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Il 14 novembre 1851 Melville pubblica "Moby Dick".
Nel 1850, quando si decise a scrivere finalmente Moby Dick, Herman Melville era semplicemente noto al grande pubblico come “lo scrittore che amava i cannibali”. Di certo allora la sua fama era incontrastabile: con Typee e il seguito Omoo divenne nel giro di un anno, uno degli scrittori più amati, nell’ambito ovviamente del filone narrativo picaresco e avventuroso. I suoi libri, inoltre, avevano un modo tipicamente romantico e provocatorio nel delineare i cannibali come un popolo dal fascino quasi decadente, una civiltà schiavizzata dall’incomprensibile avidità degli uomini bianchi e del loro sfrenato colonialismo.
Nel 1841 su una baleniera diretta verso i Mari del Sud, Melville conobbe un ragazzino che gli fece leggere “Il racconto dello straordinario e spaventevole naufragio della baleniera Essex”. Anche un articolo su un numero di Life del 1952 narra la storia di questo naufragio: una sorta di “baleniera maledetta” perseguitata da tempeste ed incidenti di ogni sorta, fino all’assalto di una balena che l’affondò.
Nonostante gli emozionanti viaggi protagonisti nei romanzi precedenti, resi stranissimi dalla scelta di un’impostazione polemica e anticonvenzionale, Melville rimase turbato ma anche colpito, ed in un certo senso affascinato dalla tragedia.
Pubblicato nel 1851, Moby Dick, capolavoro indiscusso di Herman Melville, per la sua forza evocativa e l’architettura enciclopedica, rimane tutt’ora un testo criptico ed indecifrabile, un’ammaliante esplosione di parole, una sorta di universo in continua espansione. Per questi ed altri motivi, un’opera leggendaria.
Libro d’avventura, manuale per la caccia alle balene, dizionario, memorandum, saggio d’introspezione psicologica, racconto epico, trattato epistemologico, filosofico, artistico o semplicemente linguistico, l’autore utilizza un numero impressionante di digressioni prese dai libri di storia, testi antichi e suoi contemporanei, Shakespeare, La Bibbia. Per rendervi l’idea, chi s’imbatte nella lettura di quest’opera non può trascurare la stessa sofferenza con la quale si affronta il suo più illustre predecessore: La Divina Commedia.
La trama del libro è lineare, e si può riassumere brevemente come il viaggio della baleniera “Pequod”, comandata dal capitano Achab, a caccia di balene, ed in particolare della enorme balena bianca che da il titolo al romanzo: Moby Dick, bianchissima, enorme e malvagia, che in passato ha fatto naufragare la sua nave tranciando di netto una gamba al capitano.
Raccontata da Ismaele, l’unico che alla fine si salverà dall’inevitabile naufragio, ed alter – ego dello scrittore, è la storia di un’analisi precisa e pedante dell’uomo quando è spinto dall’odio per l’ambiguità e l’intangibilità del Male, specialmente quando si nasconde nelle sue forme più innocenti.
La lotta contro una balena bianca non deve essere vista tanto un desiderio di vendetta quanto la metafora dell’orrore e del fascino che attira l’uomo verso l’inafferrabile e l’ignoto.
Ambivalente è prima di tutto la forza espressiva della narrazione, che rimane bipolare ed interscambiabile attraverso i due protagonisti della vicenda: Achab è colui che si ribella e agisce, Ismaele è invece colui che osserva e descrive. Al di là dell’espediente narrativo, si può cogliere già da subito il nucleo centrale della dialettica melvilliana: voler conoscere – e quindi in questo caso s’intende l’uccisione della balena – significherebbe non riconoscere i limiti della natura umana, ribellarsi ad essa, e di conseguenza votarsi alla sconfitta. Ma accettare, cioè non voler conoscere, comporterebbe un diverso tipo di frustrazione: seppellire il proprio genio, ghettizzare la propria personalità ed illudersi in un’esistenza sterile. In entrambi i casi l’uomo rimane condannato all’infelicità.
Quindi non esiste alcun dono divino, e semmai ve ne fosse uno, si rivelerebbe un meccanismo perverso destinato all’uomo ed a ogni essere vivente, una malformazione congenita della propria esistenza.
La balena bianca, uno dei più grandi simboli della letteratura di tutti i tempi, si offre a svariate interpretazioni, contraddittorie e mai contingenti, un ricamo in cui ogni simbolo non è mai quello giusto, quasi come se volesse destare nella parte più profonda del nostro animo, al tempo stesso, sia il Bene che il Male Supremo. Sembra di volta in volta una creatura fisica e metafisica, leviatano e messaggero divino, mimesi terrificante ed essere angelico, un’apparizione ineluttabile della realtà, un’epifania simultanea del Bene e del Male. La “Pequod” stessa diventa, sulla scia del modello dantesco, una sorta di microcosmo emblematico nel quale si esibiscono, in un’ipotetica parata, vari “campioni” dell’umanità: diverse etnie, diverse fedi religiose, diverse filosofie e scelte esistenziali. Quindi, e non in ultima istanza, non solo un conflitto tra Realtà e Dio, Achab e la Balena, ma una specie di giudizio universale dal sapore faustiano, un tentativo estremo dell’umanità intera di redimersi.
Ma Moby Dick non può essere letto solo come tentativo definitivo di esplicare un simbolo. Ricca di spunti realistici, l’opera di Melville è anche, nella sua grandiosa struttura quasi cinematografica, uno splendido romanzo di avventure nel quale, il tema del mare, si afferma come una delle costanti più significative della letteratura americana. Cresciuti nella realtà e nel mito della frontiera, gli americani scoprirono nel mare, nell’oceano, una nuova frontiera, poetica e terrificante.
L’oceano e il suo presagio: Moby Dick
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