Buongiorno, oggi è il 2 novembre.
Secondo la tradizione cristiana, il 2 novembre è il giorno della commemorazione dei defunti.
La commemorazione dei fedeli defunti appare già nel secolo IX, in continuità con l’uso monastico del secolo VII di consacrare un giorno completo alla preghiera per tutti i defunti. Amalario, nel secolo IX, poneva già la memoria di tutti i defunti successivamente a quelli dei santi che erano già in cielo. E’ solo con l’abate benedettino sant’Odilone di Cluny che questa data del 2 novembre fu dedicata alla commemorazione di tutti i fedeli defunti, per i quali già sant’Agostino lodava la consuetudine di pregare anche al di fuori dei loro anniversari, proprio perché non fossero trascurati quelli senza suffragio. La Chiesa è stata sempre particolarmente fedele al ricordo dei defunti. Nella professione di fede del cristiano noi affermiamo: “Credo nella santa Chiesa cattolica, nella comunione dei Santi…”. Per “comunione dei santi” la Chiesa intende l’insieme e la vita d’assieme di tutti i credenti in Cristo, sia quelli che operano ancora sulla terra sia quelli che vivono nell’altra vita in Paradiso ed in Purgatorio. In questa vita d’assieme la Chiesa vede e vuole il fluire della grazia, lo scambio dell’aiuto reciproco, l’unità della fede, la realizzazione dell’amore. Dalla comunione dei santi nasce l’interscambio di aiuto reciproco tra i credenti in cammino sulla terra e i credenti viventi nell’aldilà, sia nel Purgatorio che nel Paradiso. La Chiesa, inoltre, in nome della stessa figliolanza di Dio e, quindi, fratellanza in Gesù Cristo, favorisce questi rapporti e stabilisce anche dei momenti forti durante l’anno liturgico e nei riti religiosi quotidiani.
Il 2 Novembre è il giorno che la Chiesa dedica alla commemorazione dei defunti, che dal popolo viene chiamato semplicemente anche “festa dei defunti”. Ma anche nella messa quotidiana, sempre riserva un piccolo spazio, detto “memento, Domine…”, che vuol dire “ricordati, Signore…” e propone preghiere universali di suffragio alle anime di tutti i defunti in Purgatorio. La Chiesa, infatti, con i suoi figli è sempre madre e vuole sentirli tutti presenti in un unico abbraccio. Pertanto prega per i morti, come per i vivi, perché anch’essi sono vivi nel Signore. Per questo possiamo dire che l’amore materno della Chiesa è più forte della morte. La Chiesa, inoltre, sa che “non entrerà in essa nulla di impuro”.
Nel convento di Cluny viveva un santo monaco, l’abate Odilone, che era molto devoto delle anime del Purgatorio, al punto che tutte le sue preghiere, sofferenze, penitenze, mortificazioni e messe venivano applicate per la loro liberazione dal purgatorio. Si dice che uno dei suoi confratelli, di ritorno dalla Terra Santa, gli raccontò di essere stato scaraventato da una tempesta sulla costa della Sicilia; lì incontrò un eremita, il quale gli raccontò che spesso aveva udito le grida e le voci dolenti delle anime purganti provenienti da una grotta insieme a quelle dei demoni che gridavano contro lui, l’abate Odilone.
Costui, all’udire queste parole, ordinò a tutti i monaci del suo Ordine cluniacense di fissare il 2 Novembre come giorno solenne per la commemorazione dei defunti. Era l’anno 928 d. C. Da allora, quindi, ogni anno la “festa” dei morti viene celebrata in questo giorno. Da allora quel giorno rappresenta per tutti una sosta nella vita per ricordare con una certa nostalgia il passato, vissuto con i nostri cari che il tempo e la morte han portato via, il bene che coloro che ci hanno preceduti sulla terra hanno lasciato all’umanità, e il loro contributo all’aumento della fede, della speranza, della carità e della grazia nella chiesa. Il 2 Novembre, poi, ci riporta alla realtà delle cose richiamando la nostra attenzione sulla caducità della vita. Questo pensiero richiama il fluire del tempo intorno a noi e in noi.
