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domenica 12 marzo 2023

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 12 marzo.
Il 12 marzo 1863 nasce Gabriele D'Annunzio.
Gabriele D'Annunzio nasce a Pescara da famiglia borghese, che vive grazie alla ricca eredità dello zio Antonio D'Annunzio. Compie gli studi liceali nel collegio Cicognini di Prato, distinguendosi sia per la sua condotta indisciplinata che per il suo accanimento nello studio unito ad una forte smania di primeggiare. Già negli anni di collegio, con la sua prima raccolta poetica Primo vere, pubblicata a spese del padre, ottiene un precoce successo, in seguito al quale inizia a collaborare ai giornali letterari dell'epoca. Nel 1881, iscrittosi alla facoltà di Lettere, si trasferisce a Roma, dove, senza portare a termine gli studi universitari, conduce una vita sontuosa, ricca di amori e avventure. In breve tempo, collaborando a diversi periodici, sfruttando il mercato librario e giornalistico e orchestrando intorno alle sue opere spettacolari iniziative pubblicitarie, il giovane D'Annunzio diviene figura di primo piano della vita culturale e mondana romana.
Dopo il successo di Canto novo e di Terra vergine (1882), nel 1883 hanno grande risonanza la fuga e il matrimonio con la duchessina Maria Hardouin di Gallese, unione da cui nasceranno tre figli, ma che, a causa dei suoi continui tradimenti, durerà solo fino al 1890. Compone i versi l'Intermezzo di rime ('83), la cui «inverecondia» scatena un'accesa polemica; mentre nel 1886 esce la raccolta Isaotta Guttadàuro ed altre poesie, poi divisa in due parti L'Isottèo e La Chimera (1890).
Ricco di risvolti autobiografici è il suo primo romanzo Il piacere (1889), che si colloca al vertice di questa mondana ed estetizzante giovinezza romana. Nel 1891 assediato dai creditori si allontana da Roma e si trasferisce insieme all'amico pittore Francesco Paolo Michetti a Napoli, dove, collaborando ai giornali locali trascorre due anni di «splendida miseria». La principessa Maria Gravina Cruyllas abbandona il marito e va a vivere con il poeta, dal quale ha una figlia. Alla fine del 1893 D'Annunzio è costretto a lasciare, a causa delle difficoltà economiche, anche Napoli.
Ritorna, con la Gravina e la figlioletta, in Abruzzo, ospite ancora del Michetti. Nel 1894 pubblica, dopo le raccolte poetiche Le elegie romane ('92) e Il poema paradisiaco ('93) e dopo i romanzi Giovanni Episcopo ('91) e L'innocente ('92), il suo nuovo romanzo Il trionfo della morte. I suoi testi inoltre cominciano a circolare anche fuori dall'Italia.
Nel 1895 esce La vergine delle rocce, il romanzo in cui si affaccia la teoria del superuomo e che dominerà tutta la sua produzione successiva. Inizia una relazione con l'attrice Eleonora Duse, descritta successivamente nel romanzo «veneziano» Il Fuoco (1900); e avvia una fitta produzione teatrale: Sogno d'un mattino di primavera ('97), Sogno d'un tramonto d'autunno, La città morta ('98), La Gioconda ('99), Francesca da Rimini (1901), La figlia di Jorio (1903).
Nel '97 viene eletto deputato, ma nel 1900, opponendosi al ministero Pelloux, abbandona la destra e si unisce all'estrema sinistra (in seguito non verrà più rieletto). Nel '98 mette fine al suo legame con la Gravina, da cui ha avuto un altro figlio. Si stabilisce a Settignano, nei pressi di Firenze, nella villa detta La Capponcina, dove vive lussuosamente prima assieme alla Duse, poi con il suo nuovo amore Alessandra di Rudinì. Intanto escono Le novelle della Pescara (1902) e i primi tre libri delle Laudi: Maia, Elettra, Alcyone (1903).
Il 1906 è l'anno dell'amore per la contessa Giuseppina Mancini. Nel 1910 pubblica il romanzo Forse che sì, forse che no, e per sfuggire ai creditori, convinto dalla nuova amante Nathalie de Goloubeff, si rifugia in Francia.
Vive allora tra Parigi e una villa nelle Lande, ad Arcachon, partecipando alla vita mondana della belle époque internazionale. Compone opere in francese; al «Corriere della Sera» fa pervenire le prose Le faville del maglio; scrive la tragedia lirica La Parisina, musicata da Mascagni, e anche sceneggiature cinematografiche, come quella per il film Cabiria (1914).
