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giovedì 14 luglio 2022

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 14 luglio.
Il 14 luglio 1902 il campanile di San Marco a Venezia crollò.
Nel 1902 la Loggetta del Sansovino, ai piedi del lato Est del campanile di San Marco, aveva bisogno di interventi di restauro: da tempo vi erano delle infiltrazioni di pioggia.
A provvedervi, venne incaricato l'Ufficio per la Conservazione dei Monumenti del Veneto che designò il proprio architetto Domenico Rupolo a dirigere i lavori con l'assistenza di Antonio Moresco.
Nel giugno di quell'anno iniziò la sostituzione delle lastre di piombo che ricoprivano il tetto della Loggetta.
Lunedì 7 luglio il Rupolo ed il Moresco si accorsero di una fessurazione trasversale sul muro di laterizi del campanile, vicino al tetto della Loggetta. Il Rupolo fece subito rapporto all'Ufficio Regionale per la Conservazione dei Monumenti, dal quale dipendeva.
Martedì 8 luglio agli occhi del Rupolo e del Moresco la crepa nell'angolo Nord-Est sembrava essersi allargata.
Mercoledì 9 luglio la fessura appariva ancora più larga: esaminata da vicino, i due tecnici si accorsero che il materiale che c'era all'interno si sbriciolava anche solo entrandovi con la mano, con grande facilità.
L'architetto Rupolo presentò un secondo rapporto con il quale, tra l'altro, chiedeva che fosse ordinato dalle autorità di tenere sgomberata la Piazza.
Giovedì 10 luglio la fessura camminò verticalmente verso l'alto del lato Nord in corrispondenza dei finestrini del campanile. Alle ore 15 venne compiuto un sopralluogo.
Venerdì 11 luglio il custode Pietro Ubaldo Caroncini sentì cadere qualcosa all'interno del campanile, come si fosse trattato di sassi.
Il Direttore dell'Ufficio Regionale per la Conservazione dei Monumenti, l'ingegnere ed architetto Federico Berchet, scrisse all'ingegnere Pietro Saccardo, Proto di San Marco, manifestandogli la propria preoccupazione ed invitandolo a mettersi in contatto al più presto direttamente con l'architetto Rupolo che seguiva sul posto gli sviluppi.
Sabato 12 luglio la fessurazione era ormai visibile a tutti: era arrivata all'altezza del quinto finestrino e si era allargata, nel corso della giornata, di un centimetro.
Il Prefetto di Venezia Giovanni Cassis nominò una commissione tecnica per affrontare l'emergenza del campanile: ne facevano parte l'ingegnere Federico Berchet, che ne era anche il Presidente, l'ingegnere Pietro Saccardo e Alberto Torri, ingegnere capo del Genio Civile.
La Commissione effettuò un sopralluogo sul campanile rilevando che il problema stava in una vecchia fenditura che si era aperta a seguito della caduta di una saetta il 23 aprile 1747 e nella riparazione che allora venne compiuta da Bernardino Zendrini (1679-1747).
In attesa di prendere qualche provvedimento definitivo, si stabilì di effettuare una ritenuta provvisoria dell'angolo Nord-Est del campanile con dei tiranti in acciaio che l'avrebbero tenuta allacciata a punti di sicurezza.
Per precauzione venne eretta attorno alla base una piccola staccionata in legno per proteggere i numerosi curiosi dalla caduta di qualche calcinaccio proveniente dagli assaggi.
Domenica 13 luglio la crepa aveva raggiunto la cella campanaria. Alle 14 la commissione fece un altro sopralluogo sul campanile e constatò che tutte le spie di vetro collocate lungo la fessura risultavano spaccate, a segnalare che questa si era ulteriormente allargata.
Alle 16 di quello stesso giorno la commissione venne ricevuta dal Prefetto di Venezia: non pareva comprendere la gravità della situazione ed escluse la possibilità di un crollo totale, ritenendo piuttosto molto probabile il pericolo di un crollo parziale nei giorni successivi.
