Buongiorno, oggi è il 15 novembre.
Il 15 novembre 1943, come rappresaglia per l'uccisione del commissario fascista Igino Ghisellini, vengono fucilati 11 antifascisci, nel cosiddetto eccidio del castello estense.
La mattina del 14 novembre 1943 Igino Ghisellini, reggente della federazione del fascio di Ferrara, atteso in città dai suoi collaboratori per recarsi a Verona al primo congresso del partito fascista repubblicano, non si presentò all'appuntamento. I fascisti si recarono immediatamente a Casumaro, dalla moglie del federale, e a Cento, dal fratello, dove appresero che egli la sera precedente non si era visto, ma questo non aveva destato nessuna apprensione dal momento che entrambi non lo attendevano.
I giovani appartenenti al P.F.R, che in quei primi tre mesi di tentativo di restaurazione fascista avevano collaborato con Ghisellini, tra i quali Carlo Govoni, convinto assertore, in seguito, della tesi, che lo condusse a morire a Dachau, secondo la quale il reggente estense era stato ucciso da fascisti corrotti che il federale aveva deciso di denunciare a Verona e Carlo Tortonesi, futuro capo della polizia speciale dei Tupin che portò il terrore a Ferrara e nella provincia nei mesi successivi, si recarono dal capo della provincia Berti per informarlo della scomparsa.
La salma di Ghisellini venne ritrovata verso le dieci del mattino del 14 novembre, riversa in un fossato a poca distanza da Castel D'Argile, in provincia di Bologna, ma a breve distanza dal territorio ferrarese. Dai documenti raccolti in quasi quindici anni di ricerche presso l'Archivio Centrale dello Stato e l'Archivio di stato della città estense fu immediatamente evidente che quello del federale di Ferrara si presentava agli occhi degli studiosi come un vero e proprio giallo.
Il cadavere venne ritrovato supino, con la testa poggiata sulla spalla sinistra; era senza scarpe (infatti gli erano stati rubati sia gli stivali sia la rivoltella) e risultava essere stato colpito da cinque colpi di arma da fuoco, di cui quattro alla regione temporale destra ed uno ala mandibolare sinistra. Il corpo venne immediatamente esaminato dal dottor Rubini, medico condotto del luogo, il quale constatò il già elevato grado di rigidità cadaverica, che faceva risalire quasi con certezza la morte a diverse ore prima del ritrovamento. Il referto medico conferiva spessore e credibilità alla deposizione resa al Vice Brigadiere Francesco la Porta, comandante della stazione dei Carabinieri del paese, da Alfredo Corticelli, abitante nella zona del rinvenimento del cadavere il quale, dopo averne denunciato la presenza nel fossato, raccontò all'inquirente che la sera precedente, verso le 22 e 30, mentre rincasava, aveva notato un'automobile FIAT 1100 targata 7260 FE, che la mattina seguente era stata ritrovata a pochi metri dal corpo.
A condizionare il dibattito sulla morte di Ghisellini, che per decenni si sarebbe sviluppato tra storici, ricercatori e pubblicisti, il reperimento, sulla strada che da Cento conduce a Ferrara, a cinquecento metri dal chilometro 30, sul lato sinistro, di frammenti di vetro che, in seguito, gli inquirenti avrebbero appurato appartenere alla macchina del federale, accanto ai quali era presente una grossa macchia di sangue coagulato. Fatto questo che aveva fatto dedurre che, con tutta probabilità, Ghisellini, si fosse fermato per far salire qualcuno, presumibilmente un uomo in divisa, che li, poi, lo aveva freddato. Non appena a Ferrara giunse la notizia del rinvenimento del cadavere il clima all'interno della federazione del P.F.R. si fece incandescente. Ciro Randi e Alessandro Benea, furono incaricati di partire per Verona per informare il segretario del partito Alessandro Pavolini, già messo a conoscenza della scomparsa del federale, della morte di Ghisellini.