Un motivo ricorre nelle tradizioni popolari della festa dei morti: la credenza che in questo giorno i cari scomparsi tornino a farci visita sulla terra. Per questa ragione, i riti di commemorazione hanno assunto in tutta Italia significati e finalità simili: accogliere, confortare, placare le anime degli avi defunti. Se è vero che oggi il culto popolare commemora i defunti attraverso il suffragio e la preghiera, è vero anche che molte delle antiche usanze vivono ancora.
Una suggestiva poesia del Pascoli, La tovaglia, rende in modo tenero e suggestivo la sensazione della presenza dei cari scomparsi in casa:
"Entrano, ansimano muti:
ognuno è tanto mai stanco!
e si fermano seduti
la notte, intorno a quel bianco.
Stanno li sino a domani
col capo tra le mani,
senza che nulla si senta
sotto la lampada spenta."
In alcune zone della Lombardia, la notte tra l'1 e il 2 novembre si suole ancora mettere in cucina un vaso di acqua fresca perché i morti possano dissetarsi.
In Friuli si lascia un lume acceso, un secchio d’acqua e un po’ di pane.
Nel Veneto, per scongiurare la tristezza, nel giorno dei morti gli amanti offrono alle promesse spose un sacchetto con dentro fave in pasta frolla colorata, i cosiddetti "Ossi da Morti".
In Trentino le campane suonano per molte ore a chiamare le anime che si dice si radunino intorno alle case a spiare alle finestre. Per questo, anche qui, la tavola si lascia apparecchiata e il focolare resta acceso durante la notte.
Anche in Piemonte e in Val D’Aosta le famiglie lasciano la tavola imbandita e si recano a far visita al cimitero. I valdostani credono che dimenticare questa abitudine significhi provocare tra le anime un fragoroso tzarivàri (baccano).
Nelle campagne cremonesi ci si alza presto la mattina e si rassettano subito i letti affinché le anime dei cari possano trovarvi riposo. Si va poi per le case a raccogliere pane e farina con cui si confezionano i tipici dolci detti "ossa dei morti".
In Liguria la tradizione vuole che il giorno dei morti si preparino i "bacilli" (fave secche) e i "balletti" (castagne bollite). Tanti anni fa, alla vigilia del giorno dedicato ai morti i bambini si recavano di casa in casa per ricevere il "ben dei morti" (fave, castagne e fichi secchi), poi dicevano le preghiere e i nonni raccontavano storie e leggende paurose.
In Umbria si producono tipici dolcetti devozionali a forma di fave, detti "Stinchetti dei Morti", che si consumano da antichissimo tempo nella ricorrenza dei defunti quasi a voler mitigare il sentimento di tristezza e sostituire le carezze dei cari che non ci sono più. Sempre in Umbria si svolge ancora oggi la Fiera dei Morti, una sorta di rituale che simboleggia i cicli della vita.
In Abruzzo, oltre all’usanza di lasciare il tavolo da pranzo apparecchiato, si lasciano dei lumini accesi alla finestra, tanti quante sono le anime care, e i bimbi si mandano a dormire con un cartoccio di fave dolci e confetti come simbolo di legame tra le generazioni passate e quelle presenti.
A Roma la tradizione voleva che, il giorno dei morti, si consumasse il pasto accanto alla tomba di un parente per tenergli compagnia. Altra tradizione romana era una suggestiva cerimonia di suffragio per le anime che avevano trovato la morte nel Tevere. Al calar della sera si andava sulle sponde del fiume al lume delle torce e si celebrava il rito.
In Sicilia il 2 novembre è una festa particolarmente gioiosa per i bambini. Infatti vien fatto loro credere che, se sono stati buoni e hanno pregato per le anime care, i morti torneranno a portar loro dei doni. Quando i fanciulli sono a dormire, i genitori preparano i tradizionali "pupi di zuccaro" (bambole di zucchero), con castagne, cioccolatini e monetine e li nascondono. Al mattino i bimbi iniziano la ricerca, convinti che durante la notte i morti siano usciti dalle tombe per portare i regali.
In Sardegna la mattina del 2 novembre i ragazzi si recano per le piazze e di porta in porta per chiedere delle offerte e ricevono in dono pane fatto in casa, fichi secchi, fave, melagrane, mandorle, uva passa e dolci. La sera della vigilia anche qui si accendono i lumini e si lasciano la tavola apparecchiata e le credenze aperte.
