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venerdì 10 gennaio 2025

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 10 gennaio.

Il 10 gennaio 1936 nasce la Olimpia Pallacanestro Milano.

L’Olimpia nacque nel 1936 sotto il segno del successo. Il primo campionato identificato dal nome Olimpia fu subito un trionfo. In realtà la storia è molto più complicata e confusa. La squadra nacque su iniziativa del Conte Borletti che la considerava una specie di dopolavoro aziendale. Secondo le cronache dell’epoca il club sarebbe stato fondato nel 1930 ma anni dopo il presidente storico Adolfo Bogoncelli decise che la data corretta era 1936. Oggi il 1936 è riportato nel logo della società sotto la scritta Olimpia. La data coincide con quella del primo scudetto, con capitano Enrico Castelli, allenatore Giannino Valli. L’anno dopo arriva Sergio Paganella, uno dei primi grandi pivot del basket italiano. Il Borletti vince quattro scudetti consecutivi, la Ginnastica Triestina ne ferma la marcia nella stagione 1939/40 e un anno dopo con una squadra rinnovata e dopo la scomparsa di Borletti la squadra crolla nei bassifondi della graduatoria. Risale ma sono gli anni della guerra, nel 1943 addirittura si giocheranno solo tre partite e dopo il conflitto la squadra non sarà più la stessa e cambierà anche lo storico coach Giannino Valli.

Ma intanto l’Olimpia che conosciamo oggi sta fermentando. Adolfo Bogoncelli, trevigiano di nascita ma triestino a tutti gli effetti, si innamora del basket a Modena e con i soldi del Partito d’Azione fonda una squadra e dopo il trasferimento a Milano la chiama Triestina. Dopo la guerra il finanziamento cessa, la squadra si trasferisce a Como. Intanto il Borletti retrocede in B e il colpo di genio di Bogoncelli è fondere le due società e dar vita a quella che effettivamente può finalmente chiamarsi Olimpia ovvero la società nata dalla fusione del Borletti con la Triestina. Il Borletti diventerà sponsor del club, Bogoncelli l’illuminato presidente che nel 1949 acquista da Venezia il cannoniere Sergio Stefanini, che ha vinto già due scudetti e prolunga la collana di imprese a Milano.  Ad allenare la squadra è Cesare Rubini. Bogoncelli e Rubini formeranno il primo grande binomio presidente-allenatore della storia del basket italiano.

Bogoncelli è stato un dirigente innovativo, geniale. Ha inventato le sponsorizzazioni prima con il Borletti poi con quella storica del Simmenthal, ha praticamente creato un vero mercato per i giocatori, ha diffuso il verbo del basket portando in Italia gli Harlem Globetrotters negli anni in cui erano la squadra più famosa e anche più forte al mondo per la presenza dei giocatori di colore – praticamente banditi dalla NBA – tra cui il fenomenale Wilt Chamberlain. Bogoncelli ha inventato Rubini allenatore-giocatore, poi sotto la sua ala c’è stato il primo grande binomio allenatore-assistente ovvero Rubini il grande motivatore carismatico e Sandro Gamba, lo scienziato del basket. Nel 1966 Bogoncelli ha portato a Milano come straniero di coppa Bill Bradley, il giocatore universitario dell’anno, trasferitosi a Oxford per studiare rinviando l’ingresso nella NBA di due anni. L’ultimo grande colpo della sua straordinaria carriera dirigenziale è l’ingaggio di Dan Peterson come allenatore dopo che già aveva scelto Toni Cappellari quale manager all’addio di Rubini creando un’altra grande coppia: Cappellari-Peterson.

Bogoncelli uscì dal basket aprendo le porte alla famiglia Gabetti nel 1980. In quel momento l’Olimpia aveva vinto 19 scudetti, gli ultimi 15 sotto la sua ala magica.

Dan Peterson da Evanston, Illinois, alle porte di Chicago, non era stato in America un coach di grande successo. Aveva fatto bene da assistente allenatore a Michigan State, aveva allenato bene l’università del Delaware ma era ancora in attesa della sua grande occasione quando con un coraggio leonino accettò di allenare la Nazionale del Cile, un progetto di difficoltà inaudita e in condizioni complicate. Era il coach cileno quando la Virtus Bologna scelse come nuovo allenatore Rollie Massimino, origini siciliane, un giovane promettente. Ma Massimino ricevette in extremis l’offerta della Villanova University – dove avrebbe vinto il titolo NCAA del 1985 – lasciando la Virtus nei guai. L’agente americano Richard Kaner si attivò per trovare un’alternativa e attraverso il grande Chuck Daly – coach del primo Dream Team – arrivò a Peterson che in quel periodo dell’anno era uno dei pochi tecnici americani in grado contrattualmente di accettare la proposta dell’avvocato bolognese Porelli. Fu così che cominciò la sua avventura italiana.

A Bologna vinse lo scudetto, si affermò come allenatore, imparò la lingua e conquistò il cuore del movimento. Ma Bologna gli stava stretta e quando venne chiamato a Milano, che in quel momento nel basket aveva più storia di Bologna ma non il suo presente, non esitò ad accettare. “Per me, americano, Milano era un po’ come New York”. Il resto è storia: la famosa Banda Bassotti milanese raggiunse un’insperata finale scudetto, persa contro la Virtus, che riportò il pienone nel palasport di San Siro, la squadra venne costruita attorno al genio di Mike D’Antoni e pescando a piene mani nel settore giovanile che fruttò i gemelli Boselli, Francesco Anchisi e Vittorio Gallinari. Fu così che il grande ciclo dell’Olimpia degli anni ’80 venne generato.

