Buongiorno, oggi è il 13 giugno.
Il 13 giugno si celebra Sant'Antonio da Padova, nel ricordo della sua morte avvenuta il 13 giugno 1231.
Sant'Antonio è uno dei santi più popolari ed amati nel mondo, forse per il gran numero di miracoli che gli si attribuiscono, per le leggende fiorite intorno a lui, ma probabilmente proprio per il carisma che, lui vivente, si diffondeva alle persone che lo incontravano. Dalla Chiesa, sant'Antonio viene considerato come un eccezionale teologo, gran predicatore, guida dei cristiani e taumaturgo.
Della sua vita non si hanno che notizie piuttosto incerte, molte derivanti da agiografie successive, che man mano si arricchivano di particolari; di sicuro si sa che sant'Antonio, il cui vero nome era Fernando di Buglione, nacque a Lisbona da nobile famiglia portoghese discendente dal crociato Goffredo di Buglione, attorno all'anno 1190-1195 e che i genitori gli fecero impartire un'educazione umanistica - a quel tempo riservata a poche persone - nutrendo su di lui ambiziosi progetti. Ma Fernando ben presto decise di dedicarsi a Dio, entrando a 15 anni nell'Ordine dei Canonici Regolari di sant'Agostino, in un convento poco fuori la sua città natale, dove rimase per due anni, ampliando la sua già notevole cultura.
Si trasferì successivamente a Coimbra dove pensava di poter restare isolato dal mondo esterno, poichè egli aveva bisogno di raccoglimento, e dove sperava di approfondire gli studi di Teologia; ma l'ambiente di quel luogo, pervaso di mondanità e di potere, non faceva per lui che, aiutato da una straordinaria memoria, si diede anima e corpo alle scienze umane e teologiche. A Coimbra, probabilmente, venne ordinato sacerdote, intorno ai 25 anni ma, successivamente, decise di lasciare l'Ordine degli Agostiniani, per entrare in quello dei Francescani, più consono alle sue esigenze spirituali, colpito soprattutto dalla semplicità e dalla serenità di quei frati che spesso bussavano al suo convento per chiedere un pò di pane. Da loro si informò sulla Regola e sulla figura di san Francesco e a loro si unì con la promessa di potersi recare tra i saraceni, che in quel tempo perseguitavano i cristiani e che avevano messo a morte parecchi frati francescani, ottenendo il consenso dopo molte difficoltà. Rivestito del saio francescano, cambiò anche il nome in quello di Antonio, stabilendosi nella piccola comunità di frati che, rispettando il loro impegno, lo lasciarono partire per il Marocco. Una provvidenziale malattia lo costrinse a rientrare subito in patria ma, come si sa, "le vie del Signore sono infinite" e mentre la nave rientrava in Portogallo, una tempesta la dirottò verso la Sicilia dove sant'Antonio, ospitato dai confratelli di Messina, recuperò le forze. Intanto ad Assisi stava per svolgersi il Capitolo generale dei frati minori (1221), presieduto da san Francesco, a cui tutti i frati erano invitati. Anche Antonio si incamminò verso la cittadina umbra dove potè vedere ed udire il gran Santo, sia pur senza conoscerlo, convincendosi sempre più della bontà della scelta di vita intrapresa.
Successivamente si recò all'eremo di Montepaolo in Romagna dove Antonio celebrava la Messa, partecipava alle preghiere comuni e alla povera vita conventuale, senza mai lasciar intendere la sua enorme cultura, fino a quando, nel 1222, mentre si trovava a Forlì per un'ordinazione, non essendo presente alcun altro, dal Superiore gli venne richiesto di prendere la parola. Fu così che le sue doti si rivelarono in pieno e gli venne affidato dunque l'incarico di predicare nelle piazze e nelle chiese, percorrendo l'Italia e la Francia, a partire dalla Romagna, sempre a contatto con il popolo a cui si proponeva non solo come predicatore, ma come confessore, insegnante, cercando di riportare sulla retta via gli eretici (venne chiamato anche il martello degli eretici), molto diffusi a quel tempo, in particolar modo i catari.
