Buongiorno, oggi è il 15 marzo.
Il 15 marzo del 2011 migliaia di persone scesero in piazza ad Aleppo e Damasco, le due città più grandi della Siria, per protestare contro il regime del presidente Bashar al-Assad. Fu una delle prime manifestazioni di dissenso di massa della storia recente del paese. Nei giorni successivi, il regime reagì con arresti, uccisioni, sparizioni e torture, ma senza riuscire a fermare l’opposizione. In poche settimane le proteste si allargarono a tutta la Siria. A maggio Assad fu costretto a schierare l’esercito nelle strade. Poche settimane dopo, con le prime diserzioni dalle forze armate e la nascita dei primi gruppi ribelli, cominciò la guerra civile siriana che, con un interesse via via calante da parte dei media internazionali, dura ancora oggi. In un paese di 22 milioni di abitanti, questi anni di guerra sono costati più di 160 mila morti, 3 milioni di profughi nei paesi vicini e almeno altri 5 milioni di profughi interni, cioè persone costrette ad abbandonare le loro case.
Nelle cronologie ufficiali, le proteste del 15 marzo sono ricordate come la data di inizio della guerra civile, anche se in realtà furono una risposta a un fatto accaduto una decina di giorni prima. Tutto era cominciato il 6 marzo del 2011 a Daraa, una città a maggioranza sunnita nel sud del paese, vicino alla Giordania: un gruppo di ragazzi dai 13 ai 16 anni scrisse alcuni graffiti sul muro di una scuola. “Il popolo vuole rovesciare il regime”, aveva scritto uno di loro.
A Daraa, in quei giorni, la situazione era piuttosto difficile. Oltre alla povertà e alla disoccupazione, che erano endemiche in tutto il paese, la città era piena di profughi arrivati dal nord del paese a causa della siccità a cui il governo non aveva saputo provvedere. Proprio in quelle settimane, nonostante la censura del regime, a Daraa, come nel resto del paese, arrivavano dal resto del mondo arabo le notizie di folle che, scese in piazza, erano riuscite a rovesciare il governo tunisino e quello egiziano.
C’era ovviamente della politica, in quelle scritte, ma – come ha raccontato al New York Times uno di quei ragazzi – c’era anche noia e un senso adolescenziale di ribellione all’autorità. Uno dei ragazzi aveva scritto: “È il tuo turno, dottore”. Un messaggio diretto, indirizzato proprio ad Assad, laureato in oftalmologia. Il giorno dopo la scuola era piena di poliziotti e agenti dei servizi di sicurezza. Uno a uno, una dozzina di ragazzi vennero arrestati e la polizia andò a prelevarli direttamente in casa.
Gli ufficiali promisero che i ragazzi sarebbero stati detenuti soltanto per poche ore. I giorni però passavano e i ragazzi non venivano liberati. I genitori si recarono dalle autorità di Daraa, chiedendo la liberazione dei loro figli. Vennero scacciati e un ufficiale disse loro, secondo quanto riporta CNN: «Dimenticatevi dei vostri figli. Se volete davvero dei figli, dovreste cominciare a pensare di farne degli altri. Se non sapete come fare, possiamo farvelo vedere noi».
La notizia degli arresti dei ragazzi di Daraa intanto si era diffusa, nonostante i tentativi di censura del regime. Il 16 marzo alcuni prigionieri politici cominciarono uno sciopero della fame nelle carceri siriane. Intanto le notizie si moltiplicavano: i ragazzi erano stati picchiati, torturati, forse uccisi. I ragazzi di Daraa non erano i soli: in tutta la Siria, migliaia di famiglie non sapevano nulla dei loro cari arrestati e fatti sparire dal regime. Con le notizie dei successi ottenuti dai manifestanti negli altri paesi arabi, alcuni attivisti siriani cominciarono ad organizzarsi. Come ha spiegato Neil Sammonds, uno dei responsabili di Amnesty International per la Siria: «Arriva il punto in cui l’insulto non è più sopportabile. Il popolo smette di inginocchiarsi e risponde».