Nel 1912, a celebrazione della guerra in Libia, esce il quarto libro delle Laudi (Merope. il quinto, Asterope, sarà completato nel 1918 e i restanti due, sebbene annunciati, non usciranno mai). Nel 1915, nell'imminenza dello scoppio della prima guerra mondiale, torna in Italia. Riacquista un ruolo di primo piano, tenendo accesi discorsi interventistici e, traducendo nella realtà il mito letterario di una vita inimitabile, partecipa a varie e ardite imprese belliche, ampiamente autocelebrate. Durante un incidente aereo viene ferito ad un occhio. A Venezia, costretto a una lunga convalescenza, scrive il Notturno, edito nel 1921.
Nonostante la perdita dell'occhio destro, diviene eroe nazionale partecipando a celebri imprese, quali la beffa di Buccari e il volo nel cielo di Vienna. Alla fine della guerra, conducendo una violenta battaglia per l'annessione all'Italia dell'Istria e della Dalmazia, alla testa di un gruppo di legionari nel 1919 marcia su Fiume e occupa la città, instaurandovi una singolare repubblica, la Reggenza italiana del Carnaro, che il governo Giolitti farà cadere nel 1920. Negli anni dell'avvento del Fascismo, nutrendo una certa diffidenza verso Mussolini e il suo partito, si ritira, celebrato come eroe nazionale, presso Gardone, sul lago di Garda, nella villa di Cargnacco, trasformato poi nel museo-mausoleo del Vittoriale degli Italiani. Qui, pressoché in solitudine, nonostante gli onori tributatigli dal regime, raccogliendo le reliquie della sua gloriosa vita, il vecchio esteta trascorre una malinconica vecchiaia sino alla morte avvenuta il primo marzo 1938.
Non c'è critico letterario esaltatore o detrattore italiano che non si è soffermato sull'opera dannunziana. Dall'analisi minuta del Palmieri, che ha commentato i Versi d'amore e di Gloria, alla riduttiva visione di Sapegno, che di D'Annunzio salva soltanto poche pagine (L'Alcyone, innanzitutto), la critica ha sviscerato ogni opera di D'Annunzio, giungendo spesso a tesi contrapposte.
I critici letterari di solito inquadrano, nel suo complesso, l'opera di D'Annunzio nell'ambito del decadentismo, come forma di "esaltazione orgogliosa del proprio Io" richiamando pure alla sua opera motivi di ispirazione quali l'amore del poeta per oggetti arcaici, mistico-superstiziosi e colorostici della terra d'Abruzzo, l'estetismo raffinato e prezioso, l'esaltazione eroica e sovrumana, alimentata sia dall'ammirazione per gli eroi del mondo classico e del Rinascimento Italiano, sia dalle dottrine di Nietzsche, da lui spogliate da ogni vigore speculativo, chiuse entro i limiti di compartimenti estetizzanti.
Ricordiamo che col termine "decadentismo" si designò da principio un movimento letterario ed artistico nato a Parigi nel 1880 (Verlaine); fu in seguito che tale termine cominciò ad indicare atteggiamenti di poetica e di poesia di gran parte della lirica francese, a partire da Baudelaire. In Italia la parola "decadentismo" venne usata per indicare tutta la letteratura nata in contrasto con il positivismo e la società "borghese". Nel "Breviario dell'estetica" (1912) Benedetto Croce scrisse che "i raffinamenti voluttuosi e la sensualità animalesca dell'odierno internazionale decadentismo hanno avuto forse la migliore espressione nelle prose e nei versi di un italiano, il D'Annunzio".
Tali motivi hanno indotto taluno a dire che l'arte di D'Annunzio è da considerarsi come testimonianza di una raffinata e consumata abilità letteraria. Per il Flora D'Annunzio volle fare della sua vita un poema, una rappresentazione pagana: "Così egli empi del suo uomo un vasto periodo della storia italiana, né soltanto per le opere di poesia, di prosa e di teatro, ma per il rilievo che diede alla sua persona civile, nella vita pubblica, nell'impresa di Fiume, nella guerra e fin nella vita mondana". Anche da qui si deduce come sia stata frammentaria l'arte dannunziana, affidata spesso ad una fugace impressione, ad una incantata suggestione della parola, di cadenze e di ritmi.
Il Flora ha scritto: "Il poeta adoperò "La Divina" parola in due modi di opposta natura: l'uno immediato, volto all'azione tutta senso ed effetto; l'altro liricamente mediato, volto a schiarire l'azione, già diventata soltanto memoria o desiderio nella trasparenza del canto".