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mercoledì 2 novembre 2022
sabato 29 gennaio 2022
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 29 gennaio.
Secondo la tradizione, i giorni dal 29 al 31 gennaio sono chiamati "i giorni della merla", e sono considerati i più freddi dell'anno.
La leggenda dei tre giorni della merla si perde nell'onda del tempo.
Una storia che ha infinite varianti da posto a posto. Una cosa é però in comune a tutti: la data. I tre ultimi giorni di gennaio, considerati appunto i più freddi nonché una specie di cartina di tornasole, dato che in base a come si presenta il tempo gli esperti sanno trarre indicazioni per come sarà il clima dell'anno.
Non conta che qualche metereologo si sia affannato a dimostrare che non tutti gli anni é così, che anzi le medie dicono che c'é qualche altro giorno più freddo. La tradizione non si é mai spenta.
La storia racconta che quei tre giorni siano i più freddi dell'anno.
Tanto freddi che una merla, che allora aveva le piume bianche, intirizzita, ma al tempo stesso preoccupata per i suoi figlioletti, non trovò di meglio che andare a posarsi su un camino. Ci stette tre giorni, perché il gelo impediva persino di volare. Poi arrivò fortunatamente febbraio. Pallido fin che si vuole ma il sole riuscì a ridare vita e speranza. Merla e figlioletti poterono stirarsi, riaprire le ali e volare. I tre giorni sul camino però avevano prodotto una profonda trasformazione nel piumaggio, divenuto nero per la fuliggine, nero senza rimedio.
Da allora i merli nacquero tutti neri.
Da una statistica tratta dalla banca dati ultra trentennale del Centro Geofisico Prealpino (periodo 1967-1999) risultano queste interessanti considerazioni:
Temperatura media dei tre giorni (29-30-31 gennaio) = 3.6 °C
Media delle t. massime dei tre giorni = 7.2 °C
Media delle t. minime dei tre giorni = 0.1 °C
Se si pensa che la temperatura media di gennaio (calcolata sullo stesso periodo di osservazioni) è 2.8°C la media di questi tre ultimi giorni risulta di quasi un grado maggiore (0.8°C) più alta.
Infatti statisticamente dopo il 10 di gennaio la temperatura tende ad aumentare. Forse la leggenda della Merla nacque in un'epoca in cui gennaio era molto più freddo di oggi, forse, non disponendo di strumenti e di statistiche la gente, sofferente già per due mesi di freddo, aveva la sensazione che il "cuore" dell'inverno fosse il periodo più freddo. Sta di fatto che, numeri alla mano, oggi non è più così.
Per gli appassionati di curiosità statistiche ecco altri "record":
Media più elevata (Merla più calda) nel 1982, con 9.3°C (+5.5°C rispetto alla media);
Media più bassa (Merla più fredda) nel 1987, con -0.9°C (-2.9°C); nel "famoso" gennaio 1985 delle nevicate abbondanti la "Merla" fu di 3.2°C, quasi nella media.
La temperatura più alta dei tre giorni si è registrata il 31.1.1982 con 19°C
La più bassa il 31.1.1987 con -8°C
Secondo la tradizione, i giorni dal 29 al 31 gennaio sono chiamati "i giorni della merla", e sono considerati i più freddi dell'anno.
La leggenda dei tre giorni della merla si perde nell'onda del tempo.
Una storia che ha infinite varianti da posto a posto. Una cosa é però in comune a tutti: la data. I tre ultimi giorni di gennaio, considerati appunto i più freddi nonché una specie di cartina di tornasole, dato che in base a come si presenta il tempo gli esperti sanno trarre indicazioni per come sarà il clima dell'anno.
Non conta che qualche metereologo si sia affannato a dimostrare che non tutti gli anni é così, che anzi le medie dicono che c'é qualche altro giorno più freddo. La tradizione non si é mai spenta.
La storia racconta che quei tre giorni siano i più freddi dell'anno.
Tanto freddi che una merla, che allora aveva le piume bianche, intirizzita, ma al tempo stesso preoccupata per i suoi figlioletti, non trovò di meglio che andare a posarsi su un camino. Ci stette tre giorni, perché il gelo impediva persino di volare. Poi arrivò fortunatamente febbraio. Pallido fin che si vuole ma il sole riuscì a ridare vita e speranza. Merla e figlioletti poterono stirarsi, riaprire le ali e volare. I tre giorni sul camino però avevano prodotto una profonda trasformazione nel piumaggio, divenuto nero per la fuliggine, nero senza rimedio.