Il Prefetto, per misura cautelare, ordinò la chiusura al pubblico del campanile e la sospensione del suono delle campane. Alla sera il questore ordinò anche la sospensione di un concerto in Piazza della banda del 18° Reggimento di Fanteria, diretta dal Maestro Battista: in programma  musiche dal "Rigoletto" di Giuseppe Verdi (1813-1901), dai "Maestri Cantori di Norimberga" di Richard Wagner (1813-1883) e da "Galatea" di Franz von Suppé (1819-1895). La gente non sapeva il motivo di questo provvedimento e faceva le congetture più strane: che fosse morto il Re Edoardo VII d'Inghilterra (1841-1910) o Re Nicola del Montenegro (1841-1921) o che ci fosse stato un attentato ferroviario a Re Vittorio Emanuele III (1869-1947); qualcuno sosteneva che era stato ordinato per la prossima caduta del campanile. Più tardi si venne a sapere che la musica era stata sospesa per evitare assembramenti di gente in Piazza attorno al campanile.
Lunedì 14 luglio, alle 5.30 del mattino, l'architetto Rupolo era già in Piazza: doveva provvedere a far eseguire le allacciature allo spigolo del campanile.
Salì in alto e vide nuovamente rotte quelle spie di vetro lungo la crepa che erano state ripristinate il giorno prima: la fenditura si era «spaventosamente allargata».
Si dice che il suo assistente, Antonio Moresco, che si trovava sulla Loggetta, vedendo la fessura esclamasse: «Qua femo la morte dei zorzi!» (Qui facciamo la morte dei topi!).
Caddero alcune pietre frammiste a calcinacci: a questo punto il Moresco lasciò liberi gli operai di andarsene.
L'architetto Rupolo e l'ingegnere Saccardo si presentarono dal prefetto che chiese loro per quanto tempo il campanile potesse ancora resistere; per il Rupolo al massimo quattro o cinque giorni.
Intanto si chiesero all'Arsenale di Venezia i cavi d'acciaio necessari per imbrigliare l'angolo del campanile.
Poco dopo le 9 del mattino la commissione era a San Marco per fare un sopralluogo sul campanile, ma l'architetto Rupolo si oppose impedendo di salire: a prima vista gli era evidente che la fessura in sole tre ore si era allargata a vista d'occhio.
Rupolo e Moresco corsero quindi dal custode Pietro Ubaldo Caroncini che aveva un piccolo alloggio all'interno della torre: non riuscendo a convincerlo di allontanarsi, dovettero trascinarlo di forza tirandolo per un braccio.
Venne allargata l'area protetta dalla staccionata che venne spostata oltre il terzo pilo portabandiera in bronzo, opera di Alessandro Leopardi (morto nel 1522/23), quasi all'imboccatura delle Mercerie sotto la Torre dell'Orologio.
Verso le 9.30 arrivò una squadra di guardie municipali addette agli incendi: portavano una lunga scala per esaminare da vicino la fenditura del campanile.
Non appena la scala venne appoggiata sulla parete Nord delle torre cominciarono a staccarsi pietre e pezzi di calcinacci che caddero rumorosamente al suolo.
L'ingegnere Rambaldo Gaspari, comandante della squadra, intuì subito l'imminenza del crollo: fece staccare la scala e con quella sospinse il pubblico di curiosi che si era andato ingrossando verso le Procuratie Vecchie. Urlando ordinò lo sgombero immediato della Piazza e della Piazzetta che in pochi minuti diventarono deserte, ponendo delle guardie al ponte della Paglia ed all'Ascensione per isolare la zona.
Intanto l'architetto Rupolo con il suo assistente Moresco corsero sotto le Procuratie Nuove per sgomberare i negozi.
Alle 9.40 circa attorno al campanile c'erano solo dodici persone: cinque guardie municipali, due guardie di pubblica sicurezza, due operai, l'architetto Rupolo con il Moresco e l'ingegnere Gaspari.
Dopo pochi minuti si sentì un rumore profondo e secco che qualcuno paragonò ad un gemito di dolore: la fessura si allargò crescendo a vista d'occhio facendo fuoriuscire un'eruzione di pietre. Quella dozzina di persone che era restata fino all'ultimo sotto il campanile se la diede a gambe. Un enorme masso di due metri fu visto staccarsi dall'angolo Nord-Est schiantandosi sulla Loggetta e poi seguì una cascata di pietre e mattoni.
La fessura si spalancò all'improvviso vomitando pietre, la cuspide con l'angelo parve dondolare fino a scomparire quando il campanile si accasciò su se stesso.
Erano le ore 9.47 del mattino.
Le testimonianze raccontano di un urlo che si levò all'unisono dalla folla accalcata sotto le Procuratie Vecchie mentre il fragore provocato dal crollo fu udito in molte parti di Venezia.
Piazza San Marco tremò tutta, come ci fosse stato un terremoto.