Qui sono ambientati molti dei prodigi che gli vengono attribuiti, come quello della predica ai pesci, accorsi numerosi ad ascoltare la sua parola, mentre era stato respinto e schernito dagli eretici.
Nel 1223-24, San Francesco, pur mancando di profonda istruzione e non volendo sprecar tempo per lo studio a discapito della preghiera, sentiva però che era necessario un corso di studi regolari anche per il suo Ordine e, riconoscendo la profonda cultura di sant'Antonio, lo incaricò di aprire una scuola di Teologia (Studium francescanum) che ebbe tra i Frati Minori esponenti di spicco quali san Bonaventura e Duns Scoto.
Verso la fine del 1224, sant'Antonio venne inviato in Francia per tentare di arginare l'eresia degli Albigesi; fu predicatore e maestro di teologia a Montpellier, importante centro universitario, baluardo dell'ortodossia cattolica, a Limoges assunse un incarico di governo come custode e infine fu ad Arles per il capitolo Provinciale dela Provenza dove, mentre Antonio teneva un sermone, apparve in bilocazione san Francesco che aveva appena ricevuto le stigmate, che li benedisse tutti; insegnò a Tolosa dove è ambientato un altro miracolo a lui attribuito: quello del mulo che adorò l'Eucarestia.
Nel 1227 ritornò in Italia, di nuovo a capo della provincia di Romagna; da lì, visitava periodicamente tutti i suoi conventi che diventavano sempre più numerosi e, su incarico di papa Gregorio IX - che lo definì "Arca del Testamento" - nel 1228 predicherà nella settimana di Quaresima. Spesso i suoi sermoni erano dedicati a Maria, della cui Assunzione era un convinto assertore. Sembra che le prediche furono tenute davanti ad una folla di varia provenienza e che ognuno lo sentisse parlare nella propria lingua. Viaggerà ancora senza risparmiarsi, pur con grande stanchezza e varie malattie che lo tormentavano (soffriva d'asma e di idropisia), stabilendosi poi finalmente nel convento di Padova, città ricca di commerci e industrie e molto popolosa. A questo popolo, si dedicherà sant'Antonio con tutto se stesso, mettendo da parte una sua opera dottrinale, i Sermones, in cui risaltavano i suoi temi preferiti: i precetti della fede, della morale e della virtù, l'amore di Dio e la pietà verso i poveri, la preghiera e l'umiltà, la mortificazione, scagliandosi contro l'orgoglio e la lussuria, l'avarizia e l'usura di cui era acerrimo nemico. Ma quest'opera resterà incompiuta perchè si dedicherà senza risparmio, danneggiando anche la sua già precaria salute, alla predicazione al popolo, lasciando anche il suo incarico di Provinciale. Intorno a lui si raccoglievano folle mai viste che nessuna chiesa o piazza potevano contenere, per cui ci si spostava in aperta campagna dove il santo predicava e confessava senza sosta.
Si ricordano, in questo periodo, due suoi interventi a favore dei cittadini: la riforma del Codice statutario repubblicano grazie alla quale un debitore insolvente ma senza colpa, dopo aver ceduto tutti i beni non poteva più essere anche incarcerato e tenne testa ad Ezzelino da Romano, soprannominato il Feroce, perchè in un solo giorno aveva fatto massacrare undicimila padovani che gli erano ostili, affinchè liberasse i capi guelfi incarcerati.
Nel 1231, a primavera inoltrata, Antonio decise di spostarsi in campagna, per non distogliere i contadini dal loro lavoro e per prendersi un po' di riposo dopo il duro impegno degli anni precedenti, trasferendosi a Camposampiero, accompagnato da due frati, Luca Belludi e fra Ruggero, ospite del conte Tiso che gli approntò una piccola cella su di un grande albero, dove avrebbe potuto pregare in pace; ben presto però la notizia si diffuse e gruppi sempre più numerosi di fedeli si radunarono sotto il noce per vedere e ascoltare Antonio. Durante questo soggiorno una tradizione locale pone la Visione di Gesù Bambino, che altre testimonianze collocano in Francia. Il fenomeno potrebbe anche essersi ripetuto, viste le particolari doti del Santo.