Da allora i merli nacquero tutti neri.
Da una statistica tratta dalla banca dati ultra trentennale del Centro Geofisico Prealpino (periodo 1967-1999) risultano queste interessanti considerazioni:
Temperatura media dei tre giorni (29-30-31 gennaio) = 3.6 °C
Media delle t. massime dei tre giorni = 7.2 °C
Media delle t. minime dei tre giorni = 0.1 °C
Se si pensa che la temperatura media di gennaio (calcolata sullo stesso periodo di osservazioni) è 2.8°C la media di questi tre ultimi giorni risulta di quasi un grado maggiore (0.8°C) più alta.
Infatti statisticamente dopo il 10 di gennaio la temperatura tende ad aumentare. Forse la leggenda della Merla nacque in un'epoca in cui gennaio era molto più freddo di oggi, forse, non disponendo di strumenti e di statistiche la gente, sofferente già per due mesi di freddo, aveva la sensazione che il "cuore" dell'inverno fosse il periodo più freddo. Sta di fatto che, numeri alla mano, oggi non è più così.
Per gli appassionati di curiosità statistiche ecco altri "record":
Media più elevata (Merla più calda) nel 1982, con 9.3°C (+5.5°C rispetto alla media);
Media più bassa (Merla più fredda) nel 1987, con -0.9°C (-2.9°C); nel "famoso" gennaio 1985 delle nevicate abbondanti la "Merla" fu di 3.2°C, quasi nella media.
La temperatura più alta dei tre giorni si è registrata il 31.1.1982 con 19°C
La più bassa il 31.1.1987 con -8°C
martedì 13 aprile 2021
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 13 aprile.
Il 13 aprile è il giorno convenzionale del capodanno thailandese, chiamato Songkran. I festeggiamenti durano normalmente fino al 15.
Il Songkran è principalmente una festa religiosa che segna l'inizio dell'anno buddistha, e per i tradizionalisti rimane tale, mentre ha assunto per molti altri un senso molto più moderno e festaiolo.
Infatti la tradizione vuole che che si facciano offerte al tempio bagnando le immagini di Buddha con schizzi di acqua e pulendo a fondo le loro dimore.
Per augurare buona fortuna in modo molto più festaiolo invece si getta acqua sui passanti, una vera e propria guerra di gavettoni e secchiate d'acqua che però non può dare fastidio più di tanto considerando le temperature del periodo.
In effetti è anche conosciuto come Festival dell'acqua (Water Festival) proprio perchè la gente crede che l'acqua lavi via la sfortuna.
Curiosi sono i modi per gettare l'acqua, da secchi e canne per l'acqua, ai mitra d'acqua e fino agli elefanti.
Il Songkran segna l'ingresso nel segno dell'Ariete ed il suo nome completo è Songkran Maggiore (Maha Songkran).
Questa festività non è solamente propria della Thailandia, ma viene osservata anche in Myanmar (Birmania), Laos e Cambogia.
Narra la tradizione di un giovane molto intelligente con una capacità di apprendimento incredibile e con la capacità di comprendere il linguaggio degli uccelli. Il Dio Kabil Maha Phrom era invidioso di questo, e decise di scendere sulla terra per sfidare il giovane con tre indovinelli da risolvere in sette giorni. La posta in palio era la testa del perdente.
Il giovane vista la difficoltà degli indovinelli decise di scappare per uccidersi piuttosto che sottostare alla sconfitta. Proprio durante la fuga, fermatosi un attimo per riposare ai piedi di un albero, sentì casualmente un'aquila consolare i suoi piccoli affamati, dicendo loro che presto avrebbero potuto sfamarsi con il corpo del giovane. L'aquila raccontò ai suoi piccoli della scommessa, degli indovinelli e soprattutto diede loro anche le risposte.
A quel punto il giovane accettò la sfida vincendola e il Dio fu costretto a privarsi della testa, però molto pericolosa, in quanto se avesse toccato terra sarebbe esploso tutto e se fosse finita in mare avrebbe prosciugato tutta l'acqua a seguito di un immenso calore.
