Cerca nel web

sabato 31 maggio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 31 maggio.

Il 31 maggio 1962 un treno merci che non aveva rispettato il semaforo rosso piomba su un treno passeggeri fermo alla stazione di Voghera.

Era un giovedì quel maledetto 31 maggio 1962. Un giorno che Voghera non potrà mai dimenticare. Sessantaquattro morti, il terzo peggior disastro ferroviario della storia italiana e tra i più gravi di quella europea. Alle due e un quarto del mattino un treno merci piomba a settanta chilometri orari addosso all'accelerato 1391 fermo sul terzo binario della stazione e stracarico di turisti diretti in riviera. La pesante locomotiva entra nei vagoni di coda come un coltello nel burro. E' una strage. Muoiono a decine, sorpresi nel sonno dal tremendo impatto, tantissimi i feriti. Chi occupava gli ultimi vagoni del convoglio, non ebbe praticamente scampo. Tra le vittime donne, bambini, anziani. Non ci furono pavesi tra loro, per il semplice motivo che chi salì sul treno a Pavia o a Voghera trovò i posti in fondo, nelle carrozze della morte, già occupati e dovette sistemarsi a metà o in cima al treno dove gli effetti dello scontro furono assai meno devastanti. La Fiera dell'Ascensione viene immediatamente annullata dall'allora sindaco democristiano Rino Cristiani. La città si prodiga nei soccorsi. E' un lavoro infernale, estrarre i feriti e i corpi straziati da quell'ammasso di lamiere contorte. L'urto ha fatto accartocciare le carrozze le une sulle altre, come se fossero dei modellini di plastica. Illesi i macchinisti del merci assassino, scappati quando si sono resi conto di non potere fare nulla per evitare il terribile urto. Abitano entrambi a Sesto San Giovanni, pagheranno con una dura trafila processuale e il carcere colpe che forse non sono soltanto le loro, in una tragica catena di comandi e di segnali intempestivi e non rispettati: all'epoca, del resto, non c'erano sistemi di controllo elettronico e ogni decisione era delegata al fattore umano, fatalmente esposto al rischio di un errore. Di certo c'è che il merci è entrato alla stazione di Voghera a una velocità eccessiva e sarà questa una delle principali imputazioni contestate ai due ferrovieri. L'impressione nel Paese è enorme. Siamo negli anni del boom economico e di un benessere che si sta estendendo anche ai ceti medio-bassi, ma ancora viva è l'eco delle distruzioni causate dalla guerra e dai bombardamenti. Con la strage della stazione di Voghera l'orologio del tempo sembra tornare indietro di vent'anni, alle città sventrate dalle bombe. Una folla imponente assiste ai funerali, celebrati in Duomo. Partecipano al rito, in una giornata plumbea, sotto la pioggia, il presidente della Repubblica, Antonio Segni, il presidente del Consiglio, Amintore Fanfani, il ministro Tremelloni. All'epoca, un cineamatore - si chiamava Carena - realizzò anche un filmato a colori, rarissimo per quei tempi, nelle ore immediatamente successive al disastro, con una cinepresa 8 millimetri. Quelle scene impressionanti, con i vagoni accatastati su se stessi, le bare allineate sul terzo binario, le facce attonite e sconvolte dei volontari, dei soldati mobilitati nell'emergenza, sono state utilizzate da Giulio Cesare Anselmi, medico chirurgo dell'ospedale, tra i primi ad accorrere sul luogo della sciagura, per realizzare il video, «Il disastro di Voghera», uno dei documenti storici più preziosi su quei fatti già lontani più di mezzo secolo, ma rimasti scolpiti indelebilmente nel cuore della città.

venerdì 30 maggio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 30 maggio.

Il 30 maggio 1911 viene disputata per la prima volta la 500 miglia di Indianapolis.

La 500 Miglia di Indianapolis è una delle corse più longeve che le competizioni motoristiche possano annoverare e costituisce un universo a parte nelle competizioni.

L’impianto che ospita la 500 Miglia si trova nello Stato dell’Indiana a Speedway, una cittadina a nord-ovest di Indianapolis, e la costruzione del tracciato, pavimentato in ghiaia mista a catrame, risale al 1909: la pista avrebbe dovuto servire come supporto per ospitare eventi di vario genere ed attività di collaudo automobilistico. Nel 1911, all’indomani di una ripavimentazione più adeguata (il nuovo rivestimento è in mattoni e calce, detto Brickyard), viene organizzata una gara di durata da disputare su una distanza di cinquecento miglia: nella prima Indy 500 si impone Ray Harroun su Marmon Wasp, ad una media di circa 75 miglia orarie e alla guida della prima auto da corsa munita di specchietto retrovisore. Se in tutto il resto del mondo le prestazioni si misurano in tempo, a Indianapolis si parla principalmente di media oraria, che è la stessa cosa, ma restituisce meglio il concetto di velocità.

Dagli Anni Trenta in poi il manto stradale sarà in asfalto, ma ancora oggi è possibile ammirare la famosa pavimentazione in mattoncini nella striscia larga tre piedi che delimita la linea del traguardo. Per quanto riguarda i dati tecnici della pista, il catino (da percorrere in senso antiorario) è accreditato di una lunghezza di 2,5 miglia, così ripartiti: due rettilinei da 5/8 di miglio con banking a 0°, due raccordi tra le curve (detti Short Chute) da 1/8 di miglio con banking a 0° e quattro curve da 1/4 di miglio con banking a 9°12′. Quattro curve e pianta simmetrica sono il trionfo della semplicità, ma non della banalità, dato che ci sono due insidie nascoste: primo, gli specialisti degli ovali (ovvero la quintessenza dell’automobilismo USA) dicono che la corsa su questa tipologia di tracciato sia una delle esperienze di guida più pericolose in assoluto, perché giocata molto spesso sul filo del rasoio; secondo, chi ha guidato durante la Indy 500 riferisce che il catino sia “una cosa viva che si muove”, come se fosse in continua evoluzione. Noi, che al massimo abbiamo giocato al glorioso Indianapolis 500 The Simulation della Papyrus durante gli Anni Novanta, non possiamo fare altro che affidarci alle parole dei professionisti.

La 500 miglia di Indianapolis costituisce una corsa a parte rispetto al resto della stagione dell’IndyCar, anche se vi contribuisce come punteggio. Chiunque sia in grado di mettere in pista una vettura con le specifiche richieste dal regolamento può partecipare all’evento, indipendentemente dalla partecipazione al campionato: all’atto dell’iscrizione riceverà il numero di gara per la monoposto principale e il numero di gara con la T per l’eventuale muletto, detto T-car. Oggi le specifiche vigenti lasciano libera solo la scelta del motorista (Chevrolet o Honda), ma fino agli Anni Novanta le possibili combinazioni di motore, telaio (anche di qualche anno prima, tutto fa brodo…) e gomme davano luogo ad una selezione tecnica più variegata. In un certo senso, questo appiattimento tecnico è uno dei motivi per cui negli ultimi anni la gara ha smarrito buona parte di quel fascino che la caratterizzava: tentativi di qualifica con vetture anacronisticamente a motore anteriore (negli Anni Ottanta) o con tecnologie fin troppo d’avanguardia come la Eagle Aircraft Flyer (nel 1982), per non parlare dei motori dedicati esclusivamente alla 500 Miglia, come i Mercedes-Ilmor vittoriosi nel 1994 o le preparazioni Menard, mostruosamente potenti e con un’affidabilità prossima allo zero, sono solamente ricordi di un’epoca lontana.

Tutto il mese di maggio è dedicato alle prove libere: nei primi giorni viene effettuato il Rookie orientation program, prova di ammissione per gli esordienti, che devono dimostrare di essere in grado di girare per quattro batterie di dieci giri ciascuna mantenendosi dentro un range di velocità media che a ogni batteria si alza. Stesso trattamento anche per i veterani che si sono presi una pausa dalle gare IndyCar: per loro il test prende il nome di Refresher.

Le qualificazioni sono da sempre caratterizzate da un sistema complesso di assegnazione dei posti, ma dal 2014 la procedura si è semplificata; ciò che non è cambiato è la prestazione di riferimento, cioè la velocità media ottenuta in quattro giri di pista consecutivi (regola che risale al 1939). Il sabato del fine settimana prima della gara la pista rimane aperta per i tentativi di qualifica: ogni iscritto ha a disposizione tre tentativi di qualifica (l’ordine viene stabilito per estrazione) e ogni tentativo annulla la media ottenuta dal precedente; alla fine della giornata i trentatré più veloci si aggiudicheranno la griglia di partenza. Il giorno dopo, i primi nove (detti The Fast 9) avranno un tentativo ciascuno per giocarsi le prime nove posizioni al via, così come i restanti ventiquattro, che si disputeranno i posti dal decimo al trentatreesimo. Prima del 2014 il sistema di qualifica prevedeva tre giornate di definizione provvisoria della griglia (sempre a scaglioni: top 11, poi posti dal 12° al 22° e quindi dal 23° al 33°) e una quarta giornata (il Bump Day) in cui il pilota On the bubble, cioè con la media più bassa (e non necessariamente l’ultimo nello schieramento), poteva essere estromesso da chi girava più forte, fino ad esaurimento dei tentativi disponibili.

La gara si gioca sulla distanza di cinquecento miglia, caratterizzate da velocità, sorpassi, rifornimenti, cambi gomme e neutralizzazioni sotto bandiera gialla: se vogliamo vedere il nostro numero di gara nel punto più alto di The Pylon al traguardo del duecentesimo giro, entrando da trionfatori nella Gasolyne Alley per brindare con il latte, la lettura di ciò che avviene in pista è importante tanto quanto comprendere il comportamento della vettura nelle varie fasi di gara. In altre parole: se vogliamo che la nostra faccia finisca scolpita sull’enorme Borg Warner Trophy abbiamo bisogno di un buon compromesso di assetto per le fasi di gara in aria libera e quelle in aria turbolenta (cioè in scia agli avversari o nelle fasi trafficate di doppiaggio), un ottimo affiatamento con lo spotter (la persona che dai box informa costantemente il pilota su tutto quello che, letteralmente, succede intorno alla vettura) e di trovarsi in una posizione buona, con livelli di gomme e metanolo sufficienti, per essere aggressivi negli ultimi quindici – venti giri, cioè la fase risolutiva della gara. E bisogna gestire la concentrazione, l’adrenalina e il proprio fisico durante le due ore e tre quarti di gara (se va bene), sotto il sole che picchia e quasi sempre oltre le duecento miglia orarie: il confine tra vittoria e sconfitta è talmente labile che basta una disattenzione in prossimità del traguardo per infrangere i sogni di gloria… chiedete a Takuma Sato o J. R. Hildebrand e vedete cosa vi rispondono.

In conclusione: la storia leggendaria di Indy 500 fa sì che la gara sul catino dell’Indiana sia una delle grandi classiche dell’automobilismo mondiale, con una copertura mediatica a livello globale (basti pensare a cos’è successo nella edizione con la partecipazione di Fernando Alonso) e, almeno nei giorni di grazia, seguita da un pubblico da casa numericamente secondo solo al Superbowl. Negli ultimi vent’anni la corsa ha smarrito per strada buona parte del fascino caratteristico dell’epoca che fu, di quei gloriosi Anni Sessanta quando costituiva il punto di contatto tra l’America e l’Europa in pista e in cui si parlava di un riconoscimento puramente statistico, la Triple Crown, che metteva assieme la vittoria in tre gare completamente diverse tra loro (GP di Monaco di Formula 1, 24 ore di Le Mans e 500 Miglia di Indianapolis): la causa è da ricercare in un complicato garbuglio di ragioni tecniche, sportive e politiche che dagli Anni Duemila in poi ad un certo punto hanno portato una delle corse più famose del mondo al livello di una bolsa gara di go-kart aziendale. Nella speranza che un domani torni ad essere iconica come lo era un tempo e come dovrebbe sempre essere.

giovedì 29 maggio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 29 maggio.