Si levò alta una fittissima nube di polvere che riuscì ad oscurare il sole non solamente in Piazza ma in quasi tutta la città: chi era lontano da San Marco credette che fosse in arrivo un temporale. La polvere si depositò sui tetti delle case e sulle calli.
Ci fu un fuggi fuggi generale tra i curiosi sotto le Procuratie Vecchie ma anche tra i numerosi avventori del Caffè Aurora che si erano seduti, curiosi, per seguire le operazioni degli ingegneri e delle guardie civiche.
Al diradarsi della nuvola apparve una sagoma conica di detriti alta più di dieci metri mentre cominciava a farsi sentire l'odore del gas che fuoriusciva da alcuni lampioni dell'illuminazione pubblica che erano stati divelti dal crollo.
Grazie allo sgombero della Piazza ordinato appena un quarto d'ora prima e subito eseguito, non ci furono vittime.
Anche la Basilica era restata indenne: la colonna del bando, posta davanti all'angolo Sud-Ovest della cattedrale, restò travolta frenando la corsa delle macerie che si fermarono appena prima delle delicate colonne d'angolo.
Non fu così per la Loggetta del Sansovino che venne seppellita di pietre dal crollo: per uno strano effetto, la terrazza antistante la Loggetta era scivolata in avanti, restando comunque coperta dalle macerie.
Era invece crollato il tetto della Libreria sansoviniana e la facciata del primo piano: dallo squarcio si riusciva a vedere l'interno della sala.
Furono devastati, o danneggiati in vario modo, cinque negozi sotto le Procuratie Nuove.
La cella con le campane cadde verso la Piazzetta.
Dal cumulo di macerie emergevano due simboli del campanile: il primo era l'angelo dorato, disegnato da Luigi Zandomeneghi (1778-1850), che era stato collocato sulla cuspide il 30 luglio 1822; nella caduta era rotolato di fronte alla porta principale della Basilica.
Il secondo era la campana maggiore, chiamata Marangona a ricordare la vecchia Marangona che suonava ai tempi della Repubblica, che era stata fusa nel 1820 sotto la seconda dominazione austriaca.
Mentre l'angelo si era rotto in molti pezzi con il meccanismo che gli consentiva di ruotare attorno al proprio asse per indicare la direzione del vento irrecuperabile, la campana fu l'unica, a differenza delle sue compagne, a risultare pressoché intatta.
La notizia del crollo si diffuse rapidamente nella città: nessuno voleva crederci, sembrava una cosa impossibile. Chi ne aveva la possibilità si spinse nei piani alti delle case, o sulle altane o nei luoghi soliti da cui si poteva vedere un pezzettino del Paròn de casa: l'angelo, la cuspide o la loggia.
Ma il cielo era libero, anzi coperto da una pesante nuvola di polvere.
Non si voleva ancora credere ai propri occhi: così ci fu un vero e proprio frenetico pellegrinaggio verso la Piazza, si parlava di una folla enorme che si aggiungeva a quanti già vi erano da prima.
Naturalmente vi fu anche il Sindaco di Venezia Filippo Grimani (1850-1921) ad accorrere ed i testimoni raccontarono che «...fu visto piangere...».
Era Patriarca di Venezia il Cardinale Giuseppe Sarto (futuro Papa Pio X) che, ci tramandano le cronache, accolse la notizia con «...così vivo dolore da sentirne discapito alla salute.».
La notizia non si diffuse solo in città, ma si propagò con rapidità in tutto il mondo: il Re Vittorio Emanuele III si trovava a Pietroburgo ospite dell'Imperatore di Russia Nicola II Romanov (1868-1918) che gli porse «...le condoglianze per tanto disastro...».
A Venezia giunsero manifestazioni di dispiacere da tutto il mondo: l'Imperatore di Germania Guglielmo II (1859-1941) le inviò per mezzo del proprio Console in città, mentre la Regina Madre Margherita di Savoia (1851-1926), vedova di Re Umberto I e madre di Vittorio Emanuele III, telegrafò da Stupinigi al Sindaco Grimani: «La disgrazia artistica che colpisce codesta cittadinanza mi ha profondamente addolorata.
Nel primo sgomento non so figurarmi il pittoresco profilo di Venezia senza il suo Campanile e le meraviglie di San Marco senza la loggia del Sansovino.
Il dolore di Venezia sarà diviso da tutti coloro che hanno intelletto d'arte e venerazione per la sua storia gloriosa...».