Venne allora riposta in una caverna nel Paradiso delle divinità e ogni anno una delle sette figlie del Dio, a turno, porta in processione la testa del padre seguita da molte divinità, ovviamente durante il Songkran.
Il giorno della vigilia si tengono le pulizie delle case, mentre il giorno 13 i credenti aprono i festeggiamenti alla mattina con la processione al tempio (Wat) del villaggio per portare le offerte ai monaci, disposti in piedi attorno ad un lungo tavolo e con le ciotole allineate pronte a ricevere frutta, dolci e riso.
Il pomeriggio è dedicato alla cerimonia di purificazione dell'immagine del Buddha, dopo la quale si può dare inizio alla festa del versamento dell'acqua. I più giovani omaggiano, versando rispettosamente nel palmo delle mani degli anziani e dei loro cari acqua profumata. Di seguito li aiutano poi ad asciugarsi e indossare abiti freschi e puliti con cui celebrare il nuovo anno in maniera degna.
Nei tre giorni della festa i fedeli, con candele, bastoncini di incenso e bottigliette di acqua profumata, si recano al tempio, accendono una candela e tre bastoncini di incenso posizionandoli assieme ad una coroncina di fiori nei recipienti di fronte all'altare del Buddha. Inginocchiatisi di fronte all'immagine sacra poi nel classico gesto di preghiera che vuole i palmi delle mani uno contro l'altro e toccando ripetutamente la fronte a terra, terminano il rito versando una piccola quantità di acqua nelle mani della statua del Buddha.
Il 13 aprile è il giorno convenzionale del capodanno thailandese, chiamato Songkran. I festeggiamenti durano normalmente fino al 15.
Il Songkran è principalmente una festa religiosa che segna l'inizio dell'anno buddistha, e per i tradizionalisti rimane tale, mentre ha assunto per molti altri un senso molto più moderno e festaiolo.
Infatti la tradizione vuole che che si facciano offerte al tempio bagnando le immagini di Buddha con schizzi di acqua e pulendo a fondo le loro dimore.
Per augurare buona fortuna in modo molto più festaiolo invece si getta acqua sui passanti, una vera e propria guerra di gavettoni e secchiate d'acqua che però non può dare fastidio più di tanto considerando le temperature del periodo.
In effetti è anche conosciuto come Festival dell'acqua (Water Festival) proprio perchè la gente crede che l'acqua lavi via la sfortuna.
Curiosi sono i modi per gettare l'acqua, da secchi e canne per l'acqua, ai mitra d'acqua e fino agli elefanti.
Il Songkran segna l'ingresso nel segno dell'Ariete ed il suo nome completo è Songkran Maggiore (Maha Songkran).
Questa festività non è solamente propria della Thailandia, ma viene osservata anche in Myanmar (Birmania), Laos e Cambogia.
Narra la tradizione di un giovane molto intelligente con una capacità di apprendimento incredibile e con la capacità di comprendere il linguaggio degli uccelli. Il Dio Kabil Maha Phrom era invidioso di questo, e decise di scendere sulla terra per sfidare il giovane con tre indovinelli da risolvere in sette giorni. La posta in palio era la testa del perdente.
Il giovane vista la difficoltà degli indovinelli decise di scappare per uccidersi piuttosto che sottostare alla sconfitta. Proprio durante la fuga, fermatosi un attimo per riposare ai piedi di un albero, sentì casualmente un'aquila consolare i suoi piccoli affamati, dicendo loro che presto avrebbero potuto sfamarsi con il corpo del giovane. L'aquila raccontò ai suoi piccoli della scommessa, degli indovinelli e soprattutto diede loro anche le risposte.
A quel punto il giovane accettò la sfida vincendola e il Dio fu costretto a privarsi della testa, però molto pericolosa, in quanto se avesse toccato terra sarebbe esploso tutto e se fosse finita in mare avrebbe prosciugato tutta l'acqua a seguito di un immenso calore.
Venne allora riposta in una caverna nel Paradiso delle divinità e ogni anno una delle sette figlie del Dio, a turno, porta in processione la testa del padre seguita da molte divinità, ovviamente durante il Songkran.
Il giorno della vigilia si tengono le pulizie delle case, mentre il giorno 13 i credenti aprono i festeggiamenti alla mattina con la processione al tempio (Wat) del villaggio per portare le offerte ai monaci, disposti in piedi attorno ad un lungo tavolo e con le ciotole allineate pronte a ricevere frutta, dolci e riso.
