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domenica 11 agosto 2019

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è l'11 agosto.
L'11 agosto 1802 muore a Orbetello il poeta Domenico Luigi Batacchi.
Il primo segmento della vita del Batacchi (1748-1792), sullo sfondo della città natale, è rievocato nelle linee essenziali dal proemio al canto XXIII della Rete di Vulcano. Membro di una nobile famiglia di origini fiorentine, decaduta per gli stravizi paterni («donna», «taverna» e «dado»), il Batacchi frequentò le scuole pubbliche di S. Michele, dando precocemente saggio di temperamento sanguigno («e in attaccar liti e baruffe dotto, / era degli insolenti il corifeo») – riversato poi nei bruschi, collerici scatti della sua satira, che investe, tra i bersagli prediletti, il mondo clericale (esemplare don Barlotta del c. I dello Zibaldone) e aristocratico (La rete di Vulcano) – e di insofferenza nei riguardi di una versificazione prolissa e di maniera, quale quella dell’abate Merciai, il pedante maestro a più riprese deriso per i pessimi sonetti. È verosimile che le difficoltà economiche – spesse volte ricordate da questo «nobile spiantato» che amava figurare nelle vesti del pitocco – , aggravate dal peso di una numerosa prole, abbiano impedito al Batacchi di proseguire regolarmente la sua istruzione: si impiegò presto come gabelliere, modesto ripiego che gli offrì tuttavia la possibilità di coltivare l’ingegno – in modo confuso e disorganico, da autodidatta – con la varietà di letture denunciata dalla mescolanza di modelli e suggestioni che ne impronta l’opera. Sopperendo alla mancanza di un adeguato titolo di studi con la facilità della vena poetica e una sciolta dialettica, non priva di arguzia, riuscì a introdursi negli ambienti culturalmente più vivaci della Pisa del tempo: significativo per il Batacchi non fu tanto l’ingresso nella Colonia Alfea nel 1788, con il nome pastorale di Pasiteo Laerzio, quanto il coinvolgimento nella brigata dei Polentofagi. Scartando rispetto all’ozioso provincialismo arcadico, l’Accademia dei Polentofagi (“mangiatori di polenta”) celava infatti, dietro l’intendimento burlesco, una superiore complessità di stimoli intellettuali – l’apertura nei confronti della tradizione d’oltralpe e inglese, in prima istanza, caratteristica di alcuni tra i principali soci (De Coureil e Migliaresi), nonché del Batacchi lettore e traduttore – e sospette inclinazioni politiche, di coloritura democratica, che indussero il governo granducale a sopprimerla. Nel contesto di questo cenacolo, che soleva riunirsi nella casa del dottor Masi, il Batacchi si legò d’amicizia (o rinsaldò rapporti stretti in precedenza) con personaggi anticonformisti, a lui più tardi accomunati dall’accusa di giacobinismo: Tito Manzi, Luigi Migliaresi e il «francese italianato» che polemizzò con il Monti, Giovanni Salvatore De Coureil, a cui parte della critica (Amaturo e Franceschini) attribuisce la stesura di testi confluiti nelle Novelle in sesta rima del doganiere, a riprova della forza di questo sodalizio umano e letterario.
Al 1793 data il trasferimento presso la dogana di Livorno, secondo polo della biografia del Batacchi. All’epoca la città labronica ferveva per l’intensa attività editoriale, godendo di una lasca normativa, in materia di censura, che la rese crocevia, punto di irradiazione delle idee dei Lumi sul suolo della penisola: molti libri “proibiti” vi furono impressi, in specie per le cure di Giuseppe Aubert, promotore di iniziative – la pubblicazione dell’opuscolo Dei delitti e delle pene (1764) e delle terza ristampa dell’Encyclopédie (1770-1779) – che rivelano rabdomantica lungimiranza. Di questo clima partecipò anche Luigi Migliaresi, eclettica figura di poeta-editore dagli avventurosi trascorsi, che abbinava alla gestione di un noto gabinetto letterario (visitato, tra gli altri, da De Coureil, Gaetano Poggiali e dallo stesso Aubert) l’impegno profuso nel settore delle traduzioni, in cui attirò l’amico Batacchi, con il miraggio di introiti che ne avrebbero risollevato le sorti finanziarie. Di contro alle aspettative, fu un’impresa scarsamente fruttuosa (apparve soltanto la versione della Clarissa del Richardson), che contribuì piuttosto ad esacerbare l’infelice condizione del Batacchi, già frustrata da vicissitudini familiari – il disonore di una delle figlie – e fisiche (una caduta gli impose di zoppicare per il resto dei suoi giorni, assimilandolo al protagonista della Rete di Vulcano, di cui nello Zibaldone si definisce «imitator, ne’ passi»), su cui si sarebbe infine abbattuta, inclemente, la scure dei rivolgimenti politici che travagliarono il Granducato di Toscana sullo scorcio del secolo XVIII. Sempre timoroso che i suoi sboccati componimenti potessero procacciargli noie con le autorità (« […] io dico: è meglio perdere un bel motto che un bell’impiego», recita la lettera al Migliaresi del 13 Luglio 1797, riportata da Tribolati), il poeta non seppe tuttavia tenere a freno l’irriverenza di uno spirito votato per natura al riso, beffandosi disinvoltamente tanto dei francesi quanto di austriaci e alleati: ne fa fede la rappresentazione caricaturale del giovane Napoleone Bonaparte – artefice dell’occupazione di Livorno del 27 giugno 1796 – nei panni di «Marco Basetta, detto Refenero / Imperador di Cischeri», coniugato con l’avvenente «Duchessa di Cul-Rond» (Novella di Madama Lorenza, dedicata al Migliaresi), e sul versante opposto il sapido epigramma in cui il Batacchi predisse – con sorprendente esattezza – che «prima che passi il mese» le truppe napoletane guidate da Diego Naselli, giunte in città nel novembre 1798 (nell’ambito di una più ampia manovra orchestrata dal generale Mack per prendere la Repubblica Romana), sarebbero precipitate «nel padellon francese».
La «quadriglia franco-austriaca» (Giannessi) travolse il Batacchi, costringendolo ad assistere, impotente, alla sua rovina. A nulla valse il disperato tentativo di difendersi nel processo per «genialità francese» (seguìto alla sospensione temporanea dall’impiego il 5 settembre 1799), prassi a cui gli austriaci, riacquistato il potere, ricorsero in misura (spesso) arbitraria ed estesa, dando luogo a una sistematica epurazione di quanti fossero rei – o semplicemente sospettati – di aver appoggiato il nemico, veicolandone gli ideali libertari. Il testo dell’apologia del doganiere, in possesso di Felice Tribolati, consente di ricostruire le imputazioni riversategli contro: oltre ad aver favorito la circolazione delle istanze democratiche (mediante prediche e discorsi partigiani, da lui stesi o rivisti), lodando contestualmente il sistema governativo francese, il Batacchi avrebbe assistito «alla piantagione dell’albero della Libertà […] esternando il suo piacere colle grida», intrecciato frequentazioni con soggetti compromessi (tali Valori e Nicolini), prodotto e divulgato, «sia pure sotto falso nome, opere lesive della moralità e del costume» (Amaturo). La fama di giacobino, che gli procurò in quell’occasione condanna e destituzione dall’ufficio, continuò a nuocere al Batacchi, pesando come greve ipoteca sul suo capo: nel nuovo Regno d’Etruria a guida asburgica, nato dal Trattato di Lunéville, dopo aver riottenuto per breve tempo l’antico incarico – con difficoltà e per interessamento di un cognato e del De Coureil – , il poeta fu inviato in qualità di fiscale delle Regie Saline nella sede periferica di Orbetello, dove trovò la morte l’11 agosto del 1802. Una manovra volta presumibilmente a disfarsi di un individuo sgradito, come sembrò intuire il De Coureil nelle sue Memorie (in un passo citato da Pera): «Là si mandavano tutti i così detti patriotti, a’ quali non si poteva negare impiego; e si mandavano là, perché si sapeva che l’aria pestilenziale maremmana presto gli uccideva. Infatti il mio povero Batacchi vi lasciò la vita».