Se da scrittori della classicità e del suo tempo trasse motivi e parole, non lo fece per puro gusto delle lettere, perché - continua il Flora - "l'animo ch'egli portò nell'apprendere e scovare i testi del passato non fu veramente letterario; fu nei casi migliori di quella natura fonica aderente alla propria capacità di miti sonori. Nei casi più frequenti fu un modo sensuoso di richiamare o ripetere i piaceri visivi o olfattivi o auditivi e tattili che le parole evocarono: animo che tende meglio alla magia del senso che non alla lirica apprensione delle pure lettere".
Se i miti, che D'Annunzio ha inventati, sono l'immaginazione di una metamorfosi di D'Annunzio medesimo così come: "Il fiume è la mia vena. Il monte è la mia fronte", la massima trasfigurazione è per lui mutare un oggetto in un suono che lo ricordi. Eppure, malgrado la creazione dei miti, un vago sgomento della Morte "nemica" indusse D'Annunzio a popolare di solitudine la vita. "La sua solitudine fu soprattutto quel non sentirsi in armonia morale con l'Universo, lui che, specie in giovinezza, poteva vivere col mondo in armonia muscolare". E sempre il Flora continua: "Ma non basta, per non fare scadere l'arte, sentirsi tutt'uno con la terra, bisogna sentirsi in armonia con l'anima stessa del mondo; accordare il proprio canto su quell'armonia Universale che, all'esterno, è un fatto morale; è, anzi, l'essenza religiosa dell'Uomo". Per questo fatto si ha un primo ed ultimo D'Annunzio a seconda del genio poetico, del mondo creativo più o meno felice. E' difficile comunque tracciare uno spartiacque tra l'una o l'altra opera poetica o in prosa perché nelle une e nelle altre si trovano il genio dannunziano più o meno felice.
D'Annunzio influenzò la cultura italiana in diverso modo, con differente intensità a seconda che uno o più dei suoi caratteri del momento spirituale-storico diveniva prevalente, così egli è l'artefice laborioso ne "Il trionfo della morte", il superuomo ritagliato dalla dottrina del filosofo Nietzsche e l'esteta che il Croce ne precisa gli ambiti: "C'è nel D'Annunzio gran profusione di sensazioni elementari: odori di mare, di muschi, di fieni, di erbe in fiore, di capelli, di cose vive; sapori di arance, di pesche; impressioni dell'umidore vuluttuoso di turgide frutta, di movimenti dell'organismo, come del sangue che fermenta nelle arterie, al sentire "rapide" gorgogliare e "rosse le scaturigini della vita"; e poi di colori, di tanti colori di tante gradazioni, specialmente metalliche, che, a quel tempo porsero facile appicco a scherzare parodie". D'Annunzio fu certamente lo scrittore ed il poeta che ebbe fra i due secoli vasta risonanza in Italia ed anche in Europa e che influì sulla letteratura e sul costume del tempo.
Certo D'Annunzio uomo e poeta può essere anche discusso perché passioni ed avventure umane e letterarie hanno attraversato la irrepetibile vita, ma egli è stato cantore della "diversità della vita" per cui una è la vita, nel suo ardore, nel suo eroismo, nella sua sensualità, ma tante sono le esperienze. E il poeta vuole provarle tutte "Tutto fu ambito / e tutto fu tentato"; "Nessuna cosa mi fu aliena / nessuna mi sarà  / Mai".
Infatti, in D'Annunzio si trovano pagine realistiche, veristiche, naturalistiche, decadentistiche, liriche, romantiche, compostamente classiche, simbolistiche e, volendo, talune futuristiche. Sono assai rilevanti le tracce lasciate da questo poeta nella letteratura, in particolare nella poesia italiana del Novecento, come testimonia il Montale ricordando che "tutti sono passati attraverso il D'Annunzio, foss'anche solo per negarlo!" "Questo nostro contemporaneo, scrive Rinaldo Orengo, che pare uomo da leggenda, dominò spiritualmente per oltre mezzo secolo l'Italia e con l'Italia almeno una parte della vecchia Europa".
La durevole influenza di D'Annunzio sul pubblico fu dovuta e alle sue doti di scrittore e alla sua capacità di seguire l'evoluzione del gusto, ma anche e soprattutto alla coincidenza tra la sua ideologia e gli atteggiamenti di pensiero e di sentimenti che al suo tempo si venivano definendo, prima in un pubblico ristretto poi, sempre di più, in larghi strati di un ceto medio.
