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giovedì 24 novembre 2022
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 24 novembre.
Il 24 novembre 1530, probabilmente, muore Jacopo Barigazzi, meglio noto come Berengario da Carpi.
Jacopo Barigazzi nacque a Carpi da Faustino e Orsolina Forghieri.
Si ignora l'anno della sua nascita, ma poiché egli afferma che era "satis puer" nel 1467, quando un certo medico Giacobbe ebreo guarì Ercole d'Este da una pericolosa ferita, si può ritenere che egli sia nato intorno al 1460.
Nella letteratura a lui relativa fu sempre chiamato, fino a circa un secolo fa, lacopo Berengario. Il Guaitoli per primo appurò che il suo nome di famiglia era "de Barigatiis". Nei documenti notarili che a lui si riferiscono il suo nome appare in varie forme, tra cui anche "de Berengariis"; ma è da notare che la forma "de Barigatiis" è quella che troviamo in tutti i documenti redatti a Carpi. Nei titoli delle sue opere egli chiama se stesso semplicemente "Carpus", mentre negli explicit e nella dedicatoria delle "Isagoge" troviamo "Iacobus Berengarius". Ma poiché di lui non possediamo autografi è impossibile stabilire come egli abitualmente si facesse chiamare.
Il padre era barbiere e chirurgo: un chirurgo tutt'altro che volgare, almeno a giudicare dalle operazioni e dalle cure che il B. dice d'avergli visto eseguire. Ancor quasi fanciullo, questi fu avviato allo studio della chirurgia e cominciò a dilettarsi di anatomia. Egli stesso ci fa sapere che coltivò gli "honestissima studia" delle lettere alla scuola di Aldo Manuzio. A verosimile che suo padre, data anche la sua professione, fosse quasi familiare dei signori della piccola città e che il figlio, pressappoco ventenne, potesse approfittare dell'insegnamento del Manuzio, chiamato a Carpi come precettore d'Alberto Pio che, nato nel 1475, era molto più giovane di lui. In quegli anni, e anche in seguito, quando si fece sempre più minacciosa l'inframmettenza del duca Ercole negli affari di Carpi, Jacopo fu un appassionato partigiano dei Pio contro gli Estensi. Nel 1500, dopo la cessione ad Ercole della parte spettante a Giberto Pio nella signorìa indivisa di Carpi, venne, in contumacia, condannato a pagare una multa di 100 ducati o ad avere mozzo il naso per aver ingiuriato il duca. E anche in età più matura, nonostante i suoi ottimi rapporti con nemici di Alberto, egli rimase in qualche modo a lui devoto, come provano la dedica delle Isagoge e gli stemmi dei Pio posti nei frontespizi di quasi tutte le sue opere.
L'insegnamento del Manuzio non fu certo senza importanza nella sua formazione intellettuale: esso mise il giovane apprendista chirurgo, vissuto sempre in un ambiente paesano, a contatto con la più aggiornata cultura e gli fece conoscere le nuove correnti d'idee che circolavano nel mondo dell'umanesimo. Berengario non diventò mai un buon latinista: il suo latino, nonostante certe pretese di letterarietà che notiamo nelle dedicatorie e nei proemi delle opere, restò sempre alquanto rozzo. Tuttavia sembra eccessivamente negativo il giudizio che ne diedero, per esempio, il Putti e il Roth: si tratta di un latino generalmente chiaro, semplice, adatto allo scopo pratico cui doveva servire. Ma più che l'acquisto di capacità di scrittore, Jacopo dovette forse alla scuola dei Manuzio il suo interesse (che per molti indizi appare ben vivo anche quando egli è più preso dall'attività scientifica e professionale) per le lettere e per le arti. La sua biblioteca, andata dispersa, dovette essere notevolmente ricca, giacché egli accuratamente ne dispose nel suo testamento facendola anche oggetto di fedecommesso. Inoltre egli fu collezionista di oggetti d'arte: sappiamo che possedette un San Giovannino di Raffaeuo, donatogli dal card. Colonna, alcuni vasetti d'argento che egli stesso fece fare al Cellini, un torso antico di marmo che ora si trova nel Museo civico di Bologna. Ci sono del resto in Berengario, per quel che le fonti ci lasciano intravvedere, diversi altri tratti di carattere che lo apparentano a gran parte degli umanisti: il desiderio di fama, l'avidità di guadagno, l'opportunismo politico, la gelosa suscettibilità, l'amore per la polemica.
