introducendo di fatto la proprietà privata. L’editto mirava a favorire la modernizzazione e lo sviluppo dell’agricoltura locale, che versava in gravi condizioni di arretratezza, e nel suo passaggio più cruciale conteneva “l’autorizzazione a qualunque proprietario a liberamente chiudere di siepe, o di muro, vallar di fossa, qualunque suo terreno non soggetto a servitù di pascolo, di passaggio, di fontana o d’abbeveratoio.” Egual licenza era concessa ai comuni, per i terreni di loro proprietà, ed in tutti terreni chiusi in applicazione dell’editto era “libera qualunque coltivazione, compresa quella del tabacco”.
In Sardegna la riforma agraria del governo sabaudo, sollecitata da diversi studi economici svolti in precedenza, non tenne conto della diversità dei vari territori e soprattutto del fatto che nell’isola vigeva ancora il sistema feudale, che si innestava nel sistema tradizionale degli ademprivi (per ademprivio si intendeva in Sardegna, e tuttora in diritto, un bene di uso comune, generalmente un fondo rustico di variabile estensione, su cui la popolazione poteva comunitariamente esercitare diritto di sfruttamento, ad esempio per legnatico, macchiatico, ghiandatico o pascolo.), rendendo la situazione giuridica dei terreni altamente complessa. L’uso degli ademprivi, inoltre, prevedeva la rotazione degli impieghi della terra, che un anno era destinata a pascolo e l’anno successivo a seminagione secondo determinazioni comunitarie locali.
Delle chiudende si parlava già da tempo, poiché la recinzione dei propri terreni da parte dei proprietari privati era, sia pur moderatamente [Non tutti i terreni di proprietari privati erano recintati, ma avrebbero dovuto esserlo, e da questa condizione nasce proprio il nome della “chiudenda”, che indica quella terra “che dovrà essere chiusa”.], sempre esistita.
Nel 1806 cominciava a rilevare la frequenza di abbattimenti di recinzioni da parte dei pastori per entrare abusivamente con il bestiame in terre private, tanto che si emanarono apposite norme per la repressione del fenomeno. La spinta all’agricoltura si corredava di varie norme d’agevolazione, comprese una che concedeva, come racconta Pietro Martini, “nobiltà gratuita a coloro che piantassero quattromila ulivi“, una che concedeva titolo a richiedere fidecommessi a chi disponesse di 400 piante d’ulivo, e soprattutto una che dava a tutti la facoltà di “chiudere i terreni aperti per formarvi degli uliveti“, che prevedeva sanzioni per chi non impiantasse ulivi nelle terre chiuse (esproprio e riassegnazione ad aspiranti ulivicoltori) e che introduceva la pena di morte per i capi di eventuali complotti di diroccatori di chiudende.
Ma se da un lato l’operato del governo puntava a risanare l’agricoltura ristrutturando la rete dei “monti granatici e d’abbondanza” (l’ammasso cui conferire le produzioni agricole frumentarie), dall’altro era costretta a creare nel 1807 i “monti di riscatto”, monti di pegno resisi indispensabili dopo che l’usura aveva raggiunto livelli preoccupanti per l’ordine sociale. La pastorizia, nelle sue millenarie tradizioni, era debole e disturbante nell’ottica economica piemontese: se già il Gemelli aveva sottolineato come l’istituto dell’alternanza nell’uso delle terre recasse gravi danni da mancato guadagno e da freno contro gli investimenti, altri studiosi consideravano una “piaga” il modo di allevamento semi-brado caratteristico dell’isola.
L’editto infranse il tradizionale principio “ubi feuda, ibi demania” (dove ci sono beni feudali, là ci sono i demani) che faceva parte del diritto intermedio già da diverso tempo. Fu accolto subito con criticità da alcuni conoscitori dell’Isola, in particolare dall’Angius, che nel 1822 scriveva che “i pastori cominciarono a maledire irreligiosamente l’editto delle chiudende e a cercare di reprimere l’ambizione di alcuni chiudenti […]. Queste doglianze furono dall’Ufficio economico della provincia trovate giuste; non pertanto la invocata legge restò inerte“.