Si racconta che una sera Tiso, mentre si recava nella stanza del Santo, vide sprigionarsi dall'uscio socchiuso un intenso chiarore e, pensando che si trattasse di un incendio, spalancò la porta, ma si trovò dinanzi ad una scena inattesa: Antonio stringeva tra le braccia Gesù Bambino. Scomparsa la visione, il Santo si accorse della presenza del conte e lo pregò di non farne parola con nessuno. Solo dopo la morte di Antonio, infatti, egli diffuse notizia di quello di cui era stato spettatore.
L'unica data certa della vita del Santo è proprio quella della sua morte, avvenuta il 13 giugno 1231. Verso mezzogiorno Antonio fu colpito da un collasso e i confratelli accortisi della gravità della situazione, come da suo desiderio, si accinsero a riportarlo al convento di Santa Mater Domini, adagiandolo su un carro trainato da buoi e si incamminarono verso Padova, ma alla periferia della città le sue condizioni si aggravarono talmente che essi decisero di ricoverarlo nel vicino monastero di Santa Maria de Cella (Arcella), dove viveva una comunità di Clarisse. Antonio venne adagiato in una cella e pregò insieme agli altri frati fino all'ultimo, cantando con un filo di voce un inno alla Vergine, rimanendo poi assorto in contemplazione. Morì a 36 anni non compiuti. Erano circa le cinque del pomeriggio. Si racconta che mentre stava per spirare ebbe la visione del Signore e che al momento della sua morte, nella città di Padova, frotte di bambini presero a correre e a gridare che il Santo era morto.
Subito dopo, il suo corpo venne conteso tra il convento dove era spirato e quello di Santa Maria, e si ebbero delle vere e proprie sommosse popolari, ma alla fine si giunse a un accordo e la salma fu trasportata nella chiesa di Padova. L'arca che conteneva le spoglie di Antonio fu collocata su colonne attraverso cui passavano le folle dei devoti che da ogni dove andavano a rendergli omaggio e che in tal modo si ponevano simbolicamente sotto la sua protezione. Dopo la sua deposizione si produssero molti miracoli, alcuni documentati da testimoni. Anche in vita Antonio aveva operato decine e decine di miracoli quali esorcismi, profezie, guarigioni, compreso il riattaccare una gamba recisa o un piede, rendendo innocui cibi avvelenati, mostrandosi in vari posti contemporaneamente, qualche volta anche con Gesù Bambino in braccio.
La sua vita, la sua predicazione e i suoi miracoli fecero sì che Antonio venisse subito canonizzato, dopo solo un anno dalla morte, il 30 maggio 1232, da Papa Gregorio IX e il suo corpo venne deposto, nel 1263, in una nuova e più ampia chiesa - che sorge vicino al convento di Santa Maria Mater Domini - che fosse in grado di accogliere le schiere di pellegrini devoti al Santo. In quest'occasione, venne aperto il sarcofago in cui si scoprì che la sua lingua era rimasta intatta e S. Bonaventura da Bagnoregio, che era presente, la mostrò alla folla con commozione, esclamando"O lingua benedetta, che sempre hai benedetto il Signore e lo hai fatto benedire dagli altri, ora è a tutti noto quanto merito hai acquistato presso Dio". Assieme alla lingua, anche il mento e un dito del Santo vennero posti in vari reliquiari, conservati nella Cappella del tesoro presso la Basilica, mentre il corpo fu posto in una nuova cassa, sigillato e deposto nell'arca. Una seconda ricognizione, attuata nel 1981, ha dato modo di constatare che i sigilli apposti da S. Bonaventura nel 1263 erano ancora intatti.
Nel 1946 Pio XII ha proclamato sant'Antonio, Dottore della Chiesa.
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sabato 13 giugno 2020
martedì 10 marzo 2020
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 10 marzo.