La sua preparazione professionale fu certo più pratica che teorica ed egli cominciò giovanissimo a esercitare l'arte chirurgica, prima come assistente del padre, poi come principale operatore. Di nessun altro suo maestro, all'infuori del padre, egli fa mai menzione; ma dovette certe seguire anche corsi abbastanza regolari nello Studio di Bologna, dove il 3 ag. 1489 "aprobatus fuit in artibus et medicina". Il fatto che egli abbia studiato a Bologna anziché a Ferrara, la cui scuola era in quegli anni più famosa, si spiega pensando ai rapporti tutt'altro che amichevoli tra gli Estensi e i Pio. Alla fine del 1502 fu nominato lettore di chirurgia nello Studio bolognese col salario di 100 lire annue, che gli fu poi a più riprese accresciuto sino a raggiungere, nel 1525, le 350 lire. La sua nomina a lettore, sebbene, oltre a non essere bolognese, egli fosse partigiano di Alberto Pio, alla cui politica i Bentivoglio erano fortemente ostili, dimostra che egli doveva già godere di una fama acquistata con la sua abilità chirurgica, l'efficacia delle sue cure, la quantità e la qualità della sua clientela. Nel 1506 ottenne la cittadinanza bolognese mediante un breve di papa Giulio II (qualche anno dopo ebbe anche quella di Reggio) e nel 1508 il reggimento della città gli affidò la cura degli ammalati di peste con un salario supplementare di 100 lire. Per qualche tempo, prima del 1505, tenne anche la lettura di medicina pratica. La sua attività d'insegnamento fu interrotta da assenze più o meno lunghe quando egli era chiamato fuori di Bologna per curare importanti personaggi: così nel febbraio 1514 papa Leone X ordinò al legato e al reggimento di Bologna di concedergli una licenza perché potesse recarsi a Firenze a curare Alessandro Soderini.
Nel 1514 fu stampato in Bologna da Giustiniano da Rubiera il primo libro che reca il suo nome, sia pure soltanto come recensore: l'Anathomia Mundini noviter impressa et per Carpum emendata. In verità l'emendamento si riduce a poca cosa e l'edizione, che ebbe almeno tre ristampe, non è molto migliore delle precedenti. Nel 1517 fu chiamato ad Ancona per curare, insieme con altri medici e chirurghi, Lorenzo de' Medici, duca d'Urbino, gravemente ferito al capo nell'assedio di Mondolfo. Ci furono tra i medici dissensi e discussioni: forse a Berengario spiacque anche che l'operatore principale fosse Niccolò fiorentino. L'occasione gli diede lo spunto per il suo Tractatus de fractura calvae sive cranei (Bononiae, Hier. de Benedictis, 1518), che ebbe grandissima fortuna (altre ediz., oltre una di cui s'ignorano anno e luogo, Venezia 1535, Leida 1629, 1651, 1715, 1728). Un altro notevole consulto fu quello che egli ebbe, con altri medici, nel 1520, al letto del marchese Galeazzo Pallavicino in Cremona. In quel tempo Jacopo attendeva alla composizione di un'opera di notevole impegno, i Carpi Commentaria cum amplissimis additionibus super anathomia Mundini (Bononiae, Hier. de Benedictis, 1521), dedicata al cardinale Giulio de' Medici. Sono questi gli anni in cui la sua attività d'autore e di editore di testi è più feconda: nello stesso 1521 uscì in Bologna per i tipi di Gerolamo de Benedietis, "procurante Carpo", un'edizione dei trattato di Ulrich von Hutten De guaiaci medicina et morbo gallico.