Pavolini comunicò la notizia all'assemblea che l'accolse con un prevedibile scoppio di grida e di incitazioni alla vendetta contro gli antifascisti, già individuati come gli autori dell'omicidio del federale estense.
Egli ordinò che i lavori continuassero, mentre le squadre d'azione di Padova e di Verona e con loro Enrico Vezzalini, futuro capo della provincia estense, avrebbero dovuto recarsi nella città estense per attuare una rappresaglia esemplare. In quella giornata e sino ad alta notte, giunsero a Ferrara alcune delle personalità che, insieme a Vezzalini, che era stato uno dei giudici al processo di Verona dove si era decisa la condanna a morte di Ciano e degli altri gerarchi che avevano tradito Mussolini, meglio seppero interpretare l'anima violenta e vendicatrice della R.S.I. nel tragico biennio 1943-1945: il console Giovan Battista Riggio e il bolognese Franz Pagliani. Per tutta la giornata gli uomini arrivati dall'esterno si consultarono con i fascisti ferraresi per mettere in atto una rappresaglia, secondo le direttive del potere centrale, cosi cruenta da diventare esemplare e da non poter essere dimenticata. Riggio, Pagliani e Vezzalini si scontrarono con forza con il prefetto Berti, in seguito sostituito a Ferrara dallo stesso Vezzalini, che tentava di limitare la portare della strage che si stava organizzando. Secondo numerose testimonianze fu proprio Vezzalini, dopo tante discussioni, ad elaborare l'elenco degli uomini da uccidere, basandosi anche, si diceva, sulle carte che Ghisellini avrebbe dovuto portare con sé a Verona per denunciare i fascisti corrotti.
Sei degli undici civili che la mattina del 15 novembre 1943 vennero tragicamente trucidati di fronte al muretto del castello estense e sulle mura cittadine, Emilio Arlotti, Mario e Vittore Hanau, Arturo Torboli, Gerolamo Savonuzzi e Mario Zanatta vennero prelevati direttamente dalle proprie abitazioni, mentre l'operaio Cinzio Belletti, colpito a morte in via Previati, probabilmente, pagò con la vita la sfortuna di aver assistito casualmente a quanto in quella terribile notte stava accadendo. Gli altri, vennero prelevati dalle carceri, dove erano stati ristretti tra il sette e l'otto ottobre precedente, in seguito all'arresto, richiesto dai fascisti locali appena ritornati al potere. Il direttore del carcere dottor Gusmano, in assenza di un ordine scritto, cercò in tutti i modi di opporsi e per questo venne condotto presso la federazione del P.F.R. dove, dopo essere stato più volte minacciato di morte, lo convinsero alla consegna di Giulio Piazzi, Ugo Teglio, Pasquale Colagrande ed Alberto Vita Finzi.
Si trattò di una strage che colpi profondamente l'animo dei cittadini ferraresi, al punto tale che due dei maggiori artisti contemporanei della città estense, lo scrittore Giorgio Bassani e il regista Florestano Vancini, vollero fermare per sempre quei drammatici frangenti in due opere che restarono tra le più importanti di tutta la loro produzione. Non è difficile comprendere lo sgomento causato negli abitanti di Ferrara dalla vista dei corpi ammassati di fronte al muretto del Castello, lasciati esposti alle offese ed alla malvagità e volgarità delle camicie nere e rimossi solo dopo il pietoso intervento dell'Arcivescovo di Ferrara Monsignor Ruggero Bovelli. Come ricorda uno dei maggiori storici italiani, Claudio Pavone, si trattò del primo eccidio di civili compiuto in Italia dai fascisti e proprio a quell'episodio può essere ricondotto l'inizio della guerra che oppose i fascisti, alleati ai tedeschi, agli italiani che lottavano per la libertà. Per questo motivo, nei decenni successivi il dopoguerra ed ancora oggi, l'attribuzione dell'omicidio di Ghisellini ai fascisti o ai partigiani che si andavano organizzando ha rivestito e riveste un'importanza tanto rilevante.