Il pomeriggio è dedicato alla cerimonia di purificazione dell'immagine del Buddha, dopo la quale si può dare inizio alla festa del versamento dell'acqua. I più giovani omaggiano, versando rispettosamente nel palmo delle mani degli anziani e dei loro cari acqua profumata. Di seguito li aiutano poi ad asciugarsi e indossare abiti freschi e puliti con cui celebrare il nuovo anno in maniera degna.
Nei tre giorni della festa i fedeli, con candele, bastoncini di incenso e bottigliette di acqua profumata, si recano al tempio, accendono una candela e tre bastoncini di incenso posizionandoli assieme ad una coroncina di fiori nei recipienti di fronte all'altare del Buddha. Inginocchiatisi di fronte all'immagine sacra poi nel classico gesto di preghiera che vuole i palmi delle mani uno contro l'altro e toccando ripetutamente la fronte a terra, terminano il rito versando una piccola quantità di acqua nelle mani della statua del Buddha.
mercoledì 5 febbraio 2020
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 5 febbraio.
Secondo la tradizione cristiana, il 5 febbraio del 251 S.Agata spirò dopo il martirio.
Si narra che fosse una giovane catanese di nobile e ricca famiglia, che a 15 anni si convertì al Cristianesimo. Studi storico-giuridici recenti portano a pensare che avesse almeno 21 anni alla conversione, per via del titolo (diaconessa) impossibile da ottenere prima di quell'età, e non oltre i 25, a causa della Lex Laetoria con la quale è stata processata.
Secondo l'editto dell'imperatore Settimio Severo, i cristiani dovevano essere arrestati ed invitati ad abiurare la fede in Dio, pena la tortura e la morte.
Il proconsole di Catania, Quinziano, secondo la tradizione si era invaghito della giovane donna; o forse, da un punto di vista storico, era più probabilmente interessato all'enorme fortuna della sua famiglia; essendo stato respinto, inviò la cortigiana Afrodisia e le sue figlie, tutte donne molto corrotte, a tentare di farle pressioni psicologiche e portarla a negare la fede in Dio. Falliti tutti i tentativi, a causa della grande rettitudine di Agata, il proconsole decise di farla processare.
La giovane non volle abiurare la fede nemmeno dopo essere stata più volte frustata, lacerata con pettini di ferro, scottata con lamine infuocate e addirittura sottoposta alla terribile violenza dello strappo delle mammelle con una tenaglia.
Questo risvolto delle torture, costituirà in seguito il segno distintivo del suo martirio, infatti Agata viene rappresentata con i due seni posati su un piatto e con le tenaglie. Riportata in cella sanguinante e ferita, soffriva molto per il bruciore e dolore, ma sopportava tutto per l’amore di Dio; verso la mezzanotte mentre era in preghiera nella cella, le appare s. Pietro apostolo, accompagnato da un bambino porta lanterna, che la risana le mammelle amputate.
Trascorsi altri quattro giorni nel carcere, viene riportata alla presenza del proconsole, il quale visto le ferite rimarginate, domanda incredulo cosa fosse accaduto, allora la vergine risponde: “Mi ha fatto guarire Cristo”.
Allora Quinziano ordina che venga bruciata su un letto di carboni ardenti, con lamine arroventate e punte infuocate.
A questo punto, secondo la tradizione, mentre il fuoco bruciava le sue carni, non brucia il velo che lei portava; per questa ragione “il velo di sant’Agata” diventò da subito una delle reliquie più preziose; esso è stato portato più volte in processione di fronte alle colate della lava dell’Etna, avendo il potere di fermarla.
Mentre Agata spinta nella fornace ardente muore bruciata, un forte terremoto scuote la città di Catania e il Pretorio crolla parzialmente seppellendo due carnefici consiglieri di Quinziano; la folla dei catanesi spaventata, si ribella all’atroce supplizio della giovane vergine, il proconsole fa togliere Agata dalla brace e la fa riportare agonizzante in cella, dove muore qualche ora dopo.