Da cinquant’anni la Siria era governata dalla famiglia Assad tramite un costante stato di emergenza e l’uso massiccio della censura, dello spionaggio e dell’intimidazione del suo stesso popolo. Nei primi mesi della primavera araba la rete televisiva Al Jazeera definì la Siria “il regno del silenzio”, perché a, differenza dei suoi vicini, dall’interno dei suoi confini non sembrava alzarsi nessuna voce di protesta o di dissenso.
Non che mancassero le ragioni per dissentire dal regime. Oltre ad avere uno dei governi più repressivi e corrotti del Medio Oriente, la Siria – a differenza di Egitto e Tunisia – non ha una popolazione religiosamente ed etnicamente omogenea. Accanto alla maggioranza sunnita ci sono grosse minoranza di cristiani, di curdi e di alawiti, una setta islamica in qualche misura vicina agli sciiti e di cui fanno parte la famiglia Assad e gran parte dell’élite economica e militare del paese.
Queste tensioni emersero con particolare forza nel corso degli anni Settanta e culminarono nel 1982, quando le forze dei Fratelli Musulmani siriani occuparono la città di Hama, nella parte orientale del paese. L’esercito di Hafez al-Assad, il padre dell’attuale dittatore, bombardò la città per 27 giorni. Dopo l’occupazione della città ci furono esecuzioni di massa di tutti i sospetti simpatizzanti dei Fratelli Musulmani. Per essere sicuri di non farsi sfuggire nessun ribelle, i militari riempirono di benzina e incendiarono i tunnel sotto la città medioevale. Si calcola che l’assedio e le esecuzioni dopo l’occupazione abbiano causato la morte di almeno 10 mila persone – 40 mila secondo altre stime.
Negli anni successivi ci furono altre piccole insurrezioni, soprattutto tra i curdi che abitavano nel nord del paese. Per il resto il “regno del silenzio” rimase fedele al suo nome e pochissime voci di dissenso ne oltrepassarono i confini. Ancora il 4 marzo del 2011 BBC si chiedeva come mai in Siria non fosse avvenuta una rivoluzione di tipo egiziano. Le cose sarebbero cambiate molto presto.
Il 15 marzo, per la prima volta da molti anni, migliaia di persone in tutta la Siria scesero in piazza per protestare contro il regime. Migliaia di persone manifestarono a Damasco, ad Aleppo e nella stessa Daraa. In molte piazze le manifestazioni furono silenziose, con la gente che camminava tenendo in alto le foto dei parenti scomparsi. Altre manifestazioni furono più dure: la folla cantava slogan contro il regime e ci furono scontri violenti con i sostenitori di Assad e con la polizia. Il regime rispose con durezza e decine di persone vennero arrestate.
Mentre il governo aumentava la durezza delle sue misure repressive, le proteste crescevano di pari passo. Il 18 marzo, dopo la preghiera del venerdì, i manifestanti erano diventati migliaia e i cortei si erano diffusi in quasi tutte le città del paese. Le forze di sicurezza risposero caricando i manifestanti, usando lacrimogeni ed idranti. Almeno sei persone vennero uccise soltanto quel giorno. Dopo una settimana di tregua, il 25 marzo – di nuovo un venerdì, il giorno in cui si tengono solitamente le manifestazioni nei paesi musulmani – le proteste ricominciarono. Secondo alcuni testimoni, soltanto a Daraa più di 100 mila persone marciarono in un’enorme dimostrazione contro il governo. Almeno venti di loro vennero uccisi dalle forze di sicurezza.
Il governo di Assad reagì alle proteste con estrema durezza. Nel corso del mese di aprile l’esercito venne schierato contro i dimostranti e venne autorizzato l’utilizzo di armi da fuoco e carrarmati per disperdere i manifestanti. Nel contempo il governo fece anche alcune timide concessioni, promettendo ad esempio di revocare lo stato di emergenza in vigore da cinquant’anni. Ma, come ha raccontato il padre di uno dei ragazzi di Daraa: «La gente era diventata oramai incontrollabile».