Gli effetti dell’editto furono di diverse nature. Lo stesso ex viceré di Sardegna, marchese di Yenne, scrisse due relazioni, la prima il 22 settembre 1832, la seconda il successivo 6 ottobre, che ne contengono una cronaca sufficientemente istruttiva: “È veramente eccessivo l’abuso che fecesi delle chiudende da alcuni proprietari. Siffatto abuso è quasi generale. Si chiusero a muro ed a siepe dei boschi ghiandiferi, si chiusero al piano e ai monti i pascoli migliori per «obbligare i pastori a pagarne un altissimo fitto» e si incorporarono perfino le pubbliche fonti e gli abbeveratoi per meglio dettare ai medesimi la legge“. Rincarando la dose, aggiunse che l’editto «giovò soltanto nella sua esecuzione ai ricchi e potenti».
La reazione pratica infatti era stata la corsa alle chiusure da parte di chi aveva la possibilità di farlo, e fra questi non erano i molti che non vennero a conoscenza del provvedimento se non a chiusure ormai completate. Corsa, come riferito dallo Yenne, caratterizzata dalla diffusione degli abusi da parte di coloro che «non ebbero ribrezzo di cingere immense estensioni di terreni […] al solo oggetto di far pagare a caro prezzo ai pastori e ai contadini la facoltà di seminarvi ed il diritto di far pascolare i loro armenti». Conseguenza della corsa a chiudere, cui si riferiscono i versi attribuiti al Murenu, fu un diffuso malcontento popolare, che ben presto sfociò in violenza e disordini. Sempre dalla relazione del viceré si apprende (per aver egli assunto le “più accurate informazioni”) che gli incidenti cominciarono a Gavoi, con l’abbattimento di tre “chiusi” e con «discussioni fra li demolitori e danneggiati»; seguitarono poi alla vicina Mamoiada e poi a Nuoro, Fonni, Bitti ed altri paesi, «portando in tutti codesti luoghi devastamenti, incendi e rovine, e segnatamente in Benetutti, il di cui aspetto mette orrore al passeggiero». Da queste azioni delittuose contro i beni, si passò presto a quelle contro le persone e si ebbero anche omicidi. Secondo lo Yenne da un lato vi era l’avidità di alcuni proprietari, che chiusero anche pubbliche strade e beni comunali, mentre dall’altro vi era una «irragionevole bramosia de’ silvestri pastori di un’illimitata libertà di pascolare i loro armenti in cui ripongono unicamente ogni loro idea di proprietà“». A margine vi era anche, sempre secondo la relazione, l’avarizia di alcuni ecclesiastici che non si ristettero dall’andare predicando presso il popolino che le chiudende erano un sistema odioso, forse per paura di veder calare, con la crescita dell’agricoltura, le loro decime sulla pastorizia.
In alcune aree dell’isola (Logudoro e Campidano) l’editto fu accolto in parte positivamente, soprattutto per il fatto che gli agricoltori erano in gran numero e finalmente potevano proteggere le loro coltivazioni; il rilancio dell’agricoltura portava a valorizzare vecchi istituti spagnoleschi come la roadia, la quale anch’essa, secondo le politiche della riforma, giovava a questi scopi. Ma il malcontento era generale. L’effetto negativo fu risentito in modo particolare nella zona delle Barbagie in quanto la privatizzazione dei terreni, che erano la risorsa primaria del territorio, mise in enorme difficoltà l’attività della pastorizia, la principale dell’area, dato che i pastori si trovarono improvvisamente in pratica privati dei loro pascoli.