Il primo scudetto dell’era Peterson arrivò nel 1982, non a caso nella prima stagione con Dino Meneghin sul campo. Veneto di Alano di Piave ma cresciuto a Varese, era stato un fenomeno di precocità quando lasciò il lancio del peso per diventare il più grande centro nella storia del basket italiano. A Varese esordì giovanissimo in Serie A e cominciò a vincere subito firmando un’epoca accanto a giocatori come Bob Morse, Aldo Ossola, Ivan Bisson. La Varese delle 10 finali europee consecutive di cui cinque vinte era la sua squadra. In quelle vesti, Meneghin diventò un avversario storico per l’Olimpia, in pratica l’avversario per eccellenza.

Ma l’epopea di Varese finì nell’estate del 1981 con l’uscita di scena di Giovanni Borghi che determinò in automatico la cessione di Meneghin. E Gianmario Gabetti, da poco proprietario dell’Olimpia, ne fece una questione di principio. Così Meneghin passò da Varese a Milano, da una rivale all’altra anche se di fatto senza di lui e senza Morse (passato ad Antibes), i varesini non potevano più aspirare al titolo. L’Olimpia invece cambiò volto: con Meneghin centro (la sua prima stagione cominciò in ritardo per un infortunio al ginocchio), costruì una squadra alta, grossa e potente che utilizzava come ala piccola Vittorio Ferracini o Vittorio Gallinari, John Gianelli da ala forte e due tiratori da alternare come Franco Boselli e Roberto Premier, prelevato da Gorizia. In regia Mike D’Antoni giocava fino allo sfinimento: quando usciva, c’era Marco Lamperti, prodotto del vivaio milanese.

L’avvio fu difficilissimo: l’Olimpia perse in casa contro Rieti al debutto, a fine novembre perse 110-65 a Pesaro, la squadra di Dragan Kicanovic e Meneghin debuttò solo il 6 dicembre, a Rieti, con un’altra sconfitta fragorosa, 88-67. Perse anche a Varese, nel ritorno di Meneghin sul suo campo, nella sua città. Ma vinse 12 delle ultime 13 partite della stagione regolare, giocò un quarto di finale sofferto contro Brescia vincendo gara 3 nel finale. In semifinale vinse a Torino gara 1 (20 punti di Franco Boselli) ma solo di uno gara 2 a San Siro. La finale fu con la Scavolini dell’ex Mike Sylvester. Il Billy giocò una grande gara nelle Marche vincendola 89-86 e poi si salvò in gara 2 – conquistando il ventesimo titolo ovvero la seconda stella – quando John Gianelli stoppò il tiro della vittoria di Sylvester in una memorabile partita che vide il coach pesarese Pero Skansi partire con Kicanovic dalla panchina. Gianelli segnò 39 punti nelle due gare della finale, conquistandosi un posto d’onore nella galleria dei grandi americani dell’Olimpia: era bianco, poco appariscente, lento ma dotato di grande mano, intelligente e difensore straordinario.

Lo scudetto fu l’inizio di una nuova era. La stagione successiva, l’Olimpia raggiunse di nuovo la finale di Coppa dei Campioni perdendola a Grenoble di un punto contro la Ford Cantù (Boselli ebbe il pallone della vittoria ma sbagliò il tiro dalla media che avrebbe completato la rimonta) e perse anche la finale scudetto contro Roma, trascinata dall’immenso Larry Wright. Nel 1984 a battere l’Olimpia in finale fu la Knorr Bologna di Roberto Brunamonti e Renato Villalta. Su quella serie resta una macchia indelebile: Bologna vinse gara 1 a Milano, ma l’Olimpia si riprese il vantaggio del campo in gara 2 quando Dino Meneghin fu espulso per proteste e squalificato tre giornate. Senza Meneghin in campo in gara 3, la Virtus ebbe la meglio.

La maledizione dei secondi posti cessò nel 1985, la stagione del crollo del palazzone di San Siro, il cui tetto venne sbriciolato dalla neve. L’Olimpia partì con Russ Schoene e Wally Walker come americani. All’inizio a faticare era il primo, giovane e poco quotato, ma al momento di firmare il grande Joe Barry Carroll, coach Peterson cambiò idea, rinunciò all’esperto Walker e tenne Schoene. Grande idea: Schoene diventò protagonista, firmò la vittoria in Coppa Korac e diventò un altro dei grandi americani dell’Olimpia. Carroll venne a Milano nell’ambito di una disputa salariale con i Golden State Warriors. Ex prima scelta assoluta, aveva mani fantastiche, talento e poca intensità. Lo soprannominarono Joe Barely Cares, ovvero Joe “Senefrega”. Ma a Milano entrò in sintonia con l’ambiente, giocò una stagione straordinaria e portò l’Olimpia al titolo senza sconfitte nei playoff. Nel 1986 Carroll tornò nella NBA, Schoene restò e Milano vinse ancora lo scudetto. Dopo Pesaro toccò a Caserta cedere alle truppe di Dan Peterson, la Caserta del giovane Nando Gentile e del terrificante bomber Oscar Schmidt. Dopo il secondo scudetto di fila, il terzo dell’era Peterson-D’Antoni-Meneghin, era però venuto il momento di tornare a vincere nell’Europa che conta.

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