La sifilide, comparsa in Italia verso la fine del sec. XV, aveva avuto, nei primi decenni del secolo successivo, carattere epidemico, e Jacopo, curando moltissimi sifilitici di elevata condizione sociale realizzava ingentissimi guadagni. Un episodio, recentemente messo in luce dal Di Pietro, mostra che egli cercava di trovare qualche pianta indigena che avesse virtù terapeutiche simili a quelle del guaiaco.
Nel 1522, a richiesta del suo discepolo Ochoa Gonzales, pubblicò i libri De Crisi di Galeno, tradotti dal Laurenziano, medico fiorentino; nello stesso anno fece stampare l'opera che forse più di ogni altra contribuì a rassodare la sua fama, cioè le Isagoge breves perlucide ac uberrime in anatomiam humani corporis,dedicandola ad Alberto Pio (Bononiae, Benedictus Hectoris, 1522; altre ediz.: Bologna 1523, Strasburgo 1530, Venezia 1535; trad. ingl. di H. Jackson, Londra, 1660 e 1662). Fu questa la sua ultima opera.
Nel 1525 fu chiamato a Piacenza a consulto per la cura di Giovanni dalle Bande Nere, ferito all'assedio di Pavia. Verso la fine dello stesso anno e al principio del seguente soggiornò a Roma per curare un non identificato personaggio della curia, forse il cardinale Pompeo Colonna. A questo soggiorno romano si riferisce un passo dell'autobiografia del Cellini, in cui è detto, tra l'altro, che il papa avrebbe voluto che egli restasse al suo servizio, ma che Berengario rifiutò.
Nel gennaio 1527 egli lasciò la cattedra di Bologna, e pare non volontariamente, per motivi che ci restano ignoti. Dei suoi ultimi anni non sappiamo quasi nulla. Nel marzo 1528 era a Carpi, dove fece testamento lasciando erede il nipote Damiano; nel luglio dello stesso anno era a Modena, dove curò un familiare di mons. Rangoni. Intanto doveva essere entrato in buoni rapporti col duca di Ferrara, tant'è vero che nel 1529 compare tra i suoi stipendiati. E' perciò verosimile che risiedesse a Ferrara. Ma doveva avere ancora affari a Bologna, dove nel 1529 uscì, per le stampe di G. B. Faelli, una raccolta di scritti di Galeno nelle traduzioni del Leoniceno, del Calcondila e di Antonio Fortolo, con una sua dedicatoria al cardinale Ercole Gonzaga, importante perché ci lascia intravvedere una certa sua dimestichezza col Pomponazzi e col Buonamici.
La sua fama, le sue prestazioni mediche a personaggi d'alto rango, gli procurarono, oltre che lauti guadagni, anche potenti protezioni e posizioni di privilegio. Per più volte egli poté lasciarsi andare, impunito, a violenze e a usurpazioni di diritti altrui. Nel 1511 fu processato per avere, spalleggiato da un servitore, aggredito a mano armata il dottore in medicina G. B. Sforzani: il servitore fu condannato a una multa, ma Berengario non ebbe nessuna condanna. Nello stesso anno, dopo il ritorno a Bologna di Annibale Bentivoglio (di cui, a quanto pare, egli era diventato seguace), assalì lo stipendiario papale Natale da Brindisi, svaligiandone anche la casa; tornata Bologna in possesso del papa, venne condannato alla sola restituzione del mal tolto. Nel 1529 cercava di usucapire, non pagandone il canone enfìteutico, una casa di proprietà dell'ospedale e della chiesa di S. Giovanni Gerosolimitano, a Bologna, di cui era commendatario Pietro Bembo, il quale, alle raccomandazioni del governatore e di altri personaggi, rispondeva di poter consentire che Jacopo non pagasse affitto, ma che non avrebbe tollerato che l'ospedale venisse spogliato della sua proprietà.
