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domenica 10 febbraio 2013

Giorno del #Ricordo: per riflettere

Wikimedia
 Se il 27 gennaio l’ONU celebra il Giorno della Memoria, il 10 febbraio la Repubblica Italiana onora il Giorno del ricordo. Cosa ne deduco? Che per gli italiani che notano e seguono queste ricorrenze possono essere due settimane di riflessione. Su cosa? Sulle pulizie etniche di metà secolo scorso? Sulle vittime della Seconda Guerra Mondiale? Sugli orrori cui è capace l’uomo contro se stesso sotto i regimi totalitari? Non soltanto.
 Da molto tempo, negli ultimi anni con l’Accademia dei Sensi, invito a riflettere non solo sull’Olocausto ma su tutti i genocidi della storia, perché se lo sterminio degli Ebrei è caratterizzato contemporaneamente e in forma estrema da  tutti gli elementi che qualificano il genocidio, tuttavia esso non resta il più grave per dimensioni ed effetti. Basti, solo a titolo esemplificativo, quello a danno dei nativi americani, che avrebbe riguardato circa 70 milioni di individui per diversi secoli e che ha cancellato civiltà e culture proprie in particolare del Nordamerica.
 La Seconda Guerra Mondiale, almeno a mio parere, al momento, rappresenta un picco assoluto storico di conflitto tra i popoli di tutto il mondo che trova le proprie radici nel colonialismo del secolo precedente, è l’effetto dell’evoluzione dei nazionalismi e dell’economia moderna ed ha una importantissima premessa nella Grande Guerra. Insomma: per quanto grave e trascorsa, essa è fase di un’epoca storica che persiste.
 Il totalitarismo è una forma politica da cui ci siamo liberati da quasi settant’anni ma, almeno a mio parere, cui siamo tutt’altro che immuni. In conseguenza, non saremmo neanche in grado di scongiurare gli effetti più gravi che abbiamo già conosciuto.
 Ma altro è quello che vorrei dire.
 Anzitutto mi piace sottolineare la peculiarità della successione temporale delle due commemorazioni: dalla più grave e universale alla più particolare e domestica: essa traccia un itinerario mentale che inesorabilmente arriva nella casa dei nostri nonni (quella del mio era al Pagliarone) e la cui direzione attraversa l’animo di ciascuno di noi.
 Se due settimane fa nel mio piccolo ho trovato una sommaria convergenza di opinioni circa il ricordo della Shoah, oggi mi sono soffermato sui differenti sentimenti che persistono circa la memoria delle Foibe.

« Tali avvenimenti si verificarono in un clima di resa dei conti per la violenza fascista e di guerra ed appaiono in larga misura il frutto di un progetto politico preordinato, in cui confluivano diverse spinte: l'impegno ad eliminare soggetti e strutture ricollegabili (anche al di là delle responsabilità personali) al fascismo, alla dominazione nazista, al collaborazionismo ed allo stato italiano, assieme ad un disegno di epurazione preventiva di oppositori reali, potenziali o presunti tali, in funzione dell'avvento del regime comunista, e dell'annessione della Venezia Giulia al nuovo Stato jugoslavo. L'impulso primo della repressione partì da un movimento rivoluzionario che si stava trasformando in regime, convertendo quindi in violenza di Stato l'animosità nazionale ed ideologica diffusa nei quadri partigiani. »
(Relazione della Commissione storico-culturale italo-slovena, Relazioni italo-slovene 1880-1956, "Periodo 1941-1945", Paragrafo 11, Capodistria, 2000)

 La ricerca su cui fondo questa riflessione è tratta da Wikipedia e il lemma circa l massacri delle foibe è ritenuta da controllare e non neutrale: già in questo si capisce come la materia sia ancora lontana dalla storia e la recensione dei riferimenti bibliografici, dai contenuti tra loro spesso controversi, insinua un clima di dibattito acceso piuttosto che una condizione di lettura storica.

« ... va ricordato l'imperdonabile orrore contro l'umanità costituito dalle foibe (...) e va ricordata (...) la "congiura del silenzio", "la fase meno drammatica ma ancor più amara e demoralizzante dell'oblio".