Il 29 maggio 1994 va in onda negli Stati Uniti l'ultimo episodio della serie "Star Trek - The next generation", dal titolo "Ieri, oggi e domani" (titolo originale "all good things...").

"Star Trek: The Next Generation" prosegue le avventure dell'Enterprise nello spazio profondo. Rispetto alla serie originale cambiano i personaggi, ma non la missione: esplorare strani, nuovi mondi, alla ricerca di nuove forme di vita e di nuove civiltà, per arrivare là dove nessuno è mai giunto prima

"Volevamo vedere se eri capace di espandere la tua mente e i tuoi orizzonti, e in effetti per un breve momento ce l'hai fatta... In quell'unica frazione di secondo ti sei posto dei quesiti del tutto nuovi. Quella è l'esplorazione che ti aspetta, non scoprire le stelle o studiare le nebulose, ma esplorare a fondo le ignote possibilità dell'esistenza."

(Q, The Next Generation, "All Good Things...")

Star Trek. Lo spazio come ultima frontiera, l'esplorazione intesa come scoperta di sé stessi, per arrivare dove nessuno è mai giunto prima. Otto lettere riuniscono milioni di appassionati in tutto il mondo che si incontrano nelle convention, nelle mostre, nelle fiere, condividendo uno stesso sogno: che, in fondo, quello di Star Trek non sia un mero universo partorito dalla fantasia di un autore televisivo californiano, ma il futuro che attende l'umanità.

In "All Good Things..." ("Ieri, oggi, domani"), l'ultima puntata di The Next Generation, la seconda serie in live action del franchise creato da Gene Roddenberry nel 1966, nonché la più vicina all'idea del suo autore, il capitano della nave stellare Enterprise Jean-Luc Picard viaggia attraverso tre diverse dimensioni temporali senza soluzione di continuità: torna nel passato, nel giorno in cui assunse il suo nuovo incarico, visita il futuro, in cui sperimenta gli effetti dello scorrere del tempo, e salva il presente, minacciato dall'entità aliena Q, un essere immortale e onnipotente, il primo personaggio incontrato dai membri dell'equipaggio sette anni prima. L'episodio, ispirato a "Mattatoio n. 5" di Kurt Vonnegut, un must tra gli sceneggiatori emergenti della serie, vincitore del premio Hugo 1995 per la migliore rappresentazione drammatica, ritrova una sua linearità concludendo un arco narrativo iniziato nell'episodio pilota, "Encounter at Farpoint" ("Incontro a Farpoint"), di cui si propone come l'ideale seguito. Il cerchio si chiude con una partita a poker tra i membri dell'equipaggio, un gioco ricorrente nell'universo di Star Trek, che spinge i suoi personaggi alla riflessione, all'uso della logica, all'intuizione, e accetta non di rado di essere regolato dalla pura casualità.

Suona ormai banale l'opinione pubblica che Star Trek sia molto più di una serie televisiva. Non solo per l'enorme passione che unisce milioni di appassionati sparsi in tutto il mondo, difficile da ignorare anche per chi di Star Trek non ha mai visto mezza scena, ma soprattutto per la quantità di studi accademici accumulati nel corso degli anni in seminari dedicatigli, volti ad analizzare la complessità di un'opera che affonda le radici in svariati campi, dalla filosofia alle scienze sociali, retti dalla fantascienza utopica di Roddenberry. Chi ha visto solo di sfuggita una o più puntate di una qualsiasi serie di Star Trek, senza mai penetrarne nello spirito, generalmente crede sia un'opera lenta, che richieda un impegno costante non tanto nella fruizione dei singoli episodi, comunque sempre finalizzati all'intrattenimento, com'è d'uopo per la televisione americana, quanto nel seguire le molteplici dinamiche di un caratteristico universo senza il rischio di perdersi tra le stelle.

Star Trek si fonda sin dal principio sull'esplorazione, esteriore e, di riflesso, interiore, un filo che lega tutti i capitani delle cinque serie, da Kirk ad Archer, passando per Picard, Sisko e Janeway. La buona fantascienza è un genere che guarda al futuro per riflettere sul presente. Il cinema dei grandi incassi, tuttavia, è abituato ad un altro tipo di fantascienza, dipendente dalla spettacolarità, tradotta spesso in scene di guerra - è anche il caso degli ultimi film di Star Trek, che si sono dovuti adattare ai tempi, snaturando molte caratteristiche che hanno reso il marchio celebre. Il boom hollywoodiano degli anni '50, figlio della Guerra Fredda, evidenziava il conflitto tra l'Uomo e l'Altro, ossia l'alieno, il Diverso, creatura estranea ed invadente. Star Trek, e in particolare The Next Generation, che Roddenberry plasmò secondo la sua personale idea di società futuristica, rovescia molti schemi tipici della fantascienza hollywoodiana e rifiuta la spettacolarità più immediata in favore di una regia essenziale, invisibile, con ben pochi virtuosismi, ed una preferenza concessa ai dialoghi tra i personaggi e alla psicologia degli stessi piuttosto che all'azione diretta. L'alieno non è mai visto come il diverso, l'incontro deve essere sempre stimolante e deve contribuire allo sviluppo delle specie.

Tra i membri dell'equipaggio dell'Enterprise NCC-1701-D, il conflitto, un'esperienza che in sociologia definisce lo sviluppo di una persona, è praticamente assente. L'armonia viene sconvolta da fattori di origine esterna, come le entità che in taluni episodi si impossessano dei personaggi. Nella prima, dimenticabile stagione, gli esseri umani sono presentati paradossalmente come creature inumane, troppo perfetti per essere veri e per stimolare un'interazione sincera con un pubblico abituato alle avventure di Kirk, Spock e McCoy. In tale contesto, un personaggio che funziona sin da subito è Data, l'androide che sostituisce idealmente il vulcaniano Spock sulla plancia dell'Enterprise. Interpretato dal mimo Brent Spiner, Data è un essere pressoché perfetto che desidera adottare i comportamenti tipici degli uomini, incarnando anche le debolezze della nostra specie. "Pinocchio", lo definisce simpaticamente William Riker, il secondo in comando. Come un antropologo, Data è un acuto osservatore dei suoi colleghi, e questo suo atteggiamento, che lo porta spesso ad essere il personaggio effettivamente più umano, ispira alcune tra le scene più brillanti della serie.

Il concetto dei rapporti di forza tra i singoli e i gruppi in Star Trek è fondamentale. Come ha osservato Thomas Richards nel suo saggio "The Meaning of Star Trek" ("Il mondo di Star Trek"), la Federazione dei Pianeti Uniti, l'organizzazione che nel futuro raccoglie l'umanità e altri popoli che hanno scelto di unirsi sotto un unico governo, interagisce con tre diversi tipi di specie: quelle di livello inferiore, quelle di livello uguale e quelle di livello superiore.

Nell'universo di Star Trek, il viaggio verso territori stellari inesplorati comporta l'assenza di una legislazione atta a regolare il comportamento degli esploratori. L'ultima frontiera, per l'appunto. È per questo che molte puntate della serie originale rivolte all'incontro tra l'Enterprise e civiltà non ancora sviluppate sono vicine al genere western, con Kirk che indossa idealmente i panni dello sceriffo, l'unico portatore della legge in una terra selvaggia. È opportuno tuttavia specificare che la Federazione non è un impero. Per questo motivo lo scrittore di fantascienza Theodore Sturgeon introdusse nella serie originale la fondamentale Prima Direttiva, una regola volta ad allontanare eventuali smanie di conquista da parte dei membri della Flotta Stellare, che impedisce di interferire con lo sviluppo di una società aliena finché questa non abbia raggiunto i requisiti tecnologici per viaggiare nello spazio - che, nell'universo di Star Trek, sulla Terra vengono raggiunti nel 2063 grazie alle ricerche di Zefram Cochrane. È tuttavia impossibile mantenere un distacco in un universo in cui tutte le azioni hanno delle conseguenze, come mostra la puntata di The Next Generation "Who Watches the Watchers?" ("Prima direttiva"), in cui, su un pianeta popolato da una razza primitiva, alcuni membri della popolazione si imbattono in una stazione di ricerche antropologiche istituita dalla Flotta Stellare, identificando Picard nel proprio Dio.

I migliori episodi di The Next Generation si fondano sullo scontro tra due culture che condividono uno stesso livello di sviluppo. L'immagine ricorrente nei climax di molte puntate indimenticabili mostra due astronavi ferme nello spazio, una di fronte all'altra, al culmine di una crisi, in attesa che l'altra faccia la prima mossa. Generalmente è un astuto ragionamento di Picard ad evitare il disastro. Per la natura del nuovo capitano dell'Enterprise, The Next Generation propone più situazioni di stallo, da sbrogliare con il sapiente uso della diplomazia, rispetto a quelle incentrate sull'azione. La missione della Flotta Stellare è opposta a quella delle altre specie del loro livello, che hanno invece creato dei veri e propri imperi. L'arco narrativo dei Klingon, scritto dall'esordiente Ronald D. Moore - che qualche anno dopo proporrà una nuova serie di Battlestar Galactica - ricorda i toni delle tragedie di Shakespeare, i Romulani ragionano in modo simile agli antichi Romani, gli spietati Cardassiani imitano indirettamente le stragi naziste sui Bajorani - il tema su cui si svilupperà Deep Space Nine.

La prima, grande puntata di The Next Generation, "Q-Who?" ("Chi è Q?"), introduce i Borg, esseri composti da parti umane e meccaniche fuse tra loro, i definitivi nemici dell'individualità, il cui scopo è assimilare tutte le specie dell'universo in un unico corpo-macchina. I Borg, che si spostano nello spazio tramite una caratteristica astronave a forma di cubo, sono gli antagonisti principali di The Next Generation, sconvolgendo qualsiasi schema pre-esistente e ponendo gli umani di fronte ad una condizione di assoluta ed ineluttabile inferiorità. La tensione tra la Federazione e i Borg raggiunge l'apice con le due indimenticabili puntate che chiudono ed aprono rispettivamente la terza e la quarta stagione, "The Best of Both Worlds" ("L'attacco dei Borg"), nel corso delle quali Picard viene assimilato ed assume la nuova identità di Locutus dei Borg, recando una fragorosa sconfitta alla Flotta Stellare nella battaglia di Wolf 359. È l'unica, epica battaglia di The Next Generation, nemmeno mostrata nella sua totalità, a causa dell'economia sui mezzi. Solo nel successivo Deep Space Nine, la più cupa tra le serie di Star Trek, si assisterà ad un conflitto costante, seriale, che condurrà ad una guerra su larga scala, la cui spettacolarità venne tradotta con i mezzi dell'allora innovativa - almeno per la televisione - CGI.