Il 10 Marzo secondo la liturgia cristiana si celebra tra gli altri San Giovanni Ogilvie.
Giovanni Ogilvie (Ogilby) nacque nel 1579 a Drum in Scozia e di lui non si sa nulla con certezza prima del 1593, anno in cui fu inviato quattordicenne sul Continente a studiare, come facevano molte famiglie facoltose della Gran Bretagna con i loro figli in quell’epoca.
Si convertì al cattolicesimo ed entrò nel Collegio scozzese di Douai in Francia; nel 1595 si trasferì a Lovanio in Belgio, dove venne affidato alla guida di padre Cornelio a Lapide. Tre anni dopo nel 1598, lasciò Lovanio per proseguire gli studi a Ratisbona, in Germania, nel Collegio dei benedettini scozzesi, poi presso i gesuiti ad Olmütz, dove sentì la chiamata di Dio allo stato religioso; ottenne così di essere ammesso al noviziato gesuita di Brunn in Moravia, in cui entrò il 24 dicembre 1599, aveva vent’anni.
Nel 1607 era a Vienna come docente di sacra eloquenza, compito tenuto per due anni, nel biennio successivo è di nuovo al Olmütz a studiare teologia; viene consacrato sacerdote a Parigi nel 1610 e destinato a Rouen.
Ma il suo desiderio sin dai tempi di Lovanio era quello di ritornare nella sua patria, la Scozia, per lavorare nelle missioni cattoliche; bisogna ricordare che in tutta la Gran Bretagna era in corso la persecuzione anticattolica, attuata nel periodo della Riforma anglicana e che in quegli anni era sostenuta dal re Giacomo I Stuart (1566-1625); in Scozia pur essendo della stessa intensità nelle restrizioni e sofferenze, fece comunque pochissime vittime.
Dopo più di due anni di richieste, rivolte anche al generale gesuita Claudio Acquaviva, fu esaudito e nell’autunno del 1613 poté partire e sbarcare a Leith, un sobborgo di Edimburgo.
Dopo 22 anni di assenza riuscì finalmente ad entrare in Scozia con la falsa identità di ‘capitano Watson’. Prese ad operare nell’apostolato missionario ad Edimburgo, ospite di Guglielmo Sinclair, avvocato al Parlamento e fervente cattolico; celebrava clandestinamente le s. Messe frequentatissime, predicando fattivamente ai tanti cattolici che meditavano con interesse la sua parola; si spinse, travestito, anche nelle carceri a confortare i molti cattolici prigionieri.
Si recò anche a Londra e Glasgow e fu proprio in questa città, che venne arrestato il 4 ottobre 1614, su denuncia di Adam Boyd, fatta all’arcivescovo protestante.
Subì per quattro mesi dolorosissime torture restando sempre strettamente incatenato, tanto da poter compiere pochissimi movimenti; finì davanti ai giudici scozzesi per cinque volte, dal 1614 al 1615; rimangono due resoconti molto particolareggiati dei processi, uno redatto dallo stesso Giovanni Ogilvie e completato dai compagni di prigionia, l’altro è costituito dalla relazione ufficiale inglese fatta scrivere dall’arcivescovo protestante Spottiswood, subito dopo il supplizio del martire.
Il 10 marzo 1615, il sacerdote venne dichiarato reo di lesa maestà dal tribunale di Glasgow e condannato a morte mediante impiccagione; la sentenza venne eseguita nel pomeriggio dello stesso giorno, sulla forca innalzata al centro della città, nel crocevia detto “Glasgow Cross”.
Contrariamente agli altri condannati, gli fu risparmiato lo scempio dello squartamento dopo morto (non si finisce mai di restare sgomenti davanti alle efferatezze inventate dagli esseri umani contro i suoi stessi simili, lungo il corso dei secoli).
Fu subito sepolto nel cimitero dei condannati e dei suoi resti non se ne seppe più nulla. La sua causa di beatificazione fu associata nel 1922 a quelle di numerosi martiri inglesi, ma l’episcopato, il clero e i cattolici scozzesi, richiesero un trattamento separato per la gloria della Chiesa di Scozia.