La damnatio memoriae che colpì il Batacchi, incarnata – come sembra – dalla lapide priva di iscrizioni e persino del nome, fa il paio con il giudizio per lo più limitativo sulla sua arte; un ostracismo, da ascrivere con ogni probabilità alla commistione tra «giocosa animalità» «e pornografia popolare» (Giannessi), che ne occulta il ruolo di scrittore rappresentativo della novellistica libertino-erotica in versi del Settecento (accanto al più quotato Casti, cui pure lo accostarono, con pareri contrastanti, Goethe e Foscolo) e mette a tacere la sua garrula «Musa sgualdrinella», portata a sferzare vizi e ipocrisie per mezzo della verve satirica, ridanciana, sostenuta da un impasto linguistico di vivace oscenità e dalla parodia, nel solco del magistero bernesco. L’estro batacchiano si espresse in una vasta produzione, edita in genere sotto pseudonimo e con falso luogo di stampa, pervenutaci non integralmente: ai lavori “maggiori” – le Novelle di padre Atanasio da Verrocchio (per cui si ipotizza una prima diffusione manoscritta, seguita dall’uscita in dispense a Pisa dal 1791 e in due volumi a Bologna, l’anno successivo), lo Zibaldone (Bologna, 1792) e La rete di Vulcano (Milano, 1812) – occorre affiancare opere di cui si sono del tutto perdute le tracce materiali, segnatamente La Didone pisana, melodramma giocoso, e La pulcella valdarnese, poema eroicomico, di volterriana memoria, incentrato sulle gesta di Alessandra Mari (patriota tra i capi della rivoluzione sanfedista del 1799), ulteriore conferma di come il Batacchi, «del teatro mondano al tempo istesso / attore […] e spettatore» (La rete di Vulcano, c. XXIII), usasse trarre ispirazione, fino in fondo uomo del suo tempo, da quelle convulse e drammatiche vicende in cui finì col rimanere invischiato.

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