The Next Generation attraversa la fine degli anni '80 e l'inizio degli anni '90, e come tutte le serie televisive è figlia del suo tempo. Largamente episodica, l'argomento trattato in una puntata si esaurisce nei 45 minuti che la compongono, e spesso non ne viene fatta più menzione. Gli archi narrativi sono slegati da una soluzione di continuità, una puntata può infatti costituire il seguito di un'altra anche a una o più stagioni di distanza. Mentre oggi appare ormai consolidato il processo di serializzazione delle opere audiovisive destinate al mercato della televisione, proposto in larga scala dal modello HBO sperimentato tra la fine degli anni '90 e l'inizio dei 2000 con opere innovative quali "Oz", "I Soprano" e "The Wire", nell'epoca in cui le televisioni trasmettono The Next Generation c'era ancora la paura che il pubblico non riuscisse a stabilire una immediata connessione emotiva con il programma senza avere le informazioni ricavate dalla visione delle puntate precedenti. In The Next Generation, l'importanza di ogni singolo episodio viene accentuata rispetto alle intere stagioni, prive di temi di fondo generali, con piccoli cambiamenti sparsi - la terza stagione, ad esempio, introduce una nuova sigla e nuovi capi d'abbigliamento per i membri dell'Enterprise. Riguardare The Next Generation oggi, o addirittura guardarlo per la prima volta, nell'era di Netflix, rappresenta un vero e proprio viaggio verso l'ignoto, come quello intrapreso dall'Enterprise.

Superato un primo, rapido periodo di assestamento, dalla terza stagione in poi ai singoli personaggi sono dedicate intere puntate. Il capitano Jean-Luc Picard è un esperto diplomatico dalla profonda sensibilità e fermezza, appassionato di archeologia, nato in Francia ed interpretato dal grande attore shakesperiano Patrick Stewart, immediatamente riconoscibile dal suo caratteristico accento. "Darmok" (id.), in cui deve comunicare con un alieno che si esprime attraverso metafore tratte da ignoti racconti mitologici della sua popolazione, "Tapestry" ("Una seconda opportunità"), in cui rivive in una sorta di purgatorio un episodio della sua adolescenza che ha cambiato radicalmente la sua vita, " The Inner Light" ("Una vita per ricordare"), nel quale vive una vita alternativa nell'arco di pochi minuti reali, sono autentici capolavori della televisione, e andrebbero recuperati da tutti gli appassionati del genere. Il primo ufficiale William Riker nasconde la sua insicurezza, causata da un forte conflitto con la figura paterna esplicato in "The Icarus Factor" ("Fattore Icaro"), sotto una maschera risoluta, che attrae molte donne incontrate nel viaggio, ed è responsabile dell'incolumità del capitano, costretto a sfidare nel già citato "The Best of Both Worlds". Come accadde a Kirk nella serie originale, un malfunzionamento del teletrasporto genera un suo clone in "Second Chances" ("Duplicato"). Il tenente Geordi LaForge, dotato di uno spiccato senso dell'umorismo, promosso a ingegnere capo nel corso della serie, si serve di un paio di visori per correggere una cecità congenita. Collaborerà a fianco di Montgomery Scott, l'ingegnere capo della prima Enterprise, in "Relics" ("Il naufrago del tempo"). Il capo della sicurezza Worf è il primo Klingon della Flotta Stellare, cresciuto da una coppia di esseri umani che hanno dirottato la sua aggressività verso la lealtà per la Federazione. A lui sono dedicate numerose puntate che condurranno ad una guerra civile tra i Klingon, governati da politici corrotti. Il consulente di bordo Deanna Troi è per metà umana e per metà betazoide, una specie che possiede abilità telepatiche. La dottoressa Crusher intrattiene rapporti ambigui con Picard, amico del suo defunto marito, e viaggia accompagnata da suo figlio Wesley, bambino prodigio che nel corso della serie si iscriverà all'Accademia della Flotta Stellare, in cui si rende colpevole, insieme ad altri suoi compagni, di un incidente in "The First Duty" ("Il primo dovere").

The Next Generation fonda il suo enorme successo sulla familiarità che si stabilisce tra il pubblico e i suoi personaggi, proposti in ambienti ricorrenti, che replicano lo stile della sitcom, come l'inconfondibile plancia dell'Enterprise e il bar di prora gestito da Guinan, interpretata dall'attrice premio Oscar Whoopi Goldberg. Tutti questi personaggi hanno problemi con le loro famiglie, e il loro scopo ultimo è preservare una propria individualità nel corso del loro viaggio. L'autonomia e l'indipendenza sono concetti largamente esasperati in Star Trek. L'Enterprise è solo una nave tra centinaia appartenenti alla Flotta Stellare, l'equilibrio può essere stabile o instabile, l'importante è che i personaggi non perdano mai la propria personalità, minacciata dai Borg e dai Cardassiani, le due razze veramente distopiche in un futuro largamente desiderabile.

La fantascienza è influenzata dagli astri, associati ad una struttura deterministica delle storie. In una delle scene più famose di Star Wars, il giovane Luke Skywalker mira il tramonto di Tatooine e la musica di sottofondo di John Williams sottolinea il suo incombente destino: diventare un cavaliere Jedi. In Star Trek, questi momenti sono limitati. Concetti come il destino e l'eroismo vengono annullati dalla morte apparentemente inutile della prima addetta alla sicurezza Tasha Yar in "Skin of Evil" ("La pelle del male"). In una puntata della settima stagione, "Parallels" ("Paralleli"), l'Enterprise interagisce con altre astronavi gemelle provenienti da dimensioni parallele, tra cui una in cui i Borg hanno assimilato quasi totalmente la razza umana. L'universo di Star Trek è dominato dal libero arbitrio, e sono le scelte di ogni personaggio a sconvolgere l'equilibrio. La minaccia incombe, tocca agli uomini e alla loro intelligenza riuscire a mantenere l'armonia che rende la serie godibile per chi l'ha già vista, per chi la sta recuperando adesso e per la prossima generazione di spettatori.

 

mercoledì 28 maggio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 28 maggio.

Il 28 maggio 2017 Francesco Totti gioca la sua ultima partita da professionista calciatore.

Francesco Totti nasce a Roma il 27 settembre 1976. Dimostra sin da piccolo grande confidenza con la sfera di cuoio. La sua prima squadra è la Fortitudo, piccola società del quartiere San Giovanni, dove vive la famiglia. Dalla Fortitudo di Trillò, Francesco passa alla Smit Trastevere, alla corte di Pergolati e Paolucci.

Il ruolo occupato in campo è quello di centrocampista, scelta quasi obbligata per i mister che hanno la fortuna di allenarlo, data la classe "pulita" che il giovane esibisce con estrema disinvoltura. Poi, nel 1986, il passaggio alla Lodigiani, primo passo importante verso il calcio che conta.

Totti è allenato prima da Mastropietro e poi da Emidio Neroni, due figure importanti dal punto di vista calcistico per il ragazzo.

Dopo altre due stagioni, la famiglia Totti viene sottoposta al dilemma: la Lodigiani fa presente che Francesco fa gola sia alla Roma che alla Lazio.

Nessuna esitazione per i romanistissimi genitori: il giovane calciatore di Porta Metronia approda a Trigoria nel 1989, iniziando la sua carriera in giallorosso, partendo dalle giovanili.

Il talento naturale di Francesco spinge i tecnici di tutte le rappresentative a convocarlo spesso. Nella stessa stagione gli capita di disputare partite con gli Allievi Nazionali e la Primavera (stagione 1991-1992) o addirittura di essere decisivo per la conquista dello scudetto sempre con gli Allievi pur giocando titolare nella Primavera e trovando comunque il modo di esordire in serie A (stagione 1992-1993). Boskov, infatti, lo nota a Trigoria nelle partite durante l' allenamento contro la prima squadra e lo fa esordire in Serie A contro il Brescia nella vittoria per 2-0 del 28 marzo 1993.

Da quel momento il rapporto fra Totti e la prima squadra andrà sempre in crescendo, anche se nel frattempo continua l'esperienza anche nelle giovanili azzurre. Anche in Nazionale le soddisfazioni non mancano: fin dall' Under 15 di Corradini passando per le rappresentative allenate da Sergio Vatta, Francesco trova il modo di mettersi in luce, toccando in seguito l'apice della sua carriera in azzurro con la conquista del titolo europeo Under 21 con Cesare Maldini, battendo in finale la Spagna ai calci di rigore (31 maggio 1996).

Pochi mesi prima Totti aveva conosciuto il sapore di una convocazione nella Nazionale maggiore: Arrigo Sacchi lo aveva convocato per uno stage alla Borghesiana (febbraio 1996), regalandogli parole di grande stima e considerazione.

Tornando alla Roma, nel 1994 a Trigoria arriva Carletto Mazzone, uomo che lancerà definitivamente Francesco sul grande palcoscenico del calcio che conta e che per lui resterà sempre un punto di riferimento importante, un secondo padre a cui chiedere consiglio nei momenti difficili.

Il 4 settembre 1994 arriva il suo primo gol con la casacca dei "grandi": all'olimpico, davanti al pubblico del quale fino a pochi anni prima faceva parte, in veste di piccolo tifoso, segna contro il Foggia.

Forse è quello il vero inizio della favola del numero dieci della Roma, favola che ha conosciuto anche momenti difficili come la scarsa considerazione di Carlos Bianchi, l'allenatore argentino che non lo "vedeva" (che lo stava per cedere alla Sampdoria), ma che ha trovato la sua più splendida continuazione nel biennio-Zeman: proprio il tecnico boemo, altra figura importantissima nella Totti story, valorizza al massimo il bagaglio tecnico del trequartista inserendolo a sinistra nel tridente di attacco. E' il boom: tutti, anche i più scettici, ammettono di trovarsi davanti ad un vero fenomeno del calcio internazionale e lui risponde a suon di gol e di premi vinti per le altissime medie voto mantenute su tutti i quotidiani per tutto l'arco del campionato.

Con l'arrivo di Fabio Capello la Roma ha conosciuto un'annata di transizione che ha coinvolto lo stesso Totti, peraltro vittima di un infortunio ad inizio stagione che ne ha pregiudicato il rendimento per alcuni mesi. Il capitano giallorosso, comunque, ha mantenuto un rendimento ben al di sopra degli standard del resto del campionato, confermandosi uomo assist e leader anche nei momenti più difficili.

La convocazione di Dino Zoff per Euro 2000 e la conquista di una maglia da titolare con gli azzurri confermano la stagione comunque positiva di Francesco. E infatti l'europeo giocato in Belgio e Olanda rappresenta per Francesco la definitiva consacrazione internazionale, dopo le splendide prove offerte soprattutto proprio contro il Belgio (suo il gol di testa che spiana la strada alla vittoria azzurra), contro la Romania (altro gol che sblocca il risultato) e in finale contro la Francia di Zidane.

Due momenti esaltanti dell'estate nei Paesi Bassi: il colpo di tacco che ha dato via all'azione per l'illusorio vantaggio azzurro di Delvecchio e soprattutto l'ormai leggendario rigore a cucchiaio tirato contro l'Olanda nella semifinale giocata all'Amsterdam Arena. Un gesto tecnico e di freddezza che ha strabiliato tutto il mondo.

La carriera di Francesco continua all'insegna dei successi con la squadra giallorossa: la conquista del terzo scudetto nella stagione 2000/2001 e le prodezze in Champions League. Anche in Nazionale entusiasma i tifosi e indossando la maglia numero 10 è il perno inamovibile dell'attacco azzurro.

Per capire quanto sia amato dal popolo giallorosso è sufficiente assistere, allo stadio olimpico di Roma, ad una delle pochissime occasioni in cui viene sostituito. Lo speaker Carlo Zampa ordina: "Popolo giallorosso, in piedi. Esce il capitano". E 70 mila persone compongono una fragorosa standing ovation.

Di lui Pelé' ha detto:

Totti è uno dei più grandi artisti del calcio moderno.

Francesco Totti è un ragazzo di grande sensibilità ed in questi anni è spesso impegnato in opere di solidarietà e beneficenza. Un altro personalissimo record è stato quello di vendita (estate 2003) del "suo" libro "Tutte le barzellette su Totti (raccolte da me)", i cui proventi sono stati destinati all'Unicef e al servizio "Teleassistenza e Telesoccorso" del Comune di Roma.