Intanto il Sindaco Grimani ed il Prefetto Giovanni Cassis (1853-1938) nominarono subito due commissioni tecniche per verificare se altri edifici prospicienti la Piazza avessero subito dei danni, ma l'esame diede esito negativo.
Il Sindaco indisse un Consiglio Comunale straordinario per le 21 di quello stesso giorno.
Intanto alle 4 del pomeriggio iniziò il primo sgombero delle macerie: erano quelle che avevano colpito la Libreria sansoviniana ed erano restate in bilico con parte del tetto. Si lavorò anche alle condutture del gas e solo un po' prima della mezzanotte si riuscì a ripristinare in piccola parte l'illuminazione della Piazza.
Alle 21 ebbe inizio il Consiglio Comunale in una sala gremita di folla nervosa ed agitata.
Le prime parole del Sindaco furono «Una sventura, una grave sventura...»; quando poi pronunciò le parole «...il campanile e la loggetta dovranno certamente ricostruirsi e il Comune vi darà il primo impulso con il suo contributo...» si levò tra il pubblico un lungo applauso.
Da parte dei consiglieri intervenuti ci furono riferimenti sulla ricerca delle responsabilità, ma in genere prevalse un atteggiamento di concordia civica ed alla fine la delibera proposta dal Sindaco Grimani che prevedeva un primo stanziamento di mezzo milione di lire per la ricostruzione del campanile e della Loggetta venne approvata all'unanimità.
Nonostante sia generalmente dato per scontato che in quella seduta del Consiglio Comunale sia stato deciso che il campanile dovesse essere ricostruito «Dov'era e com'era», Giulio Lorenzetti (1886-1951) nel suo "Venezia e il suo estuario" nel 1926 scriveva: «...il Consiglio Comunale, riunitosi di urgenza la sera stessa del disastro, deliberava che il Campanile dovesse risorgere "dov'era e com'era"...», le ricerche condotte dal giornalista Leopoldo Pietragnoli hanno appurato che di quel motto non c'è traccia né nella delibera comunale, né nel discorso del Sindaco, né nel resoconto della seduta.
Il «Dov'era e com'era» nascerà più tardi.
Inutile dire che i quotidiani l'indomani si scatenarono sull'argomento con titoli a tutta pagina: "Il Gazzettino" uscì addirittura listato a lutto!
Al di là del racconto della cronaca di quel giorno, i giornali si schierarono diversamente secondo l'orientamento politico: quelli moderati, vicini allo schieramento del Sindaco, scrissero di un crollo avvenuto per la vetustà dell'antico millenario manufatto, quelli progressisti cercarono la responsabilità negli uomini e più di qualcuno volle indicare nei lavori che si stavano facendo sulla Loggetta la causa scatenante del crollo.
Achille Beltrame (1871-1945) disegnò una realistica rappresentazione delle macerie subito dopo il crollo per la prima pagina de "La Domenica del Corriere" del 27 luglio, con il titolo «Ciò che è rimasto del campanile di San Marco, a Venezia, dopo il crollo avvenuto il 14 corrente».
Naturalmente venne nominata una commissione d'inchiesta, presieduta dal Ministro della Pubblica Istruzione Nunzio Nasi (1850-1935).
Martedì 15 luglio, verso mezzogiorno, una recinzione alta due metri chiudeva completamente il cumulo di macerie, ma già dalla mattina operai dell'Ufficio per la Conservazione dei Monumenti del Veneto erano al lavoro per sgomberare l'area del crollo, recuperando tutti i frammenti artistici: vennero subito ritrovate, un po' malconce, le porte in bronzo della Loggetta.
Nello stesso giorno il Comune di Venezia pubblicò un manifesto che rendeva noto che «Il Consiglio del Comune, rispondendo al sentimento ed al voto dei Veneziani, affermava (...) che il campanile e la loggietta di S. Marco dovessero ricostruirsi (non era detto "Com'era e dov'era" - N.d.R.), a testimonianza che il popolo nostro non piega sotto la fatale catastrofe che seppelliva nelle rovine, tanti secoli di sacre gloriose memorie, fuse nella gloria maggiore della risurta nazione.».
Con questo manifesto il Sindaco Grimani apriva una sottoscrizione «...ai miei concittadini, a quanti sentono la grandezza mondiale che rifulge nel nostro S. Marco, a quanti ricordano virtù di sacrifici durati nel nome e col santo orgoglio di figli della città meravigliosa...» e concludeva che «Le oblazioni saranno ricevute dalla Segreteria del Municipio.».