Anche di quella non dobbiamo tacere, assumendoci la responsabilità dell'aver negato, o teso a ignorare, la verità per pregiudiziali ideologiche e cecità politica, e dell'averla rimossa per calcoli diplomatici e convenienze internazionali. »
(Discorso del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in occasione della celebrazione del "Giorno del ricordo". Roma, 10 febbraio 2007)

 Il Presidente disse parole chiare in proposito: in esse sono contenuti comprensione, moniti e motivi di riflessione per tutti: protagonisti, vittime, responsabili, posteri. Trovo questo il discorso più appropriato e auspicabile da un Capo dello Stato, che in qualche modo rompe la linea del partito cui ha appartenuto ma anche ammonisce quanti hanno spinto la denuncia per cercare di diminuire le responsabilità proprie e di coloro cui si ispirano nell’orientamento ideologico.

«...l'eco delle stragi del 1943 e del 1945 fu assai forte presso l'opinione pubblica italiana: da ciò un'immediata esigenza di spiegare l'accaduto, che non poteva non inserirsi nel clima di violente contrapposizioni nazionali e politiche del momento. Così, quasi subito, presero corpo due opposte versioni dei fatti e due letture antagoniste del loro significato, l'una italiana e l'altra jugoslava. Il perdurare delle tensioni italo-jugoslave fino alla seconda metà degli anni cinquanta (la "questione di Trieste" venne risolta nel 1954 e l'esodo degli italiani dall'Istria si concluse non prima del 1956) fece sì che tali interpretazioni "militanti", finalizzate cioè a mettere polemicamente in crisi l'avversario, si consolidassero presso le forze politiche e la pubblica opinione. A tutt'oggi, nonostante esse abbiano dimostrato tutta la loro fragilità sul piano scientifico, continuano a essere largamente diffuse, non solo perché ben radicate nella memoria locale, ma anche perché si prestano a un uso politico che non è mai venuto meno, mentre le semplificazioni, spesso assai grevi, di cui sono intessute, ne favoriscono l'utilizzo da parte dei mezzi di comunicazione.»
(Pupo, Spazzali, Foibe, Bruno Mondadori, 2003)

 Scorrendo le opinioni in merito nel tempo, scrutando tra le citazioni dei saggi scritti sull’argomento, resto perplesso su aspetti quale la guerra dei numeri e la qualità delle vittime, così come lo sono quando si parla dei fatti successivi all’armistizio che mise fine alla Seconda Guerra Mondiale. Ciò che osservo è che dopo due generazioni da quell’epoca, nel corso di quella che correntemente viene arbitrariamente chiamata Seconda Repubblica, la suggestione che determinò la Prima è ancora insinuata nello stomaco, più che nella mente, del popolo, alimentandone fobie che non gli appartengono più per distogliere l’attenzione ai temi concreti del quotidiano contemporaneo.
 Le sfide attuali in campo economico, demografico, culturale hanno una dimensione internazionale ed è impensabile seguitare a rivendicarne il valore sotto il profilo nazionalistico. L’unica via di sviluppo possibile, a mio parere, è nella dimensione europea. La memoria degli stermini del secolo scorso non serve a decidere quanto siano stati colpevoli coloro che li hanno perpetrati, non serve a ricordare quanti morti hanno insanguinato le bandiere, non è possibile distinguere tra caduti militari e vittime civili, è inaccettabile discriminare gli uccisi tra persecutori e perseguitati: i morti in guerra sono comunque morti e significano cessazione della civiltà, non la sua rinascita.
 Questi giorni servono per riflettere su circostanze e cause dei conflitti, per capire come essi non scaturiscano da un bisogno del popolo ma dall’ambizione dei potenti, di come questi evolvano nel loro dominio, fino ad arrivare ad avvilire il proprio popolo, per cercare una via alternativa, pacifica, umana. Per fermarci, liberi dall'odio, e pregare.

© 2013 Accademia dei Sensi - Licenza CC BY-NC-ND 3.0

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