Il 19 giugno 2005 Francesco Totti ha sposato la nota presentatrice tv (ex-letterina) Ilary Blasi: la cerimonia è stata seguita in diretta da Sky TG24 e i proventi derivati dell'esclusiva sono stati destinati dalla coppia per opere benefiche.

Dopo un infortunio che sembrava doverlo tenere a lungo lontano dai campi, Francesco compie un recupero straordinario in vista dei mondiali di Germania 2006; sebbene non brillerà il suo apporto sarà di fondamentale importanza per la storica conquista della coppa del mondo. Nel mese di luglio del 2007 Totti dichiara di volersi ritirare dalla Nazionale per poter affrontare al meglio gli impegni con il club giallorosso. Con la Nazionale Italiana ha totalizzato in carriera 58 presenze e 9 reti.

Guidata dal tecnico Rudi Garcia, la Roma chiude le stagioni 2013-2014 e 2014-2015 al secondo posto, alle spalle della Juventus: Francesco Totti segna 8 reti in ognuno dei due campionati.

Nella stagione 2014-2015, alla fine del mese di settembre 2014, segna un gol nella seconda giornata della fase a gironi della UEFA Champions League contro il Manchester City. Totti stabilisce così un particolare record: a 38 anni e 3 giorni è il giocatore più anziano a segnare una rete in questa competizione (superando il gallese Ryan Giggs).

L'11 gennaio 2015 raggiunge quota 11 gol in 40 partite nella stracittadina, diventando il miglior marcatore nel derby di Roma sia in campionato sia in gare ufficiali. Il 20 settembre 2015, grazie alla rete segnata contro il Sassuolo, raggiunge quota 300 reti in carriera con la Roma considerando tutte le competizioni.

Dà l'addio alla maglia giallorossa in una commovente giornata, applaudita da ogni sportivo, il 28 maggio 2017. Francesco Totti ha giocato complessivamente 889 partite e segnato 334 gol fra squadra di club e Nazionali, di cui 307 con la maglia della Roma e 27 con le varie selezioni Nazionali italiane.

Dopo il ritiro diventa dirigente della Roma. Abbandona la carica il 17 giugno 2019, fortemente amareggiato, a causa di divergenze con la società.

martedì 27 maggio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi

 

Buongiorno, oggi è il 27 maggio.

Il 27 maggio 1993, a Firenze in via dei Georgofili, una bomba esplode e compie una strage.

Persero la vita in cinque in quella notte tra il 26 e il 27 maggio del 1993: Angela Fiume e Fabrizio Nencioni, le loro figlie Nadia e Caterina di nove anni e due mesi, lo studente di architettura Dario Capolicchio di Sarzana. Ma la bomba provocò anche quarantuno feriti, sventrò la torre dove ha sede l'Accademia dei Georgofili, causò ingenti danni al museo degli Uffizi, a Palazzo Vecchio, alla chiesa di S. Stefano, al Ponte Vecchio e alle abitazioni tutt'attorno, lasciando moltissime famiglie senza un tetto. A ordinare la strage, come altre bombe che esplosero nello stesso anno a Roma e Milano, fu Cosa Nostra, che voleva così condizionare il funzionamento degli istituti democratici e lo svolgimento della vita civile del paese. A Firenze, come nel resto d'Italia, la risposta fu compatta e la condanna ferma e senza possibilità di appello.

Le indagini ricostruirono l'esecuzione della strage di via dei Georgofili in base alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Pietro Carra, Vincenzo e Giuseppe Ferro, Salvatore Grigoli, Antonio Calvaruso, Pietro Romeo e Vincenzo Sinacori. Nel 1998 Giuseppe Barranca, Gaspare Spatuzza, Cosimo Lo Nigro, Francesco Giuliano, Giorgio Pizzo, Gioacchino Calabrò, Vincenzo Ferro, Pietro Carra e Antonino Mangano vennero riconosciuti come esecutori materiali della strage nella sentenza per le stragi del 1993.

Nel 2008 Spatuzza iniziò a collaborare con la giustizia e confermò le sue responsabilità nell'attentato di via dei Georgofili: in particolare, Spatuzza dichiarò che la strage venne pianificata durante una riunione in cui erano presenti lui, Barranca e Giuliano insieme ai boss Giuseppe Graviano, Matteo Messina Denaro e Francesco Tagliavia (capo della Famiglia di Corso dei Mille), i quali decisero l'obiettivo da colpire attraverso dépliant turistici; inoltre Tagliavia finanziò anche la "trasferta" a Firenze per compiere l'attentato. In seguito alle dichiarazioni di Spatuzza, nel 2011 la Corte d'assise di Firenze condannò Tagliavia all'ergastolo.

Sempre sulla base delle dichiarazioni di Spatuzza, nel 2012 la Procura di Firenze dispose l'arresto del pescatore Cosimo D'Amato, cugino di Cosimo Lo Nigro, il quale era accusato di aver fornito l'esplosivo, estratto da residuati bellici recuperati in mare, che venne utilizzato in tutti gli attentati del 1992-1993, compresa la strage di via dei Georgofili. Nel 2013 D'Amato venne condannato all'ergastolo con il rito abbreviato dal giudice dell'udienza preliminare di Firenze. Sempre nel 2013 l'Associazione tra i familiari delle vittime della Strage di via dei Georgofili, presieduta da Giovanna Maggiani Chelli, è ammessa come parte civile al processo sulla Trattativa Stato-mafia ed è rappresentata da Danilo Ammannato in qualità di avvocato. Il 20 maggio del 2016, da alcuni stralci delle motivazioni depositate dalla seconda Corte d’Assise di Appello di Firenze nel processo contro Tagliavia, si evince che “Lo Stato – avviò una trattativa con Cosa nostra”, che “indubbiamente ci fu e venne quantomeno inizialmente impostata su un do ut des” per interrompere la strategia stragista di Cosa nostra. E “l'iniziativa - precisano - fu assunta da rappresentanti dello Stato e non dagli uomini di mafia”.

A Corleone, il 17 novembre 2018, è stato inaugurato l'asilo nido comunale ristrutturato e intitolato alla memoria di Caterina e Nadia Nencioni.

lunedì 26 maggio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 26 maggio.

Il 26 maggio 1868 si conclude il processo per impeachment a carico del presidente americano Andrew Johnson.

Andrew Johnson divenne presidente degli Stati Uniti il 15 aprile 1865, dopo l'assassinio di Abraham Lincoln da parte di John WIlkes Booth. Johnson, come il suo predecessore, era favorevole a una riunificazione rapida del Paese. Stabilì l'amnistia per tutti i i confederati ad eccezione degli ufficiali di grado più elevato e dei capi militari, e consentì agli Stati secessionisti di formare un nuovo governo ed inviare i propri rappresentanti al Congresso, qualora almeno un decimo dei votanti dei singoli Stati avesse avallato la lealtà verso gli Stati Uniti. Inoltre, il Presidente Johnson si oppose fermamente sia ai diritti civili che di suffragio per gli schiavi ora diventati uomini liberi. Questa posizione gli inimicò i Repubblicani Radicali al Congresso, che lo dipingevano come un simpatizzante confederato, al pari di Andrew Jackson,  temendo un ritorno di fatto, anche se non di nome, alla schiavitù ante guerra civile, se non si fosse tenuto d'occhio il presidente.

Dopo molti tentativi di circoscrivere i poteri del presidente, il 3 marzo 1867 fu ratificata la legge del "Tenure of Office Act". Stabiliva che chiunque, esclusi i membri del governo "abbia un incarico pubblico su mandato del Senato ... ha il diritto di mantenere tale incarico finché un sostituto qualificato non venga allo stesso modo nominato a svolgere tale incarico". La legge aveva l'intento di impedire che il Presidente degli Stati Uniti potesse rimuovere dei dirigenti federali senza l'approvazione del Senato. La Casa Bianca tentò di boicottare la legge, sostenendo che un Presidente deve nutrire fiducia nei suoi consiglieri, e che qualsiasi consigliere che perda la fiducia del presidente (politica o personale) dovrebbe essere rimosso senza perdite di tempo, ma il Senato prevalse e l'Act passò nonostante il veto di Johnson.

Indipendentemente dal fatto che il Tenure of Office Act fosse stato promulgato per forzare il Presidente in una situazione di impeachment o che fosse effettivamente stato concepito per salvaguardare gli interessi di una nazione divisa e convalescente, non passò molto prima che Johnson lo infrangesse. Il 12 agosto 1867 il Presidente allontanò Edwin Stanton, segretario alla guerra, per (tra le altre cose) il suo supporto al piano di ricostruzione dei Repubblicani Radicali. Al suo posto, Johnson nominò il Generale Ulysses Grant, colui che fu il capo supremo delle forze armate confederate. Il Congresso si riunì, impedì la nomina e il generale Grant si dimise, così che Stanton tornò al suo posto.

Il 21 febbraio 1868 il Presidente Johnson licenziò formalmente Edwin Stanton e il 24 dello stesso mese il Congresso votò per l'empeachment, con 126 favorevoli e 47 contrari. Il processo iniziò il 13 marzo presieduto dal Giudice della Corte Suprema Salmon Chase e durò 8 lunghe settimane. Alla fine il Presidente Johnson si salvò per appena un voto, ma il suo potere da allora si rivelò irreparabilmente compromesso.


domenica 25 maggio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 25 maggio.

Il 25 maggio 1979 esce nella sale americane il film "Alien" di Ridley Scott.

Nel 1979 il mondo era ancora a bocca aperta felicemente sconvolto dalle gesta eroiche di Luke Skywalker, di Han Solo, della Principessa Leia e del wookie Chewbacca. Sognava quella galassia lontana lontana dove alieni ed esseri umani convivevano lottando contro il malvagio Impero Galattico o cercando in tutti i modi di guadagnarsi le grazie dell'Oscuro Signore dei Sith.

Nel 1979 quando si pensava agli alieni o la mente correva alla variopinta galassia di Guerre Stellari, o recitava a memoria la melodia di Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo oppure si rivolgeva alla gloriosa filmografia di qualche decennio prima dove i grandi classici erano gli unici ad aver esplorato le profondità del cosmo e i terrori che queste nascondevano.

Ma le cose stavano per cambiare: usciva nelle sale Alien.

2122. Mentre è sulla via del ritorno per la Terra con un carico molto, molto costoso l'equipaggio della nave rimorchio Nostromo viene risvegliato dall'ipersonno a seguito di un segnale proveniente dal vicino pianeta LV-426. MOTHER, il computer di bordo, ha intercettato la strana trasmissione e ha deciso di interrompere la stasi dell'equipaggio: la Compagnia per cui l'intero equipaggio lavora ha un regolamento molto preciso. Ogni segnale anomalo non può essere ignorato e anzi, è preciso dovere del capitano Dallas (Tom Skerritt) controllare di cosa si tratta.

Dallas, Kane (il compianto John Hurt) e Lambert (Veronica Cartwright) scendono sulla superficie ben poco ospitale dell'LV-426 e scoprono che il segnale proviene da un grosso manufatto alieno. Un'astronave? Probabilmente sì. All'interno trovano il cadavere di un grande alieno umanoide, ucciso da qualcosa che sembra essere uscito dall'interno del corpo e soprattutto un grande stanza piena di grosse e misteriose uova.

Kane si avvicina a una di queste uova e una creatura tutta zampe e tentacoli lo aggredisce uscendo proprio dagli involucri organici. L'essere perfora  l'elmo di Kane, si incolla al volto dell'uomo, e lo strangola dandogli al tempo stesso l'ossigeno necessario per vivere. Toglierlo è impossibile, possiede un inarrestabile acido organico al posto del sangue.