Fu beatificato il 22 novembre 1929 da papa Pio XI e canonizzato da papa Paolo VI il 17 ottobre 1976.
Il 10 Marzo secondo la liturgia cristiana si celebra tra gli altri San Giovanni Ogilvie.
Giovanni Ogilvie (Ogilby) nacque nel 1579 a Drum in Scozia e di lui non si sa nulla con certezza prima del 1593, anno in cui fu inviato quattordicenne sul Continente a studiare, come facevano molte famiglie facoltose della Gran Bretagna con i loro figli in quell’epoca.
Si convertì al cattolicesimo ed entrò nel Collegio scozzese di Douai in Francia; nel 1595 si trasferì a Lovanio in Belgio, dove venne affidato alla guida di padre Cornelio a Lapide. Tre anni dopo nel 1598, lasciò Lovanio per proseguire gli studi a Ratisbona, in Germania, nel Collegio dei benedettini scozzesi, poi presso i gesuiti ad Olmütz, dove sentì la chiamata di Dio allo stato religioso; ottenne così di essere ammesso al noviziato gesuita di Brunn in Moravia, in cui entrò il 24 dicembre 1599, aveva vent’anni.
Nel 1607 era a Vienna come docente di sacra eloquenza, compito tenuto per due anni, nel biennio successivo è di nuovo al Olmütz a studiare teologia; viene consacrato sacerdote a Parigi nel 1610 e destinato a Rouen.
Ma il suo desiderio sin dai tempi di Lovanio era quello di ritornare nella sua patria, la Scozia, per lavorare nelle missioni cattoliche; bisogna ricordare che in tutta la Gran Bretagna era in corso la persecuzione anticattolica, attuata nel periodo della Riforma anglicana e che in quegli anni era sostenuta dal re Giacomo I Stuart (1566-1625); in Scozia pur essendo della stessa intensità nelle restrizioni e sofferenze, fece comunque pochissime vittime.
Dopo più di due anni di richieste, rivolte anche al generale gesuita Claudio Acquaviva, fu esaudito e nell’autunno del 1613 poté partire e sbarcare a Leith, un sobborgo di Edimburgo.
Dopo 22 anni di assenza riuscì finalmente ad entrare in Scozia con la falsa identità di ‘capitano Watson’. Prese ad operare nell’apostolato missionario ad Edimburgo, ospite di Guglielmo Sinclair, avvocato al Parlamento e fervente cattolico; celebrava clandestinamente le s. Messe frequentatissime, predicando fattivamente ai tanti cattolici che meditavano con interesse la sua parola; si spinse, travestito, anche nelle carceri a confortare i molti cattolici prigionieri.
Si recò anche a Londra e Glasgow e fu proprio in questa città, che venne arrestato il 4 ottobre 1614, su denuncia di Adam Boyd, fatta all’arcivescovo protestante.
Subì per quattro mesi dolorosissime torture restando sempre strettamente incatenato, tanto da poter compiere pochissimi movimenti; finì davanti ai giudici scozzesi per cinque volte, dal 1614 al 1615; rimangono due resoconti molto particolareggiati dei processi, uno redatto dallo stesso Giovanni Ogilvie e completato dai compagni di prigionia, l’altro è costituito dalla relazione ufficiale inglese fatta scrivere dall’arcivescovo protestante Spottiswood, subito dopo il supplizio del martire.
Il 10 marzo 1615, il sacerdote venne dichiarato reo di lesa maestà dal tribunale di Glasgow e condannato a morte mediante impiccagione; la sentenza venne eseguita nel pomeriggio dello stesso giorno, sulla forca innalzata al centro della città, nel crocevia detto “Glasgow Cross”.
Contrariamente agli altri condannati, gli fu risparmiato lo scempio dello squartamento dopo morto (non si finisce mai di restare sgomenti davanti alle efferatezze inventate dagli esseri umani contro i suoi stessi simili, lungo il corso dei secoli).