Alla luce delle ricerche appare impossibile stabilire con certezza chi abbia ucciso il reggente della federazione estense, anche se gli archivi continuano a fornire materiale che rispetto al passato, sembra avvalorare con sempre maggiore forza la presenza, all'interno del P.F.R. estense, sin dai primi mesi della sua fondazione, di scontri pesantissimi che culminarono proprio nell'uccisione dello scomodo gerarca. Sin dai primi anni '90 è noto agli storici, e suffragato da ampia documentazione, il fatto che Ghisellini, con i giovani che lo avevano attorniato nei tre mesi della sua presenza a Ferrara, avevano individuato i numerosi fascisti che, durante il periodo badogliano, avevano lavorato per prepararsi a quando, dopo la fine della guerra, il fascismo sarebbe stato superato. Tra i nomi, e i documenti e gli studi lo provano ampliamente, erano presenti esponenti di spicco delle gerarchie fasciste ferraresi pre 25 luglio: Giulio Divisi, Olao Giaggioli e persino il prefetto Giovanni Dolfin, rimasto in carica durante i '45 giorni" ad occuparsi delle epurazioni dei suoi stessi ex compagni di partito e, quindi, nuovamente approvato al fascismo e alla R.S.I. e in settembre trasferito a Salò quale segretario particolare di Mussolini.
Che all'interno della federazione estense numerosi fossero quelli convinti che Ghisellini era stato ucciso a causa di una faida interna é testimoniato da molteplici documenti nei quali si trova notizia delle denunce che costrinsero le autorità di polizia, ma anche la dirigenza del P.F.R., a mettere in piedi indagini per raccogliere testimonianze sul clima e sui fatti di quei giorni. I dubbi, negli anni, furono avvalorati, inoltre, dal ritrovamento presso l'Archivio Centrale dello Stato di un telegramma in data 24 gennaio 1944 con il quale Benito Mussolini, in tono perentorio, sollecitava Vezzalini a portare avanti le indagini, rilevando che, dopo diverse settimane, non si era ancora ottenuto nessun risultato. Era evidente che lo stesso capo del governo, con grande probabilità sollecitato dalla famiglia del gerarca, che vedeva quanto stava accadendo a Ferrara, dubitasse con forza di quanto si stava facendo in loco per arrivare a determinare gli esecutori e i mandanti dell'assassinio.
La documentazione raccolta nell'ultimo decennio fornisce più di una possibile spiegazione del motivo per cui non si giunse mai ad individuare con certezza i mandanti e gli esecutori dell'omicidio del federale. Lo storico, infatti, non può non restare colpito dai documenti che evidenziano come da una parte la rappresaglia fascista colpi con forza l'ambiente antifascista borghese cittadino, mentre le indagini sia delle autorità di Polizia sia dello stesso P.F.R. andarono tutte nella direzione di cercare gli autori all'interno dello stesso fascismo, cosa che, è evidente, non poteva essere certo pubblicizzata. Un dato di fatto è che la moglie di Ghisellini, Alfonsina Trentini, affermò immediatamente e con risolutezza che a causa del clima politico e dei precedenti avvertimenti era impossibile che il marito avesse accolto in auto uno sconosciuto. Allo stesso modo il milite Edgardo Baresi, che aveva il compito di accompagnare il federale che in quei giorni aveva la macchina in riparazione, raccontò agli inquirenti che Ghisellini era un uomo chiuso e riservato, ma che in quei tragitti, proprio a causa della difficile e confusa situazione che stava vivendo il fascismo, gli aveva dispensato consigli e raccomandazioni circa il modo nel quale avrebbe dovuto comportarsi, evidenziando che si doveva essere molto attenti perché si era circondati da nemici potenti.