L'incubo sta per iniziare.

"Ancora non hai capito con che cosa hai a che fare, vero? Un organismo perfetto. La sua perfezione strutturale è pari solo alla sua ostilità. "

Da qui in avanti, è puro terrore. Le parole con cui l'ufficiale scientifico Ash (Ian Holm) definirà la creatura portata sull'astronave risuonano come un'implacabile sentenza. L'essere a forma di ragno morirà spontaneamente non prima di aver impiantato qualcosa dentro Kane, un embrione che si svilupperà in fretta liberandosi dal petto di Kane nella terribile sequenza della cena. 

Kane morirà. La piccola creatura fuggirà tra i corridoi oscuri della Nostromo pronta a completare la sua evoluzione. In poche ore crescerà diventando, come lo definirà Ash, "Un superstite... non offuscato da coscienza, rimorsi, o illusioni di moralità". Un superstite alto più di due metri, dotato di artigli e zanne micidiali e con un solo obiettivo: sterminare l'equipaggio della Nostromo.

Solo Ellen Ripley (una straordinaria Sigourney Weaver) riuscirà a opporsi alla furia dello xenomorfo. La battaglia costerà la vita a tutto l'equipaggio, svelerà i piani della Compagnia (secondo la quale tutti i membri della nave sono "Equipaggio sacrificabile.") e rivelerà la vera natura di Ash: un androide al servizio della Compagnia che poco ha a cuore le sorti di Dallas e compagni.

"Nello spazio nessuno può sentirti urlare".

Nel 1979 Ridley Scott aveva 42 anni e Alien era il primo film di fantascienza con il quale il regista si misurava e probabilmente questo fu uno dei fattori che determinarono il successo della pellicola anche se all'epoca l'accoglienza da parte della critica non fu unanime. Qualcuno criticò Alien perché portatore di troppi elementi che esulavano dalla fantascienza di Guerre Stellari e di 2001: Odissea nello Spazio ma col tempo fu proprio questa caratteristica che contribuì a renderlo uno dei migliori film della storia del cinema.

A conti fatti il capolavoro di Ridley Scott si può ascrivere a più categorie (e infatti lo troviamo nella top ten di diverse classifiche di genere). È senza alcun dubbio un film di fantascienza con alcuni elementi molto forti a partire dalla misteriosa Compagnia Weyland-Yutani che diventerà vera eminenza grigia di tutto il franchise, passando per l'androide Ash e finendo con l'intelligenza artificiale della Nostromo, la fredda MOTHER. È un thriller claustrofobico dove il maniero spettrale o la casa infestata sono sostituiti dalla gotica astronave, dai suoi corridoi oscuri e umidi, dai cunicoli stretti e micidiali come i peggiori passaggi segreti. È un film horror perché la creatura, un vero e proprio mostro, uccide in modo sanguinoso, spietato, inarrestabile. E a tal proposito ...

Molto del successo di certi generi cinematografici dipende dalla potenza, dal fascino e dalla grandezza del cattivo. Guerre Stellari ha in Darth Vader (o Fener) la sua più grande e rappresentativa icona, un cattivo furioso e inarrestabile che diventa catalizzatore di successo. Alien deve molto del suo successo a questa caratteristica raddoppiando di fatto gli antagonisti del film. C'è Ash, ambiguo e subdolo fino alla fine, un cattivo concettuale agli ordini della Compagnia che subisce, di fatto, anche il fascino del vero nemico. L'ammirazione dell'androide per l'alieno è di una forza prorompente: quale perfezione deve raggiungere una creatura selvaggia come lo xenomorfo per prendere il posto dell'uomo nella scala evolutiva di Ash?

E poi c'è lui, l'alien. Nato dalla mente dell'artista Hans Rudolf Giger (purtroppo scomparso nel 2014) e realizzato in collaborazione col grande Carlo Rambaldi (scomparso nel 2012, vinse l'Oscar proprio per Alien), lo xenomorfo è un concentrato di eleganza e inquietudine. Tutto nelle sue forme è terrore assoluto: la doppia bocca, le forme metalliche ma al tempo stesso organiche, il cranio lungo e lucido, gli artigli e la coda. È a suo modo sensuale (tutto il film ha una sottotraccia che flirta con la vita, la sua genesi e un inquietante erotismo distorto), ma terrificante. Nega la biologia umana contrapponendosi all'uomo, ma poi la migliora e la completa diventando il culmine dell'evoluzione per come la conosciamo. Alien è orrore e fascino.

Perché Alien è un film che ancora oggi può fare scuola? Perché proprio come ne Lo Squalo (1975) di Spielberg, il mostro non viene mostrato subito. La costruzione è lenta, asfissiante nella sua capacità di creare tensione: siamo certi succederà qualcosa di terribile ma non sappiamo quando questo avverrà. I colori bui della Nostromo, una costante tensione tra i membri dell'equipaggio, l'astronave aliena sull'LV-426 così grande e al tempo stesso così asfissiante. Scott gioca al meglio le sue carte usando gli ambienti come fossero un personaggio del film, sfruttandoli per aggiungere carisma alla rivelazione dell'alieno. Che è lenta e in crescendo.

Prima il face-hugger che esce dall'uovo nel primo, vero picco di tensione del film. Poi quando le cose sembrano essere tornate alla normalità, quando l'equipaggio ride e scherza durante una cena, ecco che Scott pigia l'acceleratore presentandoci per la prima volta il suo mostro. Se è vera la legge del cinema per cui una delle cose fondamentali è come un personaggio entra in scena, qui Scott compie un vero e proprio miracolo: l'Alien si mostra dilaniando il povero Kane. La sua nascita, uccide. Poi il regista decide di non esagerare mai. Sfruttando la Nostromo e la sua oscurità, rende ancora più credibile l'eccelso lavoro datto da Giger e Rambaldi nella creazione del mostro. Ecco perché Alien è un film che invecchia benissimo.

Alien non è solo il capostipite di un franchise dalle potenzialità sconfinate (fumetti, spin-off, videogiochi, sequel e prequel incarnati da Prometheus e Alien: Covenant), ma ha anche ispirato personaggi e situazioni. Ellen Ripley per esempio è uno dei primi e principali personaggi femminili che escono dal consumato e stantio cliché della donna in pericolo che aspetta di essere salvata. È un personaggio completo e complesso, capace di determinarsi e carismatico. Non è un caso che il personaggio di Legs Weaver del fumetto Nathan Never tragga ispirazione da Ripley (Weaver, il cognome del personaggio, è un omaggio a Sigourney Weaver).

La grandezza di Alien poi è anche in tutti i piccoli dettagli che si incastrano nella periferia del mosaico narrativo composto da Scott. Se la narrazione è incentrata sulla lotta tra lo xenomorfo e l'equipaggio, tutto intorno ci sono temi profondi e inquietanti. La Compagnia e il suo cinismo economico. L'androide Ash e il pericolo delle forme di vita sintetiche. La creazione e la genesi: poco si sa dell'alieno ma appare da subito evidente che potrebbe essere stato creato. Gli alieni sull'LV-426, la loro provenienza, il perché si trovano lì. Tante, tantissime cose che si infilano sotto pelle finendo col trasmettere l'inequivocabile certezza che Alien è molto di più di ciò che appare.

Ecco perché Alien non è solo un film ma una pellicola eterna.

sabato 24 maggio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 24 maggio.

Il 24 maggio 1738 viene fondata la Chiesa Metodista.

Il metodismo, o movimento metodista fu fondato dal pastore anglicano John Wesley nel XVIII secolo. L’intenzione di Wesley era originariamente quella di creare un movimento di risveglio all’interno della Chiesa anglicana che portasse a una maggiore attenzione agli evidenti problemi sociali della Gran Bretagna all’epoca della rivoluzione industriale; solo in seguito il metodismo assunse i connotati di dottrina indipendente dalla matrice anglicana. Il movimento metodista si diffuse velocemente in Gran Bretagna e in Nord America; da segnalare Richard Allen, fondatore della Chiesa metodista episcopale africana. Un esempio di organizzazione metodista, ma indipendente dalle altre matrici protestanti ed evangeliche, è l’Esercito della Salvezza (EdS), che si dedica principalmente all’aiuto agli emarginati, senza tetto, alcolizzati, tossicodipendenti, prostitute. Attualmente la chiesa metodista è presente in quasi tutti i paesi e conta oltre settanta milioni di fedeli.

Una delle caratteristiche del Metodismo (e con l’unione anche del Valdismo italiano) è l’avere oltre ai pastori, uomini e donne, un rilevante numero di predicatori locali, che ricevono una accurata preparazione teologica che in seguito esercitano con la predicazione nelle comunità. Sebbene le donne non avessero inizialmente accesso al ministero pastorale, Wesley dimostrò la propria propensione in questo senso consentendo subito che le donne predicassero pubblicamente, atteggiamento decisamente progressista nella società del Settecento, e presto anche nella chiese italiane le donne hanno cominciato a servire la Chiesa nei vari ministeri. Fra le opere sociali create e amministrate dalla comunità metodista si contano numerose scuole, ospedali e centri di accoglienza in moltissimi paesi del mondo.

La dottrina metodista può essere riassunta in alcuni insegnamenti di Wesley che derivano proprio dal suo impegno pratico verso i diseredati e gli emarginati dalla società: « La rivelazione dell’amore di Dio per l’uomo è una verità interiore che si palesa nell’esperienza della carità umana » Il significato di questo motto è che l’insegnamento incarnato nel Cristo – che Dio ha amato l’uomo indipendentemente da quello che egli è – deve essere letto come valore sociale e impegno di vita per tutti i fedeli, che sono tenuti a esprimere la loro fede attraverso l’azione sociale.

Distinguere l’opera missionaria e sociale di Wesley e del suo movimento dal suo pensiero teologico, dunque, non è possibile; le due cose sono esplicitamente dichiarate come interdipendenti. Secondo i metodisti Dio ha dato tutto (dottrina teologica) e tutti i fedeli devono dare (impegno sociale). Si pone un collegamento indissolubile tra la salvezza ricevuta da Dio come dono gratuito in Cristo e la salvezza, soprattutto materiale, offerta come dono riconoscente al fratello.

Tutti i cristiani — protestanti, cattolici, ortodossi — credono che il Dio creatore dell’universo si è fatto conoscere all’umanità per mezzo di Gesù Cristo, «morto per i nostri peccati e risuscitato per la nostra giustificazione»; al quale la Bibbia rende una testimonianza unica ed essenziale. Ritengono anche che il Cristo risorto ha raccolto una comunità di credenti (la chiesa), che gli rende testimonianza con la sua vita e ne annunzia l’opera in ogni generazione. Tutte le confessioni cristiane hanno in comune il Credo e il Padre nostro. Le differenze sono relative soprattutto al ruolo e all’autorità della chiesa e dei suoi ministri (o sacerdoti), all’importanza data ai sacramenti e a talune devozioni particolari, come il culto reso ai santi o a Maria, che i protestanti non accettano.