Fu subito sepolto nel cimitero dei condannati e dei suoi resti non se ne seppe più nulla. La sua causa di beatificazione fu associata nel 1922 a quelle di numerosi martiri inglesi, ma l’episcopato, il clero e i cattolici scozzesi, richiesero un trattamento separato per la gloria della Chiesa di Scozia.
Fu beatificato il 22 novembre 1929 da papa Pio XI e canonizzato da papa Paolo VI il 17 ottobre 1976.
mercoledì 5 febbraio 2020
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 5 febbraio.
Secondo la tradizione cristiana, il 5 febbraio del 251 S.Agata spirò dopo il martirio.
Si narra che fosse una giovane catanese di nobile e ricca famiglia, che a 15 anni si convertì al Cristianesimo. Studi storico-giuridici recenti portano a pensare che avesse almeno 21 anni alla conversione, per via del titolo (diaconessa) impossibile da ottenere prima di quell'età, e non oltre i 25, a causa della Lex Laetoria con la quale è stata processata.
Secondo l'editto dell'imperatore Settimio Severo, i cristiani dovevano essere arrestati ed invitati ad abiurare la fede in Dio, pena la tortura e la morte.
Il proconsole di Catania, Quinziano, secondo la tradizione si era invaghito della giovane donna; o forse, da un punto di vista storico, era più probabilmente interessato all'enorme fortuna della sua famiglia; essendo stato respinto, inviò la cortigiana Afrodisia e le sue figlie, tutte donne molto corrotte, a tentare di farle pressioni psicologiche e portarla a negare la fede in Dio. Falliti tutti i tentativi, a causa della grande rettitudine di Agata, il proconsole decise di farla processare.
La giovane non volle abiurare la fede nemmeno dopo essere stata più volte frustata, lacerata con pettini di ferro, scottata con lamine infuocate e addirittura sottoposta alla terribile violenza dello strappo delle mammelle con una tenaglia.
Questo risvolto delle torture, costituirà in seguito il segno distintivo del suo martirio, infatti Agata viene rappresentata con i due seni posati su un piatto e con le tenaglie. Riportata in cella sanguinante e ferita, soffriva molto per il bruciore e dolore, ma sopportava tutto per l’amore di Dio; verso la mezzanotte mentre era in preghiera nella cella, le appare s. Pietro apostolo, accompagnato da un bambino porta lanterna, che la risana le mammelle amputate.
Trascorsi altri quattro giorni nel carcere, viene riportata alla presenza del proconsole, il quale visto le ferite rimarginate, domanda incredulo cosa fosse accaduto, allora la vergine risponde: “Mi ha fatto guarire Cristo”.
Allora Quinziano ordina che venga bruciata su un letto di carboni ardenti, con lamine arroventate e punte infuocate.
A questo punto, secondo la tradizione, mentre il fuoco bruciava le sue carni, non brucia il velo che lei portava; per questa ragione “il velo di sant’Agata” diventò da subito una delle reliquie più preziose; esso è stato portato più volte in processione di fronte alle colate della lava dell’Etna, avendo il potere di fermarla.
Mentre Agata spinta nella fornace ardente muore bruciata, un forte terremoto scuote la città di Catania e il Pretorio crolla parzialmente seppellendo due carnefici consiglieri di Quinziano; la folla dei catanesi spaventata, si ribella all’atroce supplizio della giovane vergine, il proconsole fa togliere Agata dalla brace e la fa riportare agonizzante in cella, dove muore qualche ora dopo.
Nel 1040 le reliquie della santa furono trafugate dal generale bizantino Giorgio Maniace, che le trasportò a Costantinopoli; ma nel 1126 due soldati della corte imperiale, il provenzale Gilberto ed il pugliese Goselmo, le riportarono a Catania dopo un’apparizione della stessa santa, che indicava la buona riuscita dell’impresa; la nave approdò la notte del 7 agosto in un posto denominato Ognina, tutti i catanesi risvegliatasi e rivestitasi alla meglio, accorsero ad onorare la “Santuzza”.