Nei giorni successivi cominciarono a giungere al Comune le donazioni ed i contributi per la ricostruzione del campanile: tra i primi quelli del Re d'Italia, Vittorio Emanuele III, della Regina Madre Margherita di Savoia, 200 mila lire dal Consiglio Provinciale, 100 mila lire dalla Cassa di Risparmio e poi da Comuni d'Italia e da privati.
Intanto per la rimozione delle macerie venne impiegato l'esercito che mise a disposizione un'ottantina di soldati del Genio e della Fanteria.
La direzione dei lavori venne affidata all'archietto e archeologo veneziano Giacomo Boni (1858-1925), direttore degli scavi del Foro Romano, che nel 1885 aveva eseguito dei sondaggi sulle fondazioni del campanile.
Il recupero delle macerie, che si protrasse per sei mesi, venne fatto con la massima attenzione, suddividendo i mattoni dai frammenti lapidei più pregiati dell'apparato decorativo del campanile e della Loggetta che furono custoditi in Palazzo Ducale.
Furono anche rinvenuti mattoni d'epoca romana, lapidi e cippi romani, pietre bizantine, cocci di terracotta, monete e frammenti di vetro, tra cui i resti di un calice di vetro smaltato che venne ribattezzato come «la coppa del campanile».
Si aprì anche un dibattito sulla destinazione di quelle macerie sulle quali aleggiava lo spirito del campanile: vi fu persino chi propose di riunirle in un'isola ed usarle per fabbricare un mausoleo dedicato al campanile! Ci si accontentò di erigere una collinetta ai Giardini di Castello «...a perpetuo ricordo.».
Il materiale architettonico fu portato nell'isola di San Giorgio e altri mattoni in quella di Santa Maria della Grazia, il resto fu gettato nel mare Adriatico, seppellito «...in eterno da quelle acque stesse che fecero la gloria di Venezia...»: i luoghi prescelti furono uno davanti a San Nicolò, a 200 metri dalla diga, poco prima del faro, e l'altro più al largo, a circa 3 miglia dalla costa dove il mare è profondo 14 metri.
Il primo viaggio, organizzato dall'architetto Boni martedì 22 luglio alle 15.30, aveva la parvenza di un vero e proprio funerale: un barcone (il Costanzo) riempito di cento metri cubi di macerie partì dal molo di fronte alla Zecca trainato da un rimorchiatore. Sul carico il Boni aveva collocato un grosso mattone dei più antichi, probabilmente proveniente da Aquileia, contornato da rami d'alloro sul quale aveva scritto la data del crollo: 14 luglio 1902.
Una folla silenziosa assistette alla partenza di questo inusuale feretro. Arrivato sul luogo prescelto per lo scarico a mare, una bambina di nome Gigeta che era salita sul barcone con il Boni lanciò il mattone in mare, dando simbolicamente inizio alla "sepoltura" dei resti del campanile.
Le cronache dell'epoca ci riportano che durante il viaggio di ritorno Gigeta teneva il pugno chiuso: dal cumulo di macerie la bambina aveva sottratto «...un tochetìn de matòn del campaniel.».
La festa del Redentore in quell'anno si sarebbe dovuta tenere domenica 20 luglio (la terza domenica di luglio) con la tradizionale veglia alla vigilia, nella notte tra sabato e domenica. Ma a causa dei lavori di sgombero delle macerie, che ancora invadevano il passaggio tra San Marco e la Piazzetta ostruito dalle rovine, vista l'impossibilità di ripristinare per sabato 19 luglio «...la viabilità in vicinanza del Bacino di S. Marco senza pericoli per l'ordine pubblico...» in accordo con le autorità governative e quelle ecclesiastiche, giovedì 17 luglio venne deciso di rimandare ad una domenica d'agosto da stabilire «...tanto la solennità religiosa, quanto la storica veglia e gli altri spettacoli già predisposti per la Festa del Redentore...».
Successivamente il Redentore poté celebrarsi in ritardo domenica 10 agosto, con la veglia sabato 9.
Sgomberando la Piazza continuarono ad emergere frammenti importanti: il 21 luglio furono ritrovate le dita spezzate della statua di Mercurio, il 24 luglio furono trovati dei pezzi di campana ed alle 19.30 la statua della Pace, il 29 luglio fu la volta di Minerva.
I lavori di sgombero ebbero termine all'inizio del 1903, quando venne demolito il mozzicone di campanile che ancora restava.
Adesso si poteva dar corso alla riedificazione.

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