Non è certo dove e quando sia morto. Il Baruffaldi scrive che morì a Ferrara il 24 nov. 1530 e fu sepolto nella chiesa di S. Francesco; ma le ricerche fatte fare dal Putti per rintracciare la fonte della notizia non hanno dato risultati. D'altra parte M. A. Guarini nel libro, pubblicato nel 1621, in cui sono annotati tutti i personaggi illustri sepolti nelle chiese di Ferrara, non fa parola del Barigazzi. Il Falloppio scrisse che egli aveva accumulato 40000 ducati e che lasciò erede il duca di Ferrara. Un secondo testamento non si è mai trovato e perciò la cosa resta molto dubbia; certo è tuttavia che il 12 ott. 1531 i fattori generali ducali investirono un certo Gerolamo del Tura di una casa che era stata del Barigazzi.
Uomo di ingegno brillantissimo, dotato di salda cultura, fu indubbiamente un buon medico.
In particolare venne da molti ricordato per aver introdotto l'uso del mercurio nella cura della sifilide: in realtà, non fu certo questo il suo maggior merito e, d'altra parte, appare anche assai poco probabile che egli sia stato l'ideatore di tale terapia (egli infatti, sempre prontissimo a lodarsi, non si attribuì mai tale merito); è più verosimile che egli abbia applicato largamente e con buona dottrina un metodo terapeutico allora non molto conosciuto, e sembra certo che egli fosse tra i primi in Italia ad usare il legno di guaiaco.
Fu un ottimo chirurgo, ricco dell'esperienza acquisita, ancora fanciullo, sotto la guida del padre (di ciò sempre menava vanto, tanto che nell'edizione 1535 del suo trattato sulle fratture del cranio, f01. 30 a, scrìveva: "Nerno enim est peritus chirurgus qui a pueritia non vacavit huic arti").
In particolare, fu un valente esecutore della trapanazione del cranio e conobbe le fratture delle ossa da colpi di arma da fuoco. Si occupò di chirurgia ostetrica e ginecologica, eseguendo interventi sull'utero per curarne il prolasso, praticando il taglio cesareo e compiendo importanti osservazioni: cosi, oltre a descrivere alcuni casi di avvolgimento del cordone ombelicale e di fratture del cranio fetale conseguenti sia al parto strumentale, sia a quello spontaneo ma laborioso, in contraddizione con i dominanti concetti galenici egli affermò d'aver constatato che nel cordone ombelicale è contenuta generalmente una sola vena.
Il suo merito principale fu senza dubbio lo studio dell'anatomia: convinto che non era possibile imparare sui libri tale disciplina senza il soccorso di dimostrazioni pratiche, egli sezionò numerosi cadaveri, dimostrò pubblicamente l'infondatezza delle notizie raccolte nei vecchi trattati (molto spesso riferite all'anatomia del maiale) e sostenne che gli scienziati debbono trarre materia di studio dall'osservazione diretta dei fenomeni naturali e non dall'autorità degli scrittori precedenti. Egli non era "lettore", ma dimostratore di anatomia; non leggeva agli studenti il trattato di Mondino de' Liuzzi, ma scendeva dalla cattedra per dimostrare egli stesso al tavolo anatomico la costituzione del corpo umano.
Così, in contrasto alle altre credenze risalenti ad Aristotele, dimostrò che i nervi originano dal cervello e dal midollo spinale, descrisse l'esistenza di cinque cartilagini nella laringe e quella dei due ossicini martello e incudine nell'orecchio medio; individuò le valvole cardiache, descrisse mirabilmente il ceco e l'appendice vermiforme, studiò il mesentere, scoprì le vescichette seminali. Sembra che gli fossero anche noti i vasi linfatici.
Forse, fu proprio a causa del grande amore per lo studio dell'anatomia che venne accusato di aver eseguito la vivisezione di due Spagnoli sifilitici: tuttavia è da rilevare che di tale accusa è fatta menzione nelle opere postume di Gabriello Falloppio, rimaneggiate e in gran parte riscritte dai discepoli, e che d'altra parte lo stesso Berengario condannò sempre la pratica della vivisezione, più volte aspramente biasimando gli antichi Erasistrato ed Erofilo che l'avevano praticata.
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