Buongiorno, oggi è il 23 novembre.
Il 23 novembre 2003 Eduard Shevardnadze viene deposto in quella che fu battezzata la rivoluzione delle rose.
Nel novembre 2003 migliaia di persone scendono in piazza a Tbilisi per protestare contro i presunti brogli elettorali che avrebbero così consentito nuovamente all’ottantenne Eduard Shevarnadze di essere eletto Presidente della Repubblica: la Georgia è catapultata sulla scena internazionale. Quella che sarà chiamata Rivoluzione delle Rose, e che ispirerà poi le altre rivoluzioni floreali o colorate, è salutata con entusiasmo e fiducia dalle democrazie occidentali: Shevarnadze dopo giorni di tensioni e manifestazioni di protesta rassegnerà le sue dimissioni e partirà alla volta di Mosca, dopo essersi assicurato l’immunità. Nel gennaio 2004 Mikhail Saakashvili, leader carismatico della rivoluzione di velluto, viene eletto con il 97,5% delle preferenze Presidente della Repubblica: la Georgia si appresta a voltare pagina, la gente che non aveva espresso un semplice voto, ma riposto una speranza, prova a rialzare la china; ma il sentiero che porta alla democrazia e allo sviluppo economico e sociale è estremamente complicato e “Misha”, il più giovane capo di Governo, è chiamato a rispondere in maniera rapida alle attese di una popolazione la cui maggioranza vive sotto la soglia minima di sopravvivenza. Gli obiettivi primari sono il pagamento regolare delle pensioni, l’aumento dei salari, la riduzione dell’inflazione, la lotta alla corruzione, ma anche il problema delle dipendenze dalla Russia, il vicino scomodo (ma non sempre), sia sotto l’aspetto del rifornimento energetico (pressoché totale), sia sotto quello dello sbocco commerciale dei propri prodotti (buona parte); a ciò si aggiunge l’annoso problema dei separatismi in Abchazia e Ossezia del Sud, fomentati certamente dalla Russia.
I primi mesi dell’era Saakashvili sono più che soddisfacenti, soprattutto alla luce di due obiettivi importantissimi realizzati dal Governo: l’accordo per il ritiro delle ultime due basi militari russe dal territorio georgiano, e la liberazione dell’Adjara dalle dipendenze del dittatore Aslan Abashidze; d’altronde il Presidente, durante il suo giuramento sulla tomba di di Re David IV, conosciuto come Aghmashenebeli o il “costruttore” grazie all’unificazione dei principati georgiani, aveva promesso di mantenere l’integrità territoriale gravemente minacciata. Forte dell’appoggio di Washington che oltre al programma Train and Equip, destinato all’ammodernamento dell’esercito, stanzia milioni di dollari per lo sviluppo economico del Paese, Saakashvili riesce nei primi mesi a dare una scossa alla vita economica della Georgia, profondamente segnata dall’ empasse dell’era Shevarnadze, lanciando una sferrata lotta alla corruzione, favorendo l’afflusso di crediti da parte del FMI e della World Bank, nonostante un debito estero di 1.8 miliardi di dollari, accelerando le trattative per l’ingresso del Paese sia nella NATO che nella UE, inaugurando l’oleodotto più lungo del mondo, ossia il Baku-Tbilisi-Cheyan (BTC) che trasporta petrolio dal Mar Caspio fino alle coste della Turchia, un incentivo importante, unito ad una nuova politica energetica, nel tentativo di ridurre le dipendenze da Mosca. Ma con i mesi Saakashvili sembra perdere consensi: accusato di forte accentramento di poteri, di criminalizzare l’opposizione, piuttosto esigua visto la soglia di sbarramento in Parlamento del 7%, di non aver apportato le riforme necessarie e previste nella Costituzione e nell’apparato produttivo, di mascherare dietro un forte nazionalismo, che a volte ricorda quello tragico di Gamsakhurdia e che ha portato al riesplodere dei conflitti in Abchazia ed Ossezia del Sud, la sua politica fallimentare.
Colui che si era ripromesso di portare entro 75 anni la Georgia agli standard di vita occidentali adesso viene definito “democrate senza democrazia”: ai nuovi problemi sorti nella giovane democrazia s’intrecciano gli interessi delle grandi Potenze, Russia e Usa su tutte, che si contendono il controllo della regione caucasica. Brzezinski definì la Georgia chiave del Sud Caucaso, e gli interessi degli Usa, mascherati non troppo dietro le sovvenzioni per lo sviluppo economico e sociale di Tbilisi, sembrano avvalorarne la tesi, nonostante la Russia lo neghi, contraddetta però dal tentativo di non perdere altro terreno in quello che in molti hanno già definito il “grande gioco”: la partita, per il momento, sembra essere pilotata verso un pareggio, un equilibrio di interessi certamente favorito anche dalla lotta al terrorismo che vede coinvolte sia Usa che Russia; ma lo scenario dove si sta giocando questa gara resta comunque fragile, un’instabilità che ha radici storiche e che non sembra assolutamente sopita. La sensazione che oggi aleggia sulla Georgia, e sul Caucaso in generale, è che non solo la rivoluzione delle rose sia stata una rivoluzione mancata, ma che altre rivoluzioni floreali o colorate possano verificarsi per semplici cambiamenti di Governo o per variazioni di interessi che poggiano sul fragile filo degli equilibri tra le grandi Potenze.
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