Nei secoli le manifestazioni popolari legate al culto della santa richiamavano gli antichi riti precristiani alla dea Iside; per questo s. Agata con il simbolismo delle mammelle tagliate e poi risanate, assume una possibile trasfigurazione cristiana del culto di Iside, la benefica Gran Madre.
Ciò spiegherebbe anche il patronato di s. Agata sui costruttori di campane, perché si sa, nei culti precristiani la campana era simbolo del grembo della Mater Magna. Le sue reliquie sono conservate nel duomo di Catania in una cassa argentea, opera di celebri artisti catanesi; vi è anche il busto argenteo della “Santuzza”, opera del 1376, che reca sul capo una corona, dono secondo la tradizione, di re Riccardo Cuor di Leone.
Il culto per s. Agata fu talmente grande, che fino al XVI secolo essa era contesa come appartenenza anche da Palermo; la questione è stata a lungo discussa, finché a Palermo il culto per la santa, fu soppiantato da quello per s. Rosalia. Anche a Roma fu molto venerata: papa Simmaco (498-514) eresse in suo onore una basilica sulla Via Aurelia e un’altra le fu dedicata da S. Gregorio Magno nel 593.
Nel XIII secolo nella sola diocesi di Milano si contavano ben 26 chiese a lei intitolate. Celebrazioni e ricorrenze per la sua festa avvengono un po’ in tutta Italia, perfino a San Marino, ma è Catania il centro più folcloristico e religioso del suo culto; le feste sono due, il 5 febbraio e il 17 agosto, con caratteristiche processioni con il prezioso busto della santa, custodito nel Duomo.
Vi sono undici Corporazioni di mestieri tradizionali, che sfilano in processione con le cosiddette ‘Candelore’: fantasiose sculture verticali in legno, con scomparti dove sono scolpiti gli episodi salienti della vita di s. Agata. Il busto argenteo, preceduto dalle ‘Candelore’ è posto a sua volta sul “fercolo”, una macchina trainata con due lunghe e robuste funi, da centinaia di giovani vestiti dal caratteristico ‘sacco’.
Tante altre manifestazioni popolari e folcloristiche, oggi non più in uso, accompagnavano nei tempi trascorsi questi festeggiamenti, a cui partecipava tutto il popolo con le Autorità di Catania, devotissimo alla sua ‘Santuzza’.
Secondo la tradizione cristiana, il 5 febbraio del 251 S.Agata spirò dopo il martirio.
Si narra che fosse una giovane catanese di nobile e ricca famiglia, che a 15 anni si convertì al Cristianesimo. Studi storico-giuridici recenti portano a pensare che avesse almeno 21 anni alla conversione, per via del titolo (diaconessa) impossibile da ottenere prima di quell'età, e non oltre i 25, a causa della Lex Laetoria con la quale è stata processata.
Secondo l'editto dell'imperatore Settimio Severo, i cristiani dovevano essere arrestati ed invitati ad abiurare la fede in Dio, pena la tortura e la morte.
Il proconsole di Catania, Quinziano, secondo la tradizione si era invaghito della giovane donna; o forse, da un punto di vista storico, era più probabilmente interessato all'enorme fortuna della sua famiglia; essendo stato respinto, inviò la cortigiana Afrodisia e le sue figlie, tutte donne molto corrotte, a tentare di farle pressioni psicologiche e portarla a negare la fede in Dio. Falliti tutti i tentativi, a causa della grande rettitudine di Agata, il proconsole decise di farla processare.
La giovane non volle abiurare la fede nemmeno dopo essere stata più volte frustata, lacerata con pettini di ferro, scottata con lamine infuocate e addirittura sottoposta alla terribile violenza dello strappo delle mammelle con una tenaglia.
Questo risvolto delle torture, costituirà in seguito il segno distintivo del suo martirio, infatti Agata viene rappresentata con i due seni posati su un piatto e con le tenaglie. Riportata in cella sanguinante e ferita, soffriva molto per il bruciore e dolore, ma sopportava tutto per l’amore di Dio; verso la mezzanotte mentre era in preghiera nella cella, le appare s. Pietro apostolo, accompagnato da un bambino porta lanterna, che la risana le mammelle amputate.