Era stato ancora il federale a specificare che era assolutamente necessario vigilare perché, soprattutto di notte, nessuno si avvicinasse alla federazione, diffidando di chiunque indossasse una divisa sia italiana sia tedesca, visto che dopo l'8 settembre era molto più semplice procurarsele. Il federale, che aveva consigliato a Baiesi di cambiare tragitto ogni volta che lo accompagnava, quindi, era ben conscio della situazione che stava vivendo e appare certo che mai quella notte si sarebbe fermato all'alt di un militare. I documenti più recenti, inoltre, ci hanno permesso di ricostruire perché, proprio quella sera, Ghisellini fosse solo.
Secondo la testimonianza del milite Baiesi, infatti, quella sera, poco prima dell'ora di cena, egli era stato invitato in federazione dove aveva trovato lo stesso reggente, Benea e Borellini e proprio quest'ultimo gli aveva consegnato due biglietti da recapitare urgentemente a Calura e a Ghilardoni, rispettivamente a Cassana e a San Bartolomeo. Questi particolari rendono assolutamente impossibile credere alle versioni che volevano che il federale fosse stato ucciso dai partigiani in divisa fascista, dopo essere stato fermato mentre percorreva la strada verso Cento, dove, per altro, è stato stabilito non era atteso. Data la situazione descritta e la ormai accertata circospezione della vittima, ben più complessa ed articolata avrebbe dovuto essere, per avere successo, un'azione condotta dai partigiani. Anche volendo tralasciare il non ancora elevato, sia a Ferrara sia a Bologna, livello di organizzazione dei partigiani, risulta difficile giustificare il fatto che gli antifascisti fossero a conoscenza che proprio quella sera il reggente si sarebbe mosso da solo, se non ipotizzando il non certo impossibile contatto tra questi ultimi e qualcuno che, all'interno del fascismo, avesse interesse all'eliminazione di Ghisellini.
Che gli stessi fascisti dubitassero dell'accaduto, oltre che dalla tragica vicenda di Carlo Govoni, il giovane che fu mandato a morire a Dachau perché non si stancò mai di denunciare i fascisti che secondo lui erano responsabili dell'omicidio di Ghisellini, appare evidente anche dalle indagini interne al partito che fecero emergere grossi dubbi proprio sulla figura di Cesare Borellini, l'uomo che aveva dato a Baiesi i biglietti da consegnare a Calura e Ghilardoni e a causa dei quali il federale era rimasto senza scorta. Borellini la sera del delitto era stato accompagnato a casa da Alessandro Benea, perché aveva detto di essere febbricitante: in realtà, proprio in quei frangenti, secondo alcune deposizioni di compagni di partito, la moglie lo aveva cercato in federazione. Dove fosse non si seppe anche se, alcuni testimoni concordavano nel dire che, il giorno successivo, sul suo volto erano evidenti i segni di un graffio. Di grande interesse, a proposito, il fatto che Borellini, Ghilardoni e Calura, dopo i tragici fatti del novembre 1943, scomparirono dalla scena politica della R.S.I..
Ancora oggi non è possibile stabilire con certezza chi abbia ucciso Ghisellini, ma la mole crescente di documenti permettono ormai di descrivere con grande precisione la situazione esistente all'interno del fascismo repubblicano nei primi mesi della R.S.I. dove gli scontri e le contrapposizioni erano all'ordine del giorno.
Quello che è evidente è che si trattò di un episodio fondamentale per comprendere le linee strategiche e politiche della R.S.I. su tutto il territorio che ne fu interessato. Infatti, dopo la terribile strage di civili, venne coniato il motto 'Ferrarizzare l'Italia" che dimostrava come i fascisti tornati al potere non si facessero certo scrupolo, pur senza avere nessuna sicurezza sugli esecutori dell'omicidio ed anzi ben sapendo che esisteva la possibilità di pesanti coinvolgimenti di esponenti del P.F.R., ad addossare all'antifascismo le responsabilità dell'accaduto, uccidendo, al solo scopo di creare terrore e asservimento, persone che avevano quale unico torto quello di essere contrari al fascismo ed alla dittatura.
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