Nel 1040 le reliquie della santa furono trafugate dal generale bizantino Giorgio Maniace, che le trasportò a Costantinopoli; ma nel 1126 due soldati della corte imperiale, il provenzale Gilberto ed il pugliese Goselmo, le riportarono a Catania dopo un’apparizione della stessa santa, che indicava la buona riuscita dell’impresa; la nave approdò la notte del 7 agosto in un posto denominato Ognina, tutti i catanesi risvegliatasi e rivestitasi alla meglio, accorsero ad onorare la “Santuzza”.
Nei secoli le manifestazioni popolari legate al culto della santa richiamavano gli antichi riti precristiani alla dea Iside; per questo s. Agata con il simbolismo delle mammelle tagliate e poi risanate, assume una possibile trasfigurazione cristiana del culto di Iside, la benefica Gran Madre.
Ciò spiegherebbe anche il patronato di s. Agata sui costruttori di campane, perché si sa, nei culti precristiani la campana era simbolo del grembo della Mater Magna. Le sue reliquie sono conservate nel duomo di Catania in una cassa argentea, opera di celebri artisti catanesi; vi è anche il busto argenteo della “Santuzza”, opera del 1376, che reca sul capo una corona, dono secondo la tradizione, di re Riccardo Cuor di Leone.
Il culto per s. Agata fu talmente grande, che fino al XVI secolo essa era contesa come appartenenza anche da Palermo; la questione è stata a lungo discussa, finché a Palermo il culto per la santa, fu soppiantato da quello per s. Rosalia. Anche a Roma fu molto venerata: papa Simmaco (498-514) eresse in suo onore una basilica sulla Via Aurelia e un’altra le fu dedicata da S. Gregorio Magno nel 593.
Nel XIII secolo nella sola diocesi di Milano si contavano ben 26 chiese a lei intitolate. Celebrazioni e ricorrenze per la sua festa avvengono un po’ in tutta Italia, perfino a San Marino, ma è Catania il centro più folcloristico e religioso del suo culto; le feste sono due, il 5 febbraio e il 17 agosto, con caratteristiche processioni con il prezioso busto della santa, custodito nel Duomo.
Vi sono undici Corporazioni di mestieri tradizionali, che sfilano in processione con le cosiddette ‘Candelore’: fantasiose sculture verticali in legno, con scomparti dove sono scolpiti gli episodi salienti della vita di s. Agata. Il busto argenteo, preceduto dalle ‘Candelore’ è posto a sua volta sul “fercolo”, una macchina trainata con due lunghe e robuste funi, da centinaia di giovani vestiti dal caratteristico ‘sacco’.
Tante altre manifestazioni popolari e folcloristiche, oggi non più in uso, accompagnavano nei tempi trascorsi questi festeggiamenti, a cui partecipava tutto il popolo con le Autorità di Catania, devotissimo alla sua ‘Santuzza’.
Secondo la tradizione cristiana, il 5 febbraio del 251 S.Agata spirò dopo il martirio.
Si narra che fosse una giovane catanese di nobile e ricca famiglia, che a 15 anni si convertì al Cristianesimo. Studi storico-giuridici recenti portano a pensare che avesse almeno 21 anni alla conversione, per via del titolo (diaconessa) impossibile da ottenere prima di quell'età, e non oltre i 25, a causa della Lex Laetoria con la quale è stata processata.
Secondo l'editto dell'imperatore Settimio Severo, i cristiani dovevano essere arrestati ed invitati ad abiurare la fede in Dio, pena la tortura e la morte.
Il proconsole di Catania, Quinziano, secondo la tradizione si era invaghito della giovane donna; o forse, da un punto di vista storico, era più probabilmente interessato all'enorme fortuna della sua famiglia; essendo stato respinto, inviò la cortigiana Afrodisia e le sue figlie, tutte donne molto corrotte, a tentare di farle pressioni psicologiche e portarla a negare la fede in Dio. Falliti tutti i tentativi, a causa della grande rettitudine di Agata, il proconsole decise di farla processare.
La giovane non volle abiurare la fede nemmeno dopo essere stata più volte frustata, lacerata con pettini di ferro, scottata con lamine infuocate e addirittura sottoposta alla terribile violenza dello strappo delle mammelle con una tenaglia.