Ben presto molti dei diseredati andarono ad ingrossare le file dei fuorilegge, dando al fenomeno del banditismo una virulenza ancora mai conosciuta. Nel 1827 furono emanate altre norme che confermavano la sostanza dell’editto, negando titolo ad azione risarcitoria a quei proprietari che non avessero chiuso bene i loro “tancati” (Il tancato è l’appezzamento di terreno chiuso a muro a secco; dal sardo tanca, a sua volta dal verbo tancare, chiudere.) ed avessero patito danno perché vi fosse penetrato del bestiame; a coloro che non chiudevano bene erano anzi comminate ammende. L’editto fu riformato nel 1830 e nel 1831, ma il livello del malcontento rimase sopra i livelli di guardia. Gli incidenti crebbero in tal misura che nel 1832 si dovette istituire una commissione militare che fece repressione arrestando ed impiccando senza regolare processo (nel 1833 si emanarono norme per vietare la ricostruzione delle chiudende e ordinare che quelle abusive fossero abbattute); a questa seguì una commissione mista, composta di militari e civili, e ve ne fu anche una terza, che impiegò l’esercito e che era guidata da un giudice dell’Audiencia, ma quest’ultima operò in favore dei proprietari.
A seguito dell’editto del 31 maggio 1836, con il quale cessava la “baronale giurisdizione”, finalmente dal 1837 iniziò il riscatto dei feudi, “riacquistati” dal re, che si concluse nel 1846, riscatto che fu pagato attingendo alle tasse dei sardi. Tra il 1847 ed il 1848 si attuò la perfetta unione della Sardegna agli stati di terraferma, ma i problemi aperti dall’editto del 1820 non erano stati ancora risolti. In ogni caso era sempre “monitorata” la situazione delle chiudende, tanto che nel 1850 l’Angius, nella sua analisi dell’Isola, riservava per ciascuno dei comuni osservati un’apposita sezione in cui osservava quanto le chiudende fossero praticate.
L’editto delle chiudende fu idealmente seguito nel 1865 da una legge con la quale si aboliva l’istituto degli ademprivi e si imponeva una tassazione particolarmente onerosa sulle abitazioni; la tassazione aveva sì dei correttivi e prevedeva delle agevolazioni, ma queste erano in massima parte inapplicabili nella strutturazione urbanistica sarda, costituita di piccoli villaggi, perché prevista per quelle abitazioni completamente isolate. Si ebbe in Sardegna un esproprio ogni 14 abitanti, mentre la media nazionale era di uno ogni 27.000. Questo provvedimento, insieme all’editto delle chiudende, è la causa dei disordini sfociati infine a Nuoro nel 1868 con la rivolta nota come “Su Connottu“. i rivoltosi, guidati da Paskedda Zau, chiedevano il ritorno a ciò che avevano sempre conosciuto, ossia il ripristino dell'antico sistema di gestione dei terreni. Nei giorni della rivolta fu assalito il comune e furono bruciati i documenti di compravendita delle terre comunali ex ademprivili. Giorgio Asproni, uno dei politici più in vista di quel territorio e deputato in Parlamento, era favorevole alla vendita dei terreni comunali, e nel contempo assegnava al clero un ruolo di responsabilità nella rivolta; tuttavia, a seguito di questi gravi fatti, sollecitò (insieme con altri deputati sardi) il governo italiano ad avviare una indagine sulle condizioni sociali ed economiche della Sardegna.
Nel novembre dello stesso anno fu istituita la Commissione Parlamentare di indagine, presieduta dal Agostino Depretis. La Commissione si recò nell'isola nel 1869, e furono vani i tentativi di Francesco Cocco Ortu e del marchese di Laconi Ignazio Aymerich di spiegare ai commissari i problemi economici dell'isola. L'unico che si impegnò seriamente fu Quintino Sella che produsse un'eccellente relazione sull'industria mineraria isolana. L'operato della commissione tuttavia non produsse alcun atto concreto.

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