Le chiese valdesi e metodiste sono chiese cristiane che fanno parte della grande famiglia protestante (o evangelica). Il protestantesimo vive e confessa la fede cristiana attenendosi all’essenziale, sotto il controllo costante della Bibbia e del suo messaggio. È nato nel Cinquecento come risposta a un forte appello, rivolto all’intera chiesa cristiana, a tornare alla purezza e alla coerenza evangelica, «riformandosi» ed eliminando abusi ed errori. Su questo invito a riformarsi, la chiesa del tempo si divise. Attorno a teologi come Lutero, Zwingli, Calvino e altri, molti si raccolsero per realizzare riforme locali, in attesa e nella speranza di un generale rinnovamento spirituale, sociale ed ecclesiastico. Nacquero così, soprattutto nell’Europa del centro e del nord, diverse chiese protestanti: luterane, riformate, anglicana, cui si aggiunsero più tardi battisti e metodisti. In altri paesi la Riforma protestante fu soppressa con la forza. La cristianità europea nel suo complesso rimase spaccata in due e la linea di separazione fra l’Europa cattolica e quella protestante fu spesso segnata da una frontiera di sangue. Fu solo in epoca recente che le chiese impararono a riconoscersi in una comune fede cristiana, anche se le divisioni permangono a tutt’oggi. I protestanti tengono a sottolineare con forza la loro dimensione insieme cristiana ed ecumenica e la loro specifica vocazione di chiesa che, aperta al dialogo e alla collaborazione con le altre chiese, mantiene fermo il suo riferimento biblico centrale e la sua struttura di chiesa senza mediazioni né gerarchie.

La forte fioritura protestante (luterana, riformata, anabattista) della prima metà del Cinquecento non trovò altro sbocco in Italia che la scelta fra il rogo e l’emigrazione. La sola eccezione fu quella dei valdesi, che esistevano fin dalla fine dell’XI secolo come dissidenza cristiana di dimensione europea e che nel 1532 erano confluiti nella riforma svizzera (diventando una chiesa riformata in senso stretto). I valdesi sopravvissero a sanguinose persecuzioni e ad un tentativo di sterminio totale nel 1686. Nell’Ottocento, Valdesi e metodisti, insieme alle altre chiese evangeliche che nel frattempo erano sorte in Italia, dettero un contributo al Risorgimento e al rinnovamento spirituale e religioso del paese, creando una rete di comunità dalle Alpi alla Sicilia. Un forte nucleo di valdesi esiste in Uruguay e Argentina, che forma con i valdesi e metodisti italiani un’unica chiesa.

Valdesi e metodisti sono in Italia circa 30.000 con un centinaio di comunità e altrettanti pastori, di cui quasi il 20% sono donne. Hanno un’organizzazione democratica della chiesa e si impegnano come cittadini e cittadine per uno Stato laico che sia garante di un reale pluralismo delle fedi e delle culture. Sono caratterizzati da una forte motivazione etica e sociale e dallo sforzo di uniformare al dettato evangelico la loro vita personale e associata. Dal 1979 sono uniti nello stesso Sinodo; nel 1984 hanno stipulato una Intesa con lo Stato che ne garantisce la libertà di culto e di azione nei campi della assistenza, della solidarietà sociale, dell’educazione e della cultura. Dal 1993 il nome della «Chiesa Evangelica Valdese, Unione delle Chiese Metodiste e Valdesi» è stato incluso fra gli Enti di culto che hanno accesso alla ripartizione dell’8 per mille dell’Irpef. Valdesi e Metodisti destinano la loro quota dell’8 per mille esclusivamente ad attività di assistenza e di promozione sociale e culturale; non alle normali attività di culto, di predicazione e di formazione, che sono autofinanziate. Sul piano culturale hanno a Roma una Facoltà di teologia, a Torino la Casa editrice Claudiana e Centri culturali nelle principali città. Oltre agli ospedali e a diversi istituti di accoglienza per anziani, bambini, ecc., le chiese valdesi e metodiste gestiscono centri sociali di forte impegno sul territorio come quelli de La Noce (Palermo), del Servizio Cristiano (Riesi-CL) e di Casa Materna (Portici-NA). Valdesi e metodisti fanno parte della Federazione delle chiese evangeliche in Italia, che gestisce importanti attività comuni, come il Servizio istruzione ed educazione, il Servizio rifugiati e migranti, la rubrica televisiva di Raidue «Protestantesimo», il culto radio della domenica mattina su Radiouno e il servizio stampa «Nev».

venerdì 23 maggio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 23 maggio.

Il 23 maggio 1873 il parlamento canadese istituisce il corpo della Polizia a cavallo del Nord Ovest, oggi più conosciuto come il corpo delle "Giubbe Rosse".

Sono poche  le  figure che  simboleggiano un  paese in modo tanto efficace,  quanto la fa un  Mountie  in divisa e cappello a tesa larga e rigida.  

Le “ Red Coatse”  (Giubbe Rosse),  furono costituite Ufficialmente nel 1873 come  corpo militare a cavallo . Nacquero  dalla fusione della Nord West Muonted Police (NWMP) con la  Polizia Dominion, l’intento era quello di  portare  ordine e legalità negli sconfinati  territori del Nord Ovest (più o meno gli attuali Saskatchewan – Alberta-Manitoba) , sui quali la sovranità  dello stato era solo formale,  ma  anche e soprattutto,  per  contrastare i  tentativi espansionistici da parte degli USA.

Vi erano infatti in quest’area, continui sconfinamenti  da parte di cacciatori, mercanti  e avventurieri di ogni  genere  provenienti dagli US,   che avevano addirittura cominciato a porvi degli insediamenti permanenti, come centri  fortificati e piccoli villaggi, dove non era infrequente vedere sventolare la bandiera a stelle e strisce.  Uno di questi insediamenti  fu  Fort Whoop-up, dove si concentrò un  folto gruppo di avventurieri statunitensi (soprattutto trafficanti di alcool e cacciatori di lupi e bisonti);  nel giro di poco tempo resero aspro e difficile il rapporto con le locali tribù indiane attuando un vero e proprio stillicidio a danno di quest’ultimi e divenendo in breve una vera e  propria spina nel fianco nel giovane Governo  Canadese.

Fu proprio a seguito di una ennesima scorreria, conclusasi con un massacro di alcuni indiani della tribù degli Assiniboine nel 1873, in una località denominata Cypress Hill, (tra l'Alberta e l’attuale  Sasktchewan), da parte di una banda di cacciatori provenienti  appunto da Fort Whoop-up, che il primo ministro Canadese, Joh A. Macdonald, decise di far propria la proposta del colonnello Robertson-Ross e di istituire un corpo di polizia a cavallo che operasse in questi territori, e scongiurasse soprattutto  una guerra indiana provocata dalle continue scorrerie degli avventurieri “yankees”.

Nacque cosi il mito delle GIUBBE ROSSE.

Storia e leggenda si intrecciano in una unica inestricabile matassa,  certo è che  i Mountie  si guadagnarono sul campo la  reputazione di impavidi  e imparziali amministratori della giustizia.

Un capo Blackfoot  ebbe a dire “…. la polizia ci ha protetto come le piume di un uccello ne proteggono il corpo dal gelo e dall’inverno” .

La storia o la leggenda narra di un  rapporto con  gli Indiani  (o aborigeni locali come oggi sono definiti) basato su un reciproco rispetto e fiducia. La leggenda narra di un incontro “epico” tra  Toro seduto e un impavido Maggiore (Walsh) che con solo sei militari si presentò al cospetto del grande capo,  informandolo della costituzione del nuovo corpo di polizia e degli scopi da esso perseguiti,  e di come da questo incontro nacque la reciproca stima tra due mondi cosi lontani tra di loro.

Il biografo  Grant MacEwan  racconta  di questo  avvenimento sottolineando come  Toro Seduto alla spiegazione dell’impavido Maggiore Walsh,  che chiarisce  al grande Capo il ruolo delle neonate Giubbe Rosse  e  come queste applicheranno la legge,  punendo coloro i quali la dovessero infrangere “…… siano essi bianchi neri o marroni…. “  abbia sorriso ma poi, apprezzando la lealtà degli intenti,  organizzato un incontro con il Consiglio dei Sioux , per una spiegazione completa delle leggi Canadesi. 

Grazie ai personaggi come il Maggiore Walsh la colonizzazione delle terre  occidentali poté procedere in modo pacifico e incruento.

La leggenda delle Giubbe Rosse,  accompagna la storia  del Canada sino ai nostri giorni.

La RCMP  oggi è la forza di polizia, unica nel suo genere al mondo,  ad avere  competenze federali, provinciali e comunali. Fornisce servizio federale di polizia a tutti i Territori del Canada e  se si escludono le province del Quebec e  dell’Ontario, che mantengono le loro forze provinciali,  le altre province contano per la maggior parte sull’attività delle Giubbe Rosse.

E' un corpo di polizia modernamente organizzato la cui competenza include il controllo della criminalità organizzata, il terrorismo, la droga, i reati economici e i pericoli che minacciano l’integrità dei confini nazionali del Canada. 

Difficile vedere oggi  un Mountie  in Giubba Rossa,  ma se  si è d’estate a Regina (attuale  Capitale del  Saskatchewan) nei giorni della settimana alle ore 12,45,  ha luogo la cerimonia  del sergente Maggiore  Drill; inoltre  ogni martedì sera nei mesi di luglio e agosto, si svolge lo spettacolo della Sunset Retreat quando la bandiera viene abbassata.

Nonostante  questa leggendaria storia, la RMCP  è stata  più volte al centro di critiche nazionali e  internazionali,  qualcuna piuttosto recente che  è costata le  dimissioni del commissario Nazionale che (curiosità) era di origini italiana. 

giovedì 22 maggio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 22 maggio.

Il 22 maggio 2010 l'Inter a Madrid vince la sua terza Champions League dopo aver vinto anche campionato e coppa Italia. Diventa così l'unica squadra italiana ad aver mai fatto il cosiddetto "triplete".

Se c’è un anno che i tifosi dell’Inter ricorderanno sempre con un sentimento misto tra l’idolatria e la nostalgia è senza dubbio il 2010, stagione in cui José Mourinho condusse la propria creatura a un traguardo storico e tutt’ora ineguagliato in Italia: il Triplete, ossia la contemporanea conquista di Champions League, scudetto e Coppa Italia. Il godimento dell’ambiente nerazzurro per l’annata più vincente della sua storia ha raggiunto picchi talmente elevati da riuscire quasi ad offuscare il decennio successivo, totalmente avaro di soddisfazioni. Andiamo dunque a ripercorrere le tappe di un’impresa destinata a rimanere eterna.

L’Inter del 2009/10 era una squadra ormai abituata a dominare in Italia, dove aveva conquistato gli ultimi tre scudetti, e alla quale si chiedeva soprattutto il salto di qualità in Europa, dove negli ultimi cinque anni non aveva mai superato i quarti di finale. La prima stagione di Mourinho sulla panchina nerazzurra non si era discostata dalla precedente gestione Mancini, finendo con la vittoria agevole del campionato e con l’eliminazione agli ottavi di Champions League per mano del Manchester United. Ecco allora che nell’estate del 2009 la dirigenza optò per un grosso rinnovamento della rosa: fuori Zlatan Ibrahimovic, fino ad allora catalizzatore e al contempo principale finalizzatore del gioco, dentro Samuel Eto’o, Lucio, il duo genoano Thiago Motta-Diego Milito e il colpo last-minute Wesley Sneijder. Apparentemente un buon mercato ma nulla di eccezionale, o almeno così sembrava a inizio stagione.