Questo risvolto delle torture, costituirà in seguito il segno distintivo del suo martirio, infatti Agata viene rappresentata con i due seni posati su un piatto e con le tenaglie. Riportata in cella sanguinante e ferita, soffriva molto per il bruciore e dolore, ma sopportava tutto per l’amore di Dio; verso la mezzanotte mentre era in preghiera nella cella, le appare s. Pietro apostolo, accompagnato da un bambino porta lanterna, che la risana le mammelle amputate.
Trascorsi altri quattro giorni nel carcere, viene riportata alla presenza del proconsole, il quale visto le ferite rimarginate, domanda incredulo cosa fosse accaduto, allora la vergine risponde: “Mi ha fatto guarire Cristo”.
Allora Quinziano ordina che venga bruciata su un letto di carboni ardenti, con lamine arroventate e punte infuocate.
A questo punto, secondo la tradizione, mentre il fuoco bruciava le sue carni, non brucia il velo che lei portava; per questa ragione “il velo di sant’Agata” diventò da subito una delle reliquie più preziose; esso è stato portato più volte in processione di fronte alle colate della lava dell’Etna, avendo il potere di fermarla.
Mentre Agata spinta nella fornace ardente muore bruciata, un forte terremoto scuote la città di Catania e il Pretorio crolla parzialmente seppellendo due carnefici consiglieri di Quinziano; la folla dei catanesi spaventata, si ribella all’atroce supplizio della giovane vergine, il proconsole fa togliere Agata dalla brace e la fa riportare agonizzante in cella, dove muore qualche ora dopo.
Nel 1040 le reliquie della santa furono trafugate dal generale bizantino Giorgio Maniace, che le trasportò a Costantinopoli; ma nel 1126 due soldati della corte imperiale, il provenzale Gilberto ed il pugliese Goselmo, le riportarono a Catania dopo un’apparizione della stessa santa, che indicava la buona riuscita dell’impresa; la nave approdò la notte del 7 agosto in un posto denominato Ognina, tutti i catanesi risvegliatasi e rivestitasi alla meglio, accorsero ad onorare la “Santuzza”.
Nei secoli le manifestazioni popolari legate al culto della santa richiamavano gli antichi riti precristiani alla dea Iside; per questo s. Agata con il simbolismo delle mammelle tagliate e poi risanate, assume una possibile trasfigurazione cristiana del culto di Iside, la benefica Gran Madre.
Ciò spiegherebbe anche il patronato di s. Agata sui costruttori di campane, perché si sa, nei culti precristiani la campana era simbolo del grembo della Mater Magna. Le sue reliquie sono conservate nel duomo di Catania in una cassa argentea, opera di celebri artisti catanesi; vi è anche il busto argenteo della “Santuzza”, opera del 1376, che reca sul capo una corona, dono secondo la tradizione, di re Riccardo Cuor di Leone.
Il culto per s. Agata fu talmente grande, che fino al XVI secolo essa era contesa come appartenenza anche da Palermo; la questione è stata a lungo discussa, finché a Palermo il culto per la santa, fu soppiantato da quello per s. Rosalia. Anche a Roma fu molto venerata: papa Simmaco (498-514) eresse in suo onore una basilica sulla Via Aurelia e un’altra le fu dedicata da S. Gregorio Magno nel 593.
Nel XIII secolo nella sola diocesi di Milano si contavano ben 26 chiese a lei intitolate. Celebrazioni e ricorrenze per la sua festa avvengono un po’ in tutta Italia, perfino a San Marino, ma è Catania il centro più folcloristico e religioso del suo culto; le feste sono due, il 5 febbraio e il 17 agosto, con caratteristiche processioni con il prezioso busto della santa, custodito nel Duomo.
Vi sono undici Corporazioni di mestieri tradizionali, che sfilano in processione con le cosiddette ‘Candelore’: fantasiose sculture verticali in legno, con scomparti dove sono scolpiti gli episodi salienti della vita di s. Agata. Il busto argenteo, preceduto dalle ‘Candelore’ è posto a sua volta sul “fercolo”, una macchina trainata con due lunghe e robuste funi, da centinaia di giovani vestiti dal caratteristico ‘sacco’.
Tante altre manifestazioni popolari e folcloristiche, oggi non più in uso, accompagnavano nei tempi trascorsi questi festeggiamenti, a cui partecipava tutto il popolo con le Autorità di Catania, devotissimo alla sua ‘Santuzza’.
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