Con la fine di aprile e l’inizio di maggio la repressione era ormai divenuta feroce e più di mille persone erano state uccise dall’esercito durante le dimostrazioni. Ma la violenza del regime aveva anche iniziato a causare una reazione. Soprattutto nel nord del paese, i manifestanti cominciarono ad assaltare le caserme delle forze di sicurezza e a impossessarsi delle loro armi. Costretti a sparare sulla folla, alcuni soldati siriani cominciarono a disertare e a unirsi ai manifestanti. Il 29 luglio, quattro mesi dopo le prime proteste, un gruppo di ufficiali disertori proclamò la nascita dell’Esercito Libero Siriano (la Free Syrian Army, FSA). Le manifestazioni contro il regime si erano trasformate in una guerra civile.
Dopo sette anni di guerra civile nessuna delle due parti è anche solo lontanamente arrivata vicina alla vittoria. Il regime ha ottenuto alcune importanti vittorie, anche grazie agli aiuti dei suoi alleati: l’Iran e, soprattutto, il movimento Hezbollah, che dal Libano ha inviato truppe addestrate e rifornimenti che sono stati molto utili per ottenere vittorie nel sud del paese. L’opposizione, invece, si è divisa. La parte più moderata, la cui forza principale è proprio l’Esercito Libero Siriano, gode di un certo appoggio internazionale (è stata invitata alle conferenze di pace organizzate a Ginevra) e di rifornimenti che arrivano probabilmente da paesi arabi come Arabia Saudita e Qatar.
Ma i moderati, oltre al governo, devono combattere anche contro i gruppi di ribelli islamici più estremisti e in particolare contro l’ISIS (una sigla che sta per “Stato islamico dell’Iraq e del Levante”). L’ISIS, negli ultimi anni, è diventata una delle formazioni militarmente più forti all’interno dell’opposizione. Alcuni segnali fanno ipotizzare che in certe aree si sia stabilita una tregua di fatto tra regime e ribelli islamici, in modo da permettere di concentrare le forze di entrambi contro i ribelli più moderati.
Gli sforzi della comunità internazionale per cercare di risolvere o mitigare il conflitto hanno ottenuto pochi risultati. Due conferenze di pace a Ginevra tra regime e ribelli moderati sono fallite senza ottenere quasi nessun risultato. Le spedizioni di soccorso internazionale alle città assediate dal regime, come Homs, non hanno avuto molto più successo. Gli sforzi per distruggere l’arsenale di armi chimiche del regime di Assad (che secondo gli ispettori internazionali è stato utilizzato almeno una volta contro i ribelli) proseguono ma ancora non è stata attuata la completa distruzione dell’arsenale chimico.
Di fronte a tutto questo, non stupisce che la guerra stia diventando sempre più violenta.
Viene organizzata una coalizione che raggruppa 11 paesi occidentali, inclusa l'Italia che però offre solo supporto logistico, aiuti umanitari ai profughi e armamento leggero alle milizie curde irachene.
Il 10 settembre 2014 il presidente americano Barak Obama apre alla possibilità di attaccare l'ISIS in Siria, affermando in una conferenza stampa: "Daremo la caccia ai terroristi ovunque si trovino. Significa che non esiterò a comandare operazioni anche in Siria".
Il 22 settembre si verificano i primi bombardamenti sul territorio siriano. Il governo viene informato con la mediazione dell'Iran, ma non viene consultato per coordinare gli attacchi o chiedere l'autorizzazione. Tuttavia viene rilasciata una dichiarazione che afferma: "la Siria appoggia ogni iniziativa internazionale nella lotta contro gli jihadisti". La coalizione guidata dagli Stati Uniti comprende 5 nazioni arabe: Bahrein, Giordania, Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Tra i primi obiettivi vi sono tutti i principali centri urbani controllati dall'ISIS, tra cui Raqqa e, inaspettatamente, anche postazioni del Fronte al-Nusra; in particolare viene attaccato il quartier generale del "Gruppo Khorasan.
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