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mercoledì 13 febbraio 2013

#Thriller: Il Maresciallo - Parte II

© 2013 Accademia dei Sensi
Licenza CC BY-NC-ND 3.0
 di Gaspare Polizzi


 Questi si alzò, salutò la donna – che sembrava essersi dimenticata della sua presenza – e uscì dal casolare. Bellantoni e Romor avevano completato il loro lavoro, e i tre s'incamminarono lentamente verso il paese.
 Alla sera, prima di cena, il Maresciallo si concesse una partita a dama con Don Luciano: gli era simpatico quel prete pallido, timido, caparbio e solo apparentemente fragile, e nella sua compagnia e nella concentrazione del gioco scioglieva le tensioni o la noia delle giornate di servizio. E mentre Don Luciano, con aria serafica, mangiava l'ennesima pedina, il Maresciallo (forse con la segreta intenzione di distrarre il suo avversario) gli raccontò della strage delle galline e degli alberi, e dell'atteggiamento ostinato della donna, e delle sue strane frasi.
 “Lei non conosceva la Signora Marta, vero?”, domandò il prete “Lasci che Le dica qualcosa di quella povera donna.” E Don Luciano raccontò: Marta Cassetti viveva in quella casa da quando si era sposata, trent'anni prima. Aveva avuto tre figli maschi. Il primogenito era partito a cercar lavoro, e se n'erano perse le tracce. Si diceva che fosse in Belgio, a fare il minatore, o in Olanda, imbarcato su un rimorchiatore. I due figli più giovani erano rimasti in paese, ed erano cresciuti lavorando nei campi insieme al padre. Allo scoppio della guerra, il secondogenito era partito coscritto, ed era morto durante la campagna di Grecia. Per la madre e il padre, uno strazio.
 Il più giovane, che mostrava simpatie antifasciste, era tenuto costantemente d'occhio. Un bel giorno, si era dato alla macchia, e aveva costituito, insieme ad altri giovani della zona, un piccolo nucleo di partigiani, male organizzati e peggio armati. Comunque, erano riusciti a dare qualche fastidio alla guarnigione tedesca acquartierata in paese: qualche scaramuccia, il furto di un camion di vettovaglie, cose così. Fino a quando erano stati sorpresi nottetempo da un reparto nemico: li avevano disarmati, legati e rinchiusi in un ovile, e poi avevano lanciato dentro le bombe a mano. Alla strage aveva assistito, da lontano, un pastore, che aveva avvisato i parenti di coloro che aveva riconosciuto.
 La morte atroce del figlio e dei suoi compagni aveva suscitato in quella donna l'orrore per qualunque arma. Malediceva chiunque ne portasse una, cacciatore, soldato o bandito che fosse. Aveva perfino gettato in un pozzo i coltelli e l'ascia del marito. E i monelli del paese ne avevano fatto il loro zimbello: la chiamavano “la pazza di Duerivi”, e nei pomeriggi d'estate si presentavano davanti alla sua casa con rami di salice come archi e fucili e fingevano battaglie e assalti, finché il pianto e le maledizioni della loro vittima li inducevano a scappar via.
 Il marito di Marta era morto poco tempo dopo. Una sincope, mentre zappava l'orto.
Si diceva che i Tedeschi fossero stati avvisati da uno del paese: una spia che, per farsi bello con i più forti, o farsi perdonare qualche mancanza, aveva venduto quei poveri giovani. La Signora Marta s'era fatta convinta che quella spia fosse il farmacista, e non perdeva occasione per accusarlo e urlargli il suo disprezzo; specialmente la domenica, davanti alla chiesa. Infatti, in quegli anni Marta, si era recata in paese assai di rado, quasi soltanto per assistere alle funzioni religiose. Poi, da quasi un anno aveva smesso di frequentare la chiesa. A Don Luciano, che era andato a trovarla, aveva detto che la gente le sembrava sciocca e cattiva, e che oramai sentiva Dio vicino a sé soltanto nella solitudine della campagna. E, confessò il prete, in quel momento era stato tentato di darle ragione, mestamente.

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