"D'Annunzio - scrive Petronio Marando - fu tra i primi a partecipare alla dissoluzione del positivismo". Infatti, il Nostro scrisse nel 1893: "La scienza è incapace di ripopolare il disertato cielo, di rendere la felicità alle anime di cui ella ha distrutto l'ingenua pace". Così, D'Annunzio divenne il predicatore di un vago spiritualismo, aristocratico quanto generico. "E fu tra i polemisti più acri contro la democrazia, contro la borghesia al potere, proclama la necessità di una nuova oligarchia, che poi cambia ed i suoi eroi non sono più gli aristocratici che debbono generare il futuro "re di Roma", ma, sono mitici eroi del passato, robusti fondatori di città capaci di affascinare le folle, oppure il borghese d'eccezione, esploratore, dispregiatore del mondo circostante, capace, per realizzare il suo sogno d'azione, di infrangere le leggi e di affrontare il delitto e il disonore ("Più che l'amore"). Ma D'Annunzio fu anche tra i primi poeti del colonialismo ed il cantore della spedizione libica per cui, per la sua capacità retorica, ha certamente favorito l'affermarsi di un nazionalismo bellicoso. Con "Forse che si, forse che no" (1910) celebrò le nuove macchine, l'automobile, e l'aeroplano, che stavano ormai cambiando la vita dell'uomo."
D'Annunzio cercò anche di recuperare una parte del mondo operaio propugnando una sorta di alleanza fra capitale e aristocrazia operaia. Ci sembra di potere dire che fu questa specifica evoluzione che portò D'Annunzio ad accostarsi alla "folla", anche se lo fece con modi estetizzanti (Parola, Poesia, Verso, Bellezza, usati come strumenti di un'azione capace di incidere sulla realtà del mondo) ed anche attraverso l'azione della sua opera letteraria ed artistica, dietro la quale vivevano le tesi dello scrittore le quali incontravano, se non proprio combaciavano, certe tendenze del pubblico.
Questo complesso movimento di azione e di opere coagulò attorno a D'Annunzio folle di intellettuali e di gente comune le quali si specchiarono e talvolta finirono con l'identificarsi. Comunque sia, le tracce di cui si parlava all'inizio assurgono, ora a semplici punti di riferimento ora invece ad importanti capisaldi, a seconda della visione che si ha della vita e dei contenuti spirituali ed artistici di Gabriele D'Annunzio. Però una cosa è certa: egli ha comunque attraversato tutta la cultura del primo Novecento lasciando segnali dappertutto.
Un'ultima nota, tra le tante che si potrebbero fare, ci sembra possa essere questa: benché D'Annunzio sia stato l'uomo delle contraddizioni, in bilico tra esibizionismo e ricerca della verità, il mito della parola ha preso il sopravvento con il metro dell'utilizzazione sonora con una forza talmente esplodente che si manifesterà anche nella musica, appunto in D'Annunzio come musicologo. Inoltre, D'Annunzio si potrebbe anche ascrivere tra i letterati mitteleuropei del suo tempo, ciò in quanto ha tentato di sprovincializzare la cultura facendola assurgere a rango superiore. Vi è chi ha visto riferimenti dannunziani nelle opere di molti autori europei, specialmente in Pirandello e in Musil. A parte ciò, l'opera di D'Annunzio ha certamente affascinato molte fasce culturali se è stata tradotta in ben 18 lingue differenti.
V'è da segnalare infine un D'Annunzio attento all'arte e scopritore di un autoritratto di Luca Signorelli. Sentiamo in proposito il racconto che fa lo studioso Corrado Gizzi nel suo saggio "Luca Signorelli e la versatilità della sua tematica": "D'Annunzio visitò gli affreschi signorelliani nella Cappella di San Brizio nel Duomo di Orvieto. Nella scena urlante dei Dannati, un diavolo, in atto di abbracciare una bionda formosa, a differenza di tutti gli altri, ha un solo corno in fronte e capelli spioventi sulla spalla. La sua identità è solo apparentemente dissimulata dalle ispide e lunghe sopracciglia. Ad un esame attento, non sfugge che i connotati del volto rimandano all'autoritratto del Signorelli nell'affresco con l'Anticristo, nella stessa Cappella. Nessuno si accorse di tale identità, nemmeno Maria Luisa Fiume che pure scrisse "Il romanzo di Signorelli", riservando non poca attenzione alla bella peccatrice, da lei indicata col nome di Ginevra. Non sfuggì invece al D'annunzio "sia che la scena gli venisse mostrata da qualche erudito locale, cui poteva essere nota, sia che il poeta lo scoprisse da sé" (Scarpellini). Ne è testimonianza il primo sonetto da lui dedicato a Cortona e compreso nel secondo libro delle "Laudi".

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