Trascorsi altri quattro giorni nel carcere, viene riportata alla presenza del proconsole, il quale visto le ferite rimarginate, domanda incredulo cosa fosse accaduto, allora la vergine risponde: “Mi ha fatto guarire Cristo”.
Allora Quinziano ordina che venga bruciata su un letto di carboni ardenti, con lamine arroventate e punte infuocate.
A questo punto, secondo la tradizione, mentre il fuoco bruciava le sue carni, non brucia il velo che lei portava; per questa ragione “il velo di sant’Agata” diventò da subito una delle reliquie più preziose; esso è stato portato più volte in processione di fronte alle colate della lava dell’Etna, avendo il potere di fermarla.
Mentre Agata spinta nella fornace ardente muore bruciata, un forte terremoto scuote la città di Catania e il Pretorio crolla parzialmente seppellendo due carnefici consiglieri di Quinziano; la folla dei catanesi spaventata, si ribella all’atroce supplizio della giovane vergine, il proconsole fa togliere Agata dalla brace e la fa riportare agonizzante in cella, dove muore qualche ora dopo.
Nel 1040 le reliquie della santa furono trafugate dal generale bizantino Giorgio Maniace, che le trasportò a Costantinopoli; ma nel 1126 due soldati della corte imperiale, il provenzale Gilberto ed il pugliese Goselmo, le riportarono a Catania dopo un’apparizione della stessa santa, che indicava la buona riuscita dell’impresa; la nave approdò la notte del 7 agosto in un posto denominato Ognina, tutti i catanesi risvegliatasi e rivestitasi alla meglio, accorsero ad onorare la “Santuzza”.
Nei secoli le manifestazioni popolari legate al culto della santa richiamavano gli antichi riti precristiani alla dea Iside; per questo s. Agata con il simbolismo delle mammelle tagliate e poi risanate, assume una possibile trasfigurazione cristiana del culto di Iside, la benefica Gran Madre.
Ciò spiegherebbe anche il patronato di s. Agata sui costruttori di campane, perché si sa, nei culti precristiani la campana era simbolo del grembo della Mater Magna. Le sue reliquie sono conservate nel duomo di Catania in una cassa argentea, opera di celebri artisti catanesi; vi è anche il busto argenteo della “Santuzza”, opera del 1376, che reca sul capo una corona, dono secondo la tradizione, di re Riccardo Cuor di Leone.
Il culto per s. Agata fu talmente grande, che fino al XVI secolo essa era contesa come appartenenza anche da Palermo; la questione è stata a lungo discussa, finché a Palermo il culto per la santa, fu soppiantato da quello per s. Rosalia. Anche a Roma fu molto venerata: papa Simmaco (498-514) eresse in suo onore una basilica sulla Via Aurelia e un’altra le fu dedicata da S. Gregorio Magno nel 593.
Nel XIII secolo nella sola diocesi di Milano si contavano ben 26 chiese a lei intitolate. Celebrazioni e ricorrenze per la sua festa avvengono un po’ in tutta Italia, perfino a San Marino, ma è Catania il centro più folcloristico e religioso del suo culto; le feste sono due, il 5 febbraio e il 17 agosto, con caratteristiche processioni con il prezioso busto della santa, custodito nel Duomo.
Vi sono undici Corporazioni di mestieri tradizionali, che sfilano in processione con le cosiddette ‘Candelore’: fantasiose sculture verticali in legno, con scomparti dove sono scolpiti gli episodi salienti della vita di s. Agata. Il busto argenteo, preceduto dalle ‘Candelore’ è posto a sua volta sul “fercolo”, una macchina trainata con due lunghe e robuste funi, da centinaia di giovani vestiti dal caratteristico ‘sacco’.
Tante altre manifestazioni popolari e folcloristiche, oggi non più in uso, accompagnavano nei tempi trascorsi questi festeggiamenti, a cui partecipava tutto il popolo con le Autorità di Catania, devotissimo alla sua ‘Santuzza’.
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agosto
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