Sul piano tattico soltanto con il passare dei mesi lo Special One arrivò alla soluzione definitiva, quantomeno a livello europeo. Lo schieramento che diede maggiori garanzie fu un 4-2-3-1 apparentemente molto spregiudicato ma in realtà equilibrato dal duro lavoro degli esterni d’attacco, capaci all’occorrenza di trasformarsi in veri e propri terzini aggiunti. In particolare, uno dei successi di Mourinho fu convincere un centravanti come Eto’o a sacrificarsi in questo ruolo non suo, costringendolo a percorrere tanti metri in fascia e a perdere contatto con la porta pur di apportare beneficio alla squadra. In fase offensiva l’Inter si appoggiava tanto su Sneijder, trequartista naturale in grado di illuminare la manovra e di velocizzarla secondo il principio cardine della verticalità, e su Maicon, nominalmente un terzino ma di fatto un’esterno a tutta fascia, debordante tanto fisicamente quanto tecnicamente; il terminale primario era Milito, che visse una stagione di grazia nella quale riuscì a realizzare la bellezza di 30 reti, molte delle quali decisive. La principale forza di quella squadra era però indubbiamente la solidità difensiva, garantita da un blocco centrale granitico che dava l’idea di esaltarsi nella sofferenza.

La stagione non cominciò però nel migliore dei modi. Ad agosto l’Inter perse la Supercoppa Italiana, sconfitta a Pechino dalla Lazio, e anche la prima partita a San Siro fu tutt’altro che convincente (1-1 contro il Bari). In Serie A la musica cambiò già a partire dalla seconda giornata (roboante 4-0 nel derby contro il Milan) e nel giro di poche settimane i nerazzurri acquisirono la leadership del campionato, laureandosi poi campioni d’inverno con 45 punti, ossia +5 sui cugini rossoneri, +12 sulla Juventus e +13 sulla Roma. La situazione era ben diversa in Champions League, dove l’Inter riuscì a stento a superare un girone abbordabile composto da Barcellona, Dinamo Kiev e Rubin Kazan: dopo tre stentati pareggi la prima fondamentale vittoria fu la rimonta negli ultimi minuti in Ucraina, seguita dal decisivo 2-0 interno contro i russi.

Gli ottavi di finale contro il Chelsea, in particolare il successo nella gara di ritorno a Stamford Bridge, diedero alla squadra di Mourinho maggiore consapevolezza della propria forza anche in campo europeo e, dopo aver superato agevolmente l’ostacolo CSKA Mosca ai quarti (2-0 nell’aggregata), i nerazzurri furono messi di fronti alla prova del nove: la semifinale contro il Barcellona, probabilmente il momento più iconico della stagione. I catalani, allenati da Pep Guardiola, erano i campioni d’Europa in carica ed esprimevano un calcio di una bellezza travolgente, oltre che di grande efficacia, il che li rendeva automaticamente i grandi favoriti per la conquista del trofeo. Nel doppio confronto della fase a gironi l’Inter non era riuscita a segnare neanche un gol ai blaugrana, ragione in più per considerare il Biscione una vittima sacrificale. Il gol di Pedro in apertura del match di Milano sembrava spingere in questa direzione, ma l’Inter tirò fuori un grande carattere e ribaltò il risultato con i gol di Sneijder, Maicon e Milito, mandando letteralmente in estasi gli 80.000 di San Siro. Nel ritorno al Camp Nou, dopo un’intera settimana in cui non si era parlato d’altro che della remuntada, l’Inter giocò una partita stoica, riuscendo, nonostante l’espulsione di Thiago Motta nel primo tempo, ad erigere un muro invalicabile davanti a Julio Cesar: l’1-0 finale non bastò al Barca e scatenò la celebre corsa liberatoria di Mourinho.

Il Triplete si concretizzò di fatto attraverso tre finali, ognuna delle quali garantì un trofeo all’ormai inarrestabile banda nerazzurra e in ognuna delle quali c’è la firma indelebile di Diego Milito. La prima è datata 5 maggio (ironicamente un giorno legato a ricordi piuttosto amari per i tifosi interisti) e fu l’ultimo atto della Coppa Italia: all’Olimpico, in un match estremamente teso, la Roma venne sconfitta per 1-0 con gol del Principe. Fu ancora lui a segnare la rete-scudetto il 16 maggio a Siena e fu sempre lui a realizzare la doppietta che trafisse il Bayern Monaco il 22 maggio al Santiago Bernabeu di Madrid. Fu l’epilogo perfetto di un’annata magica, probabilmente irripetibile. Le lacrime di Mourinho a fine partita furono a metà tra la felicità per l’impresa compiuta e la tristezza per la decisione già presa di lasciare la “famiglia” nerazzurra per accettare la proposta del Real.

mercoledì 21 maggio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 21 maggio.

Il 21 maggio 996 Ottone III di Sassonia viene incoronato Imperatore del Sacro Romano Impero.

Nato a Kessel presso Kleve nel gennaio 980, morto a Paterno presso Soratte il 24 (o 23) gennaio 1002. 

Nel 983 venne eletto re a Verona e incoronato ad Aquisgrana, e fino alla maggiore età (995) fu diretto dalla madre Teofano (morta nel 991) e poi dalla nonna Adelaide. Il rivale di suo padre, Enrico di Baviera, tentò di togliergli la corona, essendo riuscito a fuggire di prigione, e trovò partigiani dalla Francia alla Boemia. Tuttavia il principio di legittimità ebbe il sopravvento; Enrico dovette sottomettersi e in compenso riebbe la Baviera nel 985. 

Com'era stato suo padre, da rivale si trasformò in fedele sostegno del re. Nel 983 anche la frontiera orientale, che era stata intaccata, fu potuta ristabilire. Tuttavia tra il 985 e il 995 fu necessario compiere ogni anno spedizioni, o per meglio dire scorrerie, né mancarono gl'insuccessi, tanto più che si ebbero anche nuove incursioni di Normanni. L'aiuto del duca di Polonia, desideroso di estendere il proprio stato mediante l'unione col re, si dimostrò valido. 

In Italia le due reggenti, assistite dal consiglio dell'esperto arcivescovo di Magonza Willigi, tennero un atteggiamento riservato, tranne che per un viaggio a Roma di Teofano nel 989-90. Ma nel 995 papa Giovanni XV (985-996) invocò l'aiuto del re, divenuto ormai maggiorenne, contro Giovanni Crescenzio, il quale da dieci anni dominava in Roma in qualità di patrizio. Mentre Ottone s'avviava a Roma, Giovanni morì; a suo successore fu eletto, nell'accampamento imperiale, un cugino dell'imperatore, della famiglia dei Salî, il primo straniero che dopo molti secoli ricevesse la tiara, il quale assunse il nome di Gregorio V. In questo nome si conteneva il programma di una riforma destinata a liberare il papato dalle lotte dei partiti romani. 

Il 21 maggio 996 Gregorio incoronò imperatore Ottone, il quale accolse la sottomissione del patrizio e ritornò ad Aquisgrana persuaso d' avere assicurato la pace. Ma già al principio del 997 Crescenzio cacciò il papa, levandogli contro, con l'aiuto dei Bizantini, Filagato, un greco dell'Italia meridionale col nome di Giovanni XVI. Ottone non poté intervenire, avendo in quel torno gli Slavi passato l'Elba; a quest'assalto egli riparò, assistito dal duca di Polonia, con due contrattacchi, i quali ristabilirono la pace, e nella primavera del 998 s'affrettò a scendere in Italia. Qui l'antipapa non era riuscito a farsi riconoscere fuori di Roma, e già da varî mesi era pronto a sottomettersi; Giovanni Crescenzio s'era asserragliato in Castel Sant'Angelo. Questo venne espugnato il 28 aprile 998, Crescenzio fu ucciso e il suo cadavere impiccato. Ottone era ormai padrone assoluto della situazione, per quanto nell'Italia Settentrionale Arduino d'Ivrea si mantenesse indipendente e nell'Italia meridionale riuscisse impossibile accordare fra loro i principi longobardi. Ma poiché il marchese Ugo di Toscana aderiva all'imperatore, questi possedeva un appoggio sicuro in Italia.

Fino al suo ingresso a Roma Ottone aveva avuto a modello Carlomagno, e la difesa della Sassonia gli era apparsa più importante che Roma e l'Italia. Ma uomini come Leone, più tardi vescovo di Vercelli, e come il francese Gerberto, che espulso dal seggio arcivescovile di Reims si era rifugiato presso di lui e da lui era stato fatto arcivescovo di Ravenna, accesero in lui l'entusiasmo per l'antica grandezza di Roma e per la tradizione dell'antica cultura. Altri ispiratori, quali Adalberto di Praga e Bruno di Querfurt, ambedue morti poi martiri, accesero in lui la fiamma dell'ideale religioso e della propagazione della fede. Anche il rifiuto dell'imperatore bizantino di dare in moglie a Ottone una sua nipote fece sì che l'imperatore gli si rivolgesse contro con l'orgoglio offeso di un Imperator Romanorum. 

Il programma carolingio non fu abbandonato, ma assunse forma religiosa e classicheggiante. Le parole renovatio imperii Romanorum caratterizzarono gli scopi temporali di Ottone e il nome di Silvestro II, che Gerberto, eletto nel 999 a successore di Gregorio V, assunse in ricordo della leggendaria collaborazione di papa Silvestro I e di Costantino il Grande, mostrò che anche la Chiesa doveva e voleva aver parte nel rinnovamento. Questo si effettuò in forma pratica nel fatto che Ottone stabilì la propria residenza sull'Aventino e fu largo di titoli e di favori ai Tuscolani, i rivali dei Crescenzî abbattuti; al tempo stesso promosse in ogni maniera l'espansione del cristianesimo verso est. Nel 999-1000 si recò, attraverso la Germania, in Polonia, dove, d'intesa col papa, istituì un arcivescovato, con tre vescovati suffraganei, a Gniezno, sulle ossa del suo amico Adalberto, morto martire. Insieme con Silvestro II sanzionò l'ingresso dell'Ungheria nella comunità cristiana; il giorno di Natale del 1000 questa regione fu eretta a regno e accolse il cristianesimo. Durante questo viaggio, conscio della propria missione, assunse il titolo apostolico di servus Jesu Christi. Nel viaggio di ritorno curò la ricognizione delle ossa di Carlomagno, segno questo che il grande imperatore era ancora per lui il segnacolo del rinnovamento. Ottone sperava di procedere oltre per questa via. Nel gennaio 1001, quando era di nuovo a Roma, Ottone comincia a porsi la questione dei suoi rapporti col pontefice e quella delle donazioni imperiali alla Chiesa. Egli riconosceva bensì la dottrina delle due potestà, ma non le donazioni fatte dagl'imperatori, e quest'affermazione di principî avrebbe potuto avere conseguenze incalcolabili, se una nuova insurrezione scoppiata a Roma in seguito al trattamento troppo benevolo usato verso Tivoli, che era stata allora espugnata, non avesse, riunendo i due partiti avversi dei Tuscolani e dei Crescenzî, cacciato da Roma papa e imperatore. 

Ma nonostante che il conflitto aperto col papato non scoppiasse, Ottone, fortemente scosso nella sicurezza della sua coscienza religiosa, pensò di farsi eremita o missionario per riacquistare la grazia divina. Ma prima voleva trarre vendetta da quella Roma prima tanto amata e ora odiata. Le truppe erano già in marcia, la situazione ecclesiastica era già ristabilita e la sposa bizantina che era finalmente riuscito a ottenere si trovava in viaggio, quando il ventunenne imperatore fu rapito da un'improvvisa malattia, forse vaiolo. Straziato nel suo intimo, egli accolse con dignità e con spirito religioso la fine, che lo liberava dal dissidio interno. L'ostilità che si era già manifestata in Germania per le preferenze mostrate verso la parte meridionale dell'impero venne meno nelle lotte per la successione. La salma di Ottone, attraverso l'Italia in cui Arduino veniva eletto ultimo re nazionale, fu trasportata ad Aquisgrana, per riposare accanto a Carlomagno. I suoi disegni erano falliti, ma l'idea del rinnovamento della Chiesa e dell'Impero, alle quali egli aveva dato nuova espressione, gli sopravvissero.

martedì 20 maggio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 20 maggio.

Il 20 maggio 1873 Levi Strauss deposita il brevetto dei Blue Jeans.

“Blue Jeans” deriva dal francese “bleu de Genes”, ossia “blu di Genova”.

Non è che a Genova, secoli fa, facessero già i blue jeans come li conosciamo oggi.

Innanzitutto il tessuto usato nel XV secolo per le merci era il fustagno, fabbricato nelle città di Chieri, in provincia di Torino, e in quella francese di Nimes, e veniva esportato attraverso il porto di Genova, dove era utilizzato per confezionare i sacchi per le vele delle navi e per coprire le merci del porto. Ma è proprio a Genova che i marinai usarono il fustagno come indumento intorno al 1500.

Ma il jeans di oggi nasce nel 1873.

Il 20 maggio 1873 fu brevettato il moderno jeans in denim (da “de Nimes”). Due anni prima, nel 1871, il sarto lettone Jacob Davis, abitante a Reno in Nevada, rinforzò il fustagno con rivetti in rame.

Non avendo i soldi per il brevetto si mise in società con Levi Strauss, il proprietario dell'ingrosso Levi Strauss & Co.

Il 5 luglio 1872 Davis scrisse a Levi Strauss:

“Reno, Nevada, 5 luglio 1872. Ai signori Levi Strauss & Co. Trovate accluso un assegno di 350 dollari. Vi ho anche mandato 2 pezzi cuciti con la stoffa che mi avete venduto. Quelli blu li metto a 3 dollari e 50 al paio. I miei concorrenti sono gelosi del successo e se non li assicuro con un brevetto presto li faranno tutti. Perciò cari signori vi propongo di fare un brevetto a mio nome e vi darò metà dei diritti. Vostro J.W. Davis”.

Davis e Strauss erano entrambi ebrei – il primo di origine lettone, come abbiamo detto, e il secondo di origine tedesca - emigrati nel West durante la corsa all'oro.

Strauss indirizzava la propria produzione ai manovali (fu lui che inventò la famosa salopette oggi ancora molto di moda), e decise di brevettare l'idea.

Così i blue jeans nacquero ufficialmente nella città di San Francisco.

Con loro comparvero per la prima volta anche il "patch" (l'etichetta con due cavalli), la tasca posteriore a doppio arco e tutti i segni che ora rendono i Levi's il mito che sono oggi.

Pochi anni dopo nacquero i Lee e i Wrangler. Oggi ogni marchio di moda ha i propri jeans. 

In Europa i jeans prodotti negli Stati Uniti giunsero e si diffusero dopo la seconda guerra mondiale, soprattutto grazie ai divi del cinema che li indossavano anche nei loro film più famosi, come ad esempio James Dean, Elvis Presley e Marlon Brando.

In pochissimi anni i jeans diventarono in tutti i Paesi europei i pantaloni più comprati e indossati specie dai giovani, che ne fecero simbolo della loro ribellione e della loro protesta negli anni '60.

lunedì 19 maggio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 19 maggio.

Il 19 maggio 1836 Cynthia Ann Parker, una bambina irlandese emigrata in Texas, viene rapita dai nativi americani.

Cynthia Ann Parker, una bimba di appena nove anni, fu rapita dagli indiani Comanche mentre la sua famiglia veniva brutalmente massacrata davanti ai suoi occhi.

Dopo che l’isolato avamposto texano fu attaccato da un gruppo di guerra di Comanche, la piccola Cynthia venne allontanata da sua madre, portata via a cavallo e allevata per vivere come una delle donne della tribù.

Per 24 anni la donna dagli occhi azzurri, dapprima prigioniera, rimase volontariamente con i suoi rapitori, sposandosi con un Comanche e facendo nascere dei figli, dimenticando perfino la sua lingua d’origine.

E in un’incredibile gioco del destino, proprio uno dei suoi figli – Quanah – divenne uno dei più temuti e rispettati capi tra i nativi americani del 1800 e fu anche l’ultimo dei leader Comanche ad abbandonare definitivamente il sentiero di guerra ed il vecchio stile di vita indiani per indicare la possibilità di ricrearsi una vita nelle riserve, sotto le autorità statunitensi.

La storia brutale del rapimento di questa giovane, lo spargimento di sangue della sua famiglia, le guerre condotte dai Comanche guidati dal figlio di Cynthia, Quanah, contro i bianchi e infine la resa, sono elementi che non hanno mai smesso di emozionare e sorprendere gli appassionati di storia del west. Si tratta di uno spaccato di storia ripreso più e più volte nei film e nei libri.

L’autore del bel libro “Empire Of The Summer Moon”, S.C. Gwynne, riprende la storia di Cynthia Parker – Nautdah nella sua famiglia Comanche adottiva – intrecciandola con gli eventi violenti fatti di razzie, scalpi, uccisioni che punteggiavano la vita della frontiera intorno alla metà del 1800.

S.C. Gwynne narra che il nonno di Cynthia venne ucciso, scalpato e gli vennero asportati i genitali mentre sua moglie veniva costretta a guardare, mentre in un attacco a un altro insediamento di bianchi una donna incinta venne violentata prima di essere colpita con delle frecce e scalpata viva.

Gwynne racconta anche la terribile storia dell’attacco alla famiglia Parker, avvenuto il 19 maggio 1836.

Una squadra di razziatori Comanche circondò il loro ranch, posto in quella che era la selvaggia frontiera texana, prese d’assalto la casa debolmente presidiata, chiedendo una mucca da uccidere per farne cibo e le indicazioni per la più vicina fonte d’acqua.

Sospettando una trappola, donne e bambini vennero immediatamente fatti scappare attraverso una porta posta sul retro della casa nei rigogliosi campi di grano o nel letto del fiume secco o in aperta campagna. Mentre loro scappavano, alcuni uomini della casa si diressero verso quello che sembrava essere il capo della banda di guerrieri a cavallo. Gli uomini erano disarmati e tenevano in mano, in maniera visibile, delle scorte di cibo.

Furono brutalmente attaccati e smembrati davanti ai loro familiari che osservavano scioccati.

Cynthia fuggì con sua madre Lucy e quattro fratelli, ma vennero individuati e inseguiti da alcuni guerrieri. Proprio Cynthia venne circondata e strappata a sua madre.

Scrive Gwynne: “Gli indiani li catturarono tutti, madre e figli… costrinsero Lucy a cedere due dei suoi figli che vennero subito portati via, poi la trascinarono insieme ai due bambini rimasti verso il caseggiato.

Quelli che erano rimasti all’interno per affrontare i predoni Comanche subirono lo stesso destino di molti altri coloni della frontiera dell’epoca: una morte tremenda.

La logica che guidava tutte le incursioni dei guerrieri Comanche era molto semplice: tutti gli uomini venivano invariabilmente uccisi e quelli che venivano catturati vivi erano poi sottoposti alla tortura. Le donne venivano perlopiù fatte prigioniere e violentate dalla banda. Alcune venivano uccise e altre torturate.

I bambini venivano invariabilmente uccisi.”

I Parker non subirono un trattamento diverso dalla regola dei Comanche: quattro maschi della famiglia erano stati uccisi e bloccati a terra con le lunghe lance e scalpati.

Altri che provarono a scappare vennero attaccati, bloccati e trattati selvaggiamente: “L’anziano John Parker, sua moglie Sallie e sua figlia Elizabeth Kellog vennero circondati e spogliati di tutti i loro vestiti. Gli indiani si accanirono su di loro, attaccando il vecchio con il tomahawk… e costringendo la moglie a guardare cosa gli stavano facendo. Lo squarciarono, gli tagliarono i genitali e lo uccisero.”

La violenza era quella tipica che si viveva nel selvaggio west americano. E d’altra parte, la durezza degli indiani in rapporto alla violenza era in parte il frutto di relazioni con l’uomo bianco che erano da sempre impostate sulla prevaricazione del secondo sui primi, sulla sottrazione delle terre e sul mancato rispetto di qualsiasi trattato.

Gwynne descrive nel suo libro un attacco simile a un’altra famiglia di coloni.

“Dopo aver catturato una donna incinta di nove mesi, i Comanche l’hanno trascinata indietro fino a un punto a circa duecento metri di distanza dalla capanna in cui quella viveva. Lì è stata stuprata da una banda di razziatori Comanche. Quando ebbero finito, le tirarono addosso diverse frecce. L’hanno poi scalpata viva facendo alcuni tagli profondi sotto le orecchie e staccando completamente la parte superiore del cuoio capelluto dalla testa. La poveretta sopravvisse per quattro lunghi giorni tra atroci sofferenze.”

Nonostante il suo ingresso violento nella tribù, Cynthia – che venne poi chiamata Nautdah (“trovata”) – alla fine sposò uno dei capi Comanche, Peta Nocona.

Nei successivi 24 anni Cynthia visse con gli indiani e ne assimilò usi e costumi, divenendo un membro della tribù pienamente integrato e dando alla luce ben tre bambini, incluso Quanah che sarebbe poi diventato famosissimo.

Mentre gli scontri tra Texas Rangers e nativi americani si facevano sempre più frequenti e brutali, il governo di Washington prese una linea più decisa sulle tribù che compivano razzie, inviando truppe in numero sempre maggiore per dare la caccia a quei Comanche che erano con buona ragione considerati “gli inafferrabili cavalieri delle pianure”.

Fu durante uno di questi scontri con i Texas Rangers, nel 1860, che Cynthia, a malapena riconoscibile come donna bianca grazie ai suoi occhi blu, venne sottratta agli indiani e riconsegnata alla civiltà dei bianchi.

Cynthia si era ormai così integrata tra i Comanche che le uniche parole inglesi che poteva pronunciare erano “Me Cincee Ann”.

Nonostante i bianchi fossero ben felici di aver effettuato il suo “salvataggio”, Cynthia non si sentiva più a casa tra i suoi parenti americani e cercò di scappare più e più volte.

Aveva il cuore spezzato dal timore di non riuscire più a rivedere i suoi due figli, quelli che riuscirono a sfuggire al raid dei Texas Rangers del 1860 e lentamente divenne sempre più introversa, finendo persino per ammalarsi.

Quando la sua giovane figlia morì all’età di cinque anni, la sua salute declinò rapidamente e morì sola nel 1870, all’età di appena 43 anni.

Un altro suo figlio, Quanah, tuttavia, iniziò a guidare una tribù Comanche prima ancora che avesse 20 anni. Era insolitamente alto e atletico per i consueti standard Comanche e riuscì a far crescere enormemente la sua fama grazie ad un buon numero di audaci incursioni e razzie tra i bianchi.

La sua più grande vittoria arrivò nel 1871 quando batté un distaccamento di 600 soldati americani, attaccando con successo il loro campo di notte, mentre guidava un intero villaggio in salvo.

Ma verso la metà degli anni settanta dell’Ottocento la vita stava diventando realmente impossibile per i Comanche che ancora volevano praticare la consueta vita da nomadi, sempre appresso ai bisonti. I bianchi erano ormai ovunque e i loro ranch punteggiavano le grandi pianure. I bisonti si erano ormai fatti così rari che i Comanche erano sempre più in difficoltà per gli approvvigionamenti. Inoltre, l’esercito era forte e presidiava gli snodi principali della comancheria e così il 2 giugno 1875 Quanah condusse l’intero suo villaggio verso la riserva e fu l’ultimo vero capo Comanche.

Nei suoi ultimi anni, Quanah godette di una certa celebrità e divenne un buon allevatore di bestiame, mentre i resti dell’orgoglioso impero Comanche crollavano intorno alla sua gente.

Cerca